Antonio Casto - 13 anni - Foggia
Liceo Scientifico Volta - Prof.ssa Antonella Costa

a) Una trama fortemente strutturata nella costruzione logica, capace di rendere credibile - e dunque tanto più lacerante- il suo crescendo narrativo, dalla divertita gag scolastica iniziale alla convulsa iperviolenza di un gran finale fra i più crudi.
b) Effetto "horror" ma anche effetto "psycho", entrambi perseguiti e raggiunti attivando a mo' di scenario corrette, e mai ingombranti, tematiche scientifiche, dall'entomologia alle turbe dell'io.
c) Sia pure sotto traccia, e sia pure con contenuta misura, un commosso immedesimarsi dell'Autore nel dolente stato d'essere del protagonista, applicando la civile lezione che occorre certamente essere vigili di fronte all'irrazionalità e alle sue fratture, ma non perciò meno umanamente solidali con chi ne è portatore e vittima.

 

Il Re

Mentre camminava lungo la strada gli sembrava di risentire continuamente quella frase. Ad ogni passo che faceva gli appariva intermittente in testa. Non poteva farne a meno. Gli veniva in testa e basta. Era diventata una maledetta ossessione, e il problema più grosso era che sapeva il motivo. Inconsciamente sapeva il motivo: non l'avrebbe mai ammesso a nessuno (neanche a sé stesso), ma lo sapeva. Sentiva dentro di sé una voce cattiva, precisamente la sua versione sadica, che gli diceva di non fare tante storie, di accettare il fatto e basta, senza cercare di nasconderlo a sé stesso, poiché era impossibile.
L'aforisma diceva:<<Chi ha paura e non lo afferma / si ritrova nella melma.>> Ovviamente in classe erano scoppiate subito le risate di tutti poiché "melma" poteva essere facilmente sostituito, mantenendo l'assonanza con "afferma", con la parola "merda". Ma lui no. Lui non aveva riso. Qualcosa gli era scattata. E lui l'aveva sentito. Aveva sentito un "clic" che aveva subito identificato come lo scatenamento del suo problema. Aveva sentito che quella rimetta aveva rotto gli argini della sua malattia, e adesso si trovava in guai seri.
La professoressa, con la boria e lo snobismo che l'avevano sempre contraddistinta, prima aveva fatto finta di non capire, quando gli altri avevano cominciato a ridere e la parola "merda" aveva serpeggiato nella classe, poi un ragazzo (il suo compagno più protervo e mordace, oltre che maleducato, ovviamente) le aveva detto:<<Quello che siete voi, professoressa!>>. Le risate erano dilagate in tutta la classe, più forti di prima, e allora la professoressa aveva capito. Ma lui, mentre tutto questo accadeva nella sua aula, durante la lezione di antologia, pensava ad altro: pensava a come avrebbe fatto ora, ora che il piccolo disturbo si era probabilmente trasformato in nevrosi acuta. E mentre tornava a casa ci pensava ancora di più.
Dentro di sé, in quel pozzo profondo del lato oscuro della mente di ognuno di noi che ci governa a nostra insaputa, qualcosa stava ragionando. Non era più il caso di nascondere tutto a tutti, perfino a sé stesso: era venuto il momento di cercare una cura a quel male. Per prima cosa, una volta tornato a casa, avrebbe cercato il nome della sua malattia sull'enciclopedia, e poi avrebbe cercato, magari su Internet, il metodo per combatterla. Sì, avrebbe fatto così.
