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 G. M. Cantarella, Cluny e Cîteaux: una disputa tra monachesimi

Glauco Maria Cantarella è lo storico che più di ogni altro in Italia ha studiato il monastero di Cluny, la sua origine, l’apice del suo potere e poi la decadenza. Il brano che qui riportiamo presenta uno dei fattori che contribuiscono alla crisi cluniacense: la dura disputa che ai primi del XII secolo insorge tra l’abbazia voluta da Guglielmo di Aquitania e quella di Cîteaux, di fatto una costola di Cluny.

 

 

Cluny e Cîteaux: una disputa tra monachesimi

 

 

Il monachesimo di Citeaux […] si pone sotto il segno della differenza rispetto alla tradizione benedettina fino ad allora praticata. Alla vita [dei] monaci […] lontani dall’esempio dei Padri del deserto […] i cisterciensi contrapponevano l’ideale dell’heremum, del desertum, del lavoro manuale come forma di contrizione e come preghiera. E realizzarono una struttura organica, del tutto diversa da quella cluniacense e senza dubbio più funzionale, che in poco più di mezzo secolo si affermò come il modello «ufficiale» per gli ordini monastici, assunto e consigliato (se non imposto) da Roma. Persino nell’abito i cisterciensi vollero marcare una differenza: il loro colore fu il bianco, di contro al nero degli altri benedettini. […]

La necessità della realizzazione letterale della povertà e della solitudine («mona­chus, id est solus» aveva scritto san Girolamo) aveva dato vita ad esperienze di vita eremitica fra gli Appennini (Fonte Avellana, Vallombrosa), così come, contempora­neamente il sorgere del movimento cisterciense, dava origine ad esperienze come quelle di Grandmont, La Chartreuse e – in ambiente canonicale – Prémontré. Eremitismo e vita cenobitica non si contraddicevano nel monachesimo nero: a Cluny esse coesistevano armonicamente all’interno della medesima struttura istituzio­nale. Ma nelle nuove esperienze era la solitudine della comunità che, ora, costituiva l’heremum ed era garantita (rendendolo, a sua volta, necessario) dal lavoro manuale dei suoi membri. Non più servi o coloni: è il monaco stesso che si attrezza (per usare le parole di san Bernardo) a «scavare la terra, recidere il bosco, portare lo sterco». […]

La differenza con le precedenti forme monastiche non poteva essere più grande: il lavoro manuale sostituiva il disprezzo del lavoro […]; al monachesimo di ambiente urbano (che nell’alto medioevo, grazie anche all’appoggio del potere vescovile e laico, aveva conosciuto un notevole sviluppo) si contrapponeva un monachesimo discosto dal frastuono del mondo; si creava, cioè, un’alternativa a quanto era contemporaneo e contestuale, e a quanto era stato. Si trattava di una elaborazione cosciente, della consapevole creazione di un polo di riferimento e di attrazione: Bernardo di Clairvaux (m. 1153) compie in maniera esplicita tale opera­zione quando indirizza una lettera-manifesto al cugino Roberto di Chàtillon, che aveva deciso di entrare nella congregazione cluniacense. Alla vita ricca di agi e povera di santità che si svol-geva a Cluny egli contrapponeva l’ideale eroico delle fatiche e della preghiera, che avrebbe avuto come premio la corona dalla santità; la vera vita cristiana era presso i cisterciensi, non altrove. […]

[È Bernardo che] nei primi anni venti del secolo XII apre la polemica con la congregazione cluniacense: due famosi testi (la lettera già citata e la più celebre Apologia) attaccano frontalmente lo stile di vita e l’istituzione cluniacense […] L’alternativa che proponeva il cisterciense poteva essere tentante. Pietro [il Venerabile, abate di Cluny] rispose nel 1127-28 con una lunga lettera-trattato che difendeva le ragioni del monachesimo esente[1] di Cluny, insistendo sulla diversità e sulla legittimità di questo: argomenti che riprese nel corso dei successivi venticinque anni in altre lettere, sempre indirizzate a Bernardo. L’importante, scriveva, è che la scelta della povertà venga profondamente vissuta dall’individuo: perché, allora, accusare con tanta insistenza i cluniacensi? Dio si può onorare tanto col lavoro quanto con la contemplazione […]. La Regola può essere temperata con senso di discrezione e, so-prattutto, con carità: non a caso l’apostolo dice «abbi la carità, e fai ciò che vuoi». L’esenzione non significa sottrarsi all’autorità vescovile ma, anzi, essere soggetti a quella del più alto vescovo della cristianità, il vescovo di Roma. I cisterciensi e i cluniacensi sono diversi, ma da questo non segue che debbano essere avversari.

Il linguaggio di Pietro era quello tradizionale del monachesimo, e, per l’appunto, quello che san Bernardo non accettava più. «Oh, quanta fiducia nella carità! l’uno lavora senza amare, e l’altro ama senza far nulla», aveva scritto ironicamente: la charitas doveva essere sostanziata di realtà, o sarebbe rimasta una vuota parola; e quanto al lavoro della preghiera e dello studio sacro, che a parere dei cluniacensi avrebbe più degnamente sostituito quello concreto delle mani, ecco come lo trattò Idung, controversista cisterciense (ma già monaco cluniacense) alla metà del secolo: «Macerare l’oro e con esso dipingere poi grandi lettere capitali che cos’altro è, se non un’inutile e oziosa occupazione?» [..] Quanto più i cluniacensi […] insistevano sulla tra-dizionale interpretazione metaforica e analogica della Regola, tanto più i cisterciensi li richia-mavano al duro contatto con la realtà della fatica, del concreto operare. I loro linguaggi non avevano punti di coincidenza al di là dell’aspet­to vocabolaristico: i cisterciensi avevano modifi-cato il codice: il loro, quello nuovo, istituiva un’altra visione del reale.

«Vecchio» e «nuovo» monachesimo, ha scritto la storiografia a proposito di queste lotte […]: un nuovo monachesimo che interpreta le mutate esigenze dei tempi, ed un vecchio monache-simo che non riesce a trasformarsi e paga questa sua incapacità in termini di potenza e di importanza storica. Ma, a parte il fatto che queste categorie interpretative si rinserrano tutte all’interno del fatto monastico e trascurano, per esempio, che la perdita di egemonia da parte del «vecchio» monachesimo fu dovuta anche ad un mutamento molto più generale dei lineamenti della chiesa […], esse assumono come proprio punto di vista quello di coloro che avevano l’intenzione e l’interesse di marcare una simile coscienza del «nuovo». Il «vecchio» monachesimo, al contrario, non aveva la coscienza della propria vecchiezza: Pietro il Vene-rabile, che fu uno dei protagonisti della polemica, non sembrò avvertire mai il carattere di «modello» che stava assu­mendo l’esperienza cisterciense; per lui il solo legittimo e vero modello di monachesi­mo restava Cluny. […] Vedeva solo che Cluny era inspiegabilmente at-tac­cata da altri monaci che non solo rifiutavano di riconoscerne la superiorità ma ostinata-mente pretendevano che essa spettasse a loro. Le due maggiori correnti monastiche dell’Oc-cidente non riuscirono ad istituire alcuna reale dialettica fra loro: né, fino agli ultimi anni dei maggiori protagonisti della polemica, accettarono il fatto, pure inop­pugnabile, dell’esistenza dell’altra.

Fra