La prima cosa che fece dopo essere tornato a casa fu invece buttarsi a pancia in giù sul letto, e dopo essere stato, con la mente svuotata da ogni pensiero, con la faccia sul cuscino per qualche minuto, si rigirò supino a guardare il lampadario verde che (almeno a quanto sembrava) gli sorrideva cinico dal soffitto. <<E' stato bello nascondere tutto, vero?>> diceva. <<Ed è bello adesso che il tuo "piccolo disturbo" non è più un "piccolo disturbo"? Pagane le conseguenze!>>. Il lampadario sembrava dirgli così, e poi sembrava ridergli in faccia, una di quelle risate grasse e profonde da cantante lirico, di quelle che ti fanno venire la pelle d'oca. Allora si alzò dal letto e andò alla ricerca del vecchio dizionario medico della mamma. Dopo un quarto d'ora di ricerca l'aveva trovato, ma la madre stessa lo chiamò perché era pronto il pranzo. Un'ora dopo era di nuovo in camera sua a sfogliare il dizionario medico, mentre il pomeriggio uggioso si andava trasformando in una serata tempestosa. Non era sicuro di trovare quello che cercava, anzi era alquanto scettico che la soluzione al suo problema si trovasse lì, in un dizionario. Ecco, ci era quasi arrivato: se la parola era lì, doveva essere in quella pagina. Mise il palmo sulla pagina e lo abbassò a mano a mano che leggeva le parole, per crearsi da solo un po' di suspense. APRASSIA, APROSTADIL, APUDOMA... abbassò la mano di un altro centimetro e... ARBOVIROSI. Niente, non c'era. Come aveva immaginato. Allora prese il vocabolario di italiano. Ovviamente mancava anche lì. Fece velocemente i compiti e, mentre fuori aveva già cominciato a piovere fortemente, accese il computer. Andò sul primo motore di ricerca che gli venne in mente e scrisse velocemente sulla tastiera il nome che gli interessava. I risultati uscirono veloci uno dietro l'altro. Li scorreva velocemente e non sapeva quale scegliere. Li ripercorse tutti e centosettantasette un'altra volta dopo aver finito, e poi un'altra, e poi un'altra ancora, mentre il cuore accelerava i battiti. Poi chiuse gli occhi e premette il pulsante sinistro del mouse a caso. Riaprì gli occhi, guardò lo schermo e svenne.

Cesare soffriva di aracnofobia. Il problema non era tanto quello, quanto il fatto che teneva nascosta questa sua paura a tutti, e cercava di non nominarla mai neanche mentre pensava, come se volesse impedire di sapere anche a sé stesso questa sua scomoda verità. Così la paura gli era implosa dentro, gli era cresciuta nel cervello e ed era diventata una nevrosi ossessiva. Se fosse stata una semplice paura di ragnetti e lui l'avesse affermata ed accettata come sua caratteristica personale, quella fobia sarebbe rimasta tale e la sua vita sarebbe continuata più o meno normale. Ma lui l'aveva negata, e il semplice terrore infondato per una specie di animali si era trasformato in un disturbo ossessivo-compulsivo in cui gli venivano continuamente in mente immagini di ragni che gli camminavano addosso e lui, per scacciare questa ributtante fantasia, stringeva forte gli occhi e si concentrava su immagini belle abbassando lo sguardo a terra. Di solito gli venivano in mente stelle marine, chissà perché, ma quando era più stressato i ragni ricomparivano nella sua mente, invincibili, in grosse ragnatele vischiose e unte di rugiada mattutina mentre accudivano i loro piccoli procurandogli moscerini da mangiare, poveri insettini che erano rimasti appiccicati alla tela. Quando succedeva questo lui non poteva farci più niente: si chiudeva in bagno e piangeva, sbatteva i piedi e, quando nessuno poteva sentirlo, urlava forte. Un giorno, dopo essersi fatto una doccia, si era messo davanti allo specchio, con i capelli bagnati appiccicati sulla testa, e gli era balzata davanti agli occhi la faccia stanca e cadaverica di un ragazzo malato. Poi la faccia gli si era rimpicciolita, otto piccoli e sottili filamenti gli erano usciti dalle orecchie, quattro da una parte e quattro dall'altra, dopodiché era rotolata nel lavandino e aveva cominciato a cercare di arrampicarsi ai candidi rubinetti per cercare di uscirne fuori.
Aveva strizzato forte gli occhi, più volte, e li aveva riaperti, e così si era ritrovato a fissare di nuovo una faccia stanca e cadaverica che cominciava anche ad avere orrende allucinazioni. Guardandosi fisso negli occhi aveva scandito più volte a voce bassa la frase:<< Non fa niente, succede a tutti, non fa niente succede a tutti nonfanientesuccedeatutti...>>. Ma non succedeva a tutti. Poi si era seduto a terra, o forse era caduto, curvo, con l'acqua che da addosso gocciolava sul pavimento, ed era stato così per una decina di minuti. Poi si era alzato, si era vestito (l'acqua gli si era asciugata addosso) ed era uscito dal bagno allegro e pimpante come sembrava a tutti in quel periodo. Come voleva far sembrare a tutti in quel periodo.
Dopo di allora aveva cominciato ad appassionarsi a tutto ciò che era inerente ai ragni e agli insetti in genere. Trovava milioni di scuse per sapere qualcosa di più sul loro mondo. Aveva comprato di nascosto il fascicoletto di una collezione sugli animali, ovviamente quello chiamato "Ragni". Lo metteva sempre sotto il cuscino e prima di spegnere la luce ed andare a dormire guardava intensamente la foto di un ragno, ogni giorno una diversa. La prima volta era stato difficile: gli era saltato agli occhi un argiope che occupava tutta la pagina, con un addome gonfio a strisce gialle, nere e bianche. Aveva riacceso la luce, era corso in bagno e aveva vomitato. Non aveva più fatto quel giochetto per una settimana, poi aveva ripreso coraggio e, senza guardare l'argiope, aveva girato pagina. C'era un'epeira tutta colorata che chiudeva nella sua morsa assassina una mosca innocua che al confronto sembrava un granello di polvere. Aveva immaginato che quella mosca poteva essere lui, chiuso senza via di scampo; allora gli era venuta voglia di urlare, e aveva soffocato le grida nel cuscino. Ma evidentemente qualcosa era filtrata, perché la madre era venuta a controllare, e lui aveva fatto finta di dormire. Il giorno dopo vide la migale. Scoprì di non essersi spaventato più di tanto, poi lesse a fianco all'immagine che i peli di quel ragno risultano velenosi fino a cinquanta anni dopo che è morto e pianse sul cuscino, dopodiché si addormentò sul bagnato delle sue lacrime mentre l'immagine della migale rimaneva immobile sul suo foglio. Il giorno dopo ancora conobbe la tarantola, poi il ragno palombaro, poi la malmignatta e così via, ma sapeva che le specie di ragno che lo terrorizzavano di più non erano quelle, bensì quegli altri con le zampe lunghissime e capo e torace uniti in un'unica minuscola e terribile pallina al centro del corpo. E a quelli non era ancora arrivato. Tuttavia già spaventarsi di meno alla vista degli altri tipi di ragno era un grande progresso, e infatti in quei giorni, dopo essersi fatto la doccia, allo specchio vedeva una faccia sempre cadaverica, ma quantomeno un po' più riposata e felice. Ma nel pozzo nero del suo inconscio malato sapeva che stava meglio solo perché era riuscito a nascondere tutto ancora più giù, però la fobia c'era ancora, e anzi fare così stava peggiorando tutto. Sapeva che si sarebbe messo in grossi guai.
Un giorno arrivò alla pagina dell'opilio, artropode (più semplicemente ragno) con torace e testa fusi insieme in un'unica pallina e otto lunghe zampe nere che fremevano in tutte le direzioni. Era quello che temeva di più lui. Sapeva che girando la pagina gli sarebbe andato incontro, lo avrebbe visto, e sapeva anche che l'immagine di quell'artropode occupava addirittura due pagine. Non ci pensò molto, girò di scatto la pagina e lo vide. I minuscoli occhietti, situati sopra la testa, lo guardavano sadici. Lui urlò, forte, nel buio, e l'urlò trapanò le pareti. I genitori giunsero spaventati a vedere che cos'era successo e lui disse:<<Ci siete cascati!>>, però con la voce tremante di chi stava per scoppiare a piangere. Era strano che i genitori gli avessero creduto: l'urlo era stato vero, non come quello delle ragazzine quando fanno un punto giocando a pallavolo o di quelli che si sentono nei film. Quando i genitori erano tornati straniti a dormire si era alzato silenzioso, aveva preso dei guanti (non voleva assolutamente toccare quell'immagine), era tornato in camera sua e aveva strappato quella pagina, poi tutto il fascicolo. Era tornato in cucina e aveva buttato tutto nell'immondizia, in fondo in fondo, cosicché nessuno avrebbe mai potuto scoprire il suo fascicoletto. Poi si era tolto i guanti, li aveva rimessi dov'erano prima, era tornato nel suo letto e aveva pianto forte, singhiozzando nel cuscino.
Dopo quell'avvenimento tutto era tornato come prima: le immagini di ragni attanagliavano la sua immaginazione ossessivamente, mentre sapeva che era sulla soglia del delirio, e che la minima cosa l'avrebbe fatto diventare definitivamente pazzo. Quella cosa era stato l'aforisma di quella mattina.
Quando quella sera tempestosa schiacciò a caso il pulsante sinistro del mouse ad occhi chiusi, lo schermo fu riempito proprio dall'immagine gigantesca di un opilio, la mascotte del sito di entomologia (con una sezione dedicata alla sua malattia) che aveva casualmente scelto. Quando riaprì gli occhi e si ritrovò davanti l'essere che più di ogni altro al mondo temeva, svenne. Quando si risvegliò, un quarto d'ora dopo, capì che la fobia si era scatenata e che i grossi guai erano arrivati.

Si risvegliò e la prima immagine che vide furono le mattonelle che gli venivano incontro perché stava scivolando dalla sedia. Si rialzò prontamente prima di cascare a terra. Senza mai alzare lo sguardo verso lo schermo schiacciò all'impazzata il tasto sinistro del mouse sperando di aver azzeccato la freccetta in alto a destra che chiudeva le finestre del computer. Ma ogni volta che cominciava ad alzare lo sguardo e cominciava a vedere le zampe di quell'essere capiva che non ci era riuscito. Alla fine mise un foglio sullo schermo, che serviva per coprire l'immagine dell'opilio, e finalmente chiuse quel sito. Spense il computer e cominciò a camminare avanti e indietro nella sua cameretta, con le mani dietro la schiena come uno scienziato che sta per farsi venire un'idea. Intanto alla porta a finestre del suo balcone si era affacciata un'enorme malmignatta più alta di lui che lo guardava paziente, aspettando che lui alzasse la testa e lo vedesse. Lui si sentì lo sguardo di un estraneo addosso, alzò la testa e la vide. Seguì con uno sguardo assente i lenti movimenti dell'aracnide mentre alzava una zampa e bussava alla finestra, e durante tutto questo tempo era perfettamente a conoscenza del fatto che quello che vedeva era la proiezione allucinatoria della sua mente malata, e che una semplice fobia si era trasformata irreversibilmente in schizofrenia paranoide. Mentre la malmignatta continuava a bussare lentamente il ragno più piccolo del mondo, il Patu marplesi, grande quanto i puntini sopra le "i", cominciò ad avvicinarsi a lui da un angolo della stanza trotterellando allegramente. Chiuse forte gli occhi e li strizzò più volte, li riaprì, ma i ragni erano ancora lì. La schizofrenia paranoide non si combatte con una strizzata d'occhi. Il pozzo profondo del suo inconscio aveva vinto su di lui. Intanto dall'armadio era uscito il ragno più grande del mondo, il Golia mangiatore d'uccelli, di cui solo l'addome era grande in media ventotto centimetri, quanto due passeri. Dall'angolo della porta stava invece arrivando la vedova nera, il ragno più velenoso del mondo, quindici volte più del serpente a sonagli. Riconosceva in tutto questo una sorta di fatalismo inarrestabile, e proprio perché era inarrestabile non provava a bloccarlo: i ragni c'erano e basta; che li stesse immaginando o no, i ragni c'erano, e quella era la sua prigione mortale, da cui non sarebbe mai più potuto uscire o neanche solo cercare di evadere. Le varie specie di ragni uscivano piano piano dagli angoli della sua camera, si accavallavano uno sull'altro, in una moltitudine sempre più vasta. Scendevano ora anche dal soffitto, con reti filamentose spesse e biancastre. Uno, due, tre, cinque, dieci, venti, trenta... erano tutti attorno a lui, ma sapeva che ne mancava ancora uno alla festa, il Re. La malmignatta continuava a bussare e a sorridere pacatamente, ma ad un tratto tutto si bloccò. Il formicolare di aracnidi attorno a lui così come il tocco preciso e ineluttabile dei battiti del ragno gigantesco alla finestra. Il Re era arrivato. Entrò nella stanza passando dal balcone, superando la malmignatta e schiacciando impassibile i ragnetti più piccoli che si trovavano nella stanza sotto di lui. Le otto lunghe, nere, forti, sottili, agili zampe avanzavano lente sul pavimento. La testolina, che però ingigantita era alquanto grande (più o meno come un cocco) era al centro delle zampe, e gli occhiettini neri e profondi sopra la testa ammiccavano seri ma palpitanti. Gli arrivò davanti, issò la testolina sulle zampe e si rizzò oltre un metro sopra di lui, fino a sfiorare il soffitto con gli occhietti. Poi il Re Opilio gli si lanciò addosso.

I genitori di Cesare corsero nella cameretta appena sentirono le urla. Era già la seconda volta che succedeva. La prima, quella volta di notte, avevano fatto finta di non aver capito, ma sapevano già perfettamente: tutto quell'interesse per i ragni, quegli strizzamenti di occhi all'improvviso...
Quindi non si sorpresero più di tanto, sebbene non avrebbero mai dimenticato quell'immagine, quando, entrando nella camera, videro loro figlio a terra che scalpitava e cacciava l'aria con le mani urlando:<<Aiuto! Il Re Opilio!>>. Lo presero per le braccia, il padre a destra e la madre a sinistra. Lo portarono di peso in auto, dove continuò a urlare e a dimenarsi implorando aiuto. Il padre si mise al volante mentre la madre cercava il più possibile di tenerlo fermo, mentre guardandolo piangeva e gli sussurrava con voce spezzata di tristezza e di paura di non preoccuparsi, di stare tranquillo, che qualunque cosa stesse vedendo era solo frutto della sua immaginazione e nient'altro. Lo portarono al misero centro di igiene mentale della loro misera città, dove neanche i medici più preparati riuscirono a tenerlo fermo. Allora decisero di portarlo al manicomio fuori città, che si trovava più o meno a dieci chilometri di distanza. Per tutto il tempo si agitò e gridò aiuto, gridò che il Re Opilio lo stava assalendo e lui non voleva, che qualcuno lo aiutasse. Teneva gli occhi chiusi e agitava la testa a destra e a sinistra. Vomitò più di una volta. Ad un certo punto, con uno scatto animale che la madre non fu in grado né di prevedere né di trattenere, aprì lo sportello e rotolò in mezzo alla strada, mentre un'automobile gli appiattiva la testa.

Doveva toglierselo di dosso, il Re Opilio non doveva assolutamente vincere. Gli era saltato addosso e voleva mangiarlo, voleva inghiottirlo. I genitori lo stavano portando al C.i.m., ma lui non voleva, perché lì sarebbe probabilmente stato chiuso in un'altra prigione, e il Re Opilio avrebbe potuto fargli di tutto. Riuscì a scatenarsi abbastanza (anche perché il Re Opilio lo inseguiva) da andarsene dal C.i.m.. Adesso finalmente potevano tornarsene a casa, dove forse sarebbe riuscito ad uccidere il Re Opilio. Mentre si agitava perché il Re Opilio gli saltava continuamente addosso, capì che non stavano andando a casa, perché la strada era più lunga di quella che serviva per tornare nella sua cameretta. Aveva capito dove stavano andando. Ma lui non poteva assolutamente. Allora aprì di scatto la portiera e si lasciò rotolare giù, mentre un'automobile gli appiattiva la testa. Il Re Opilio aveva vinto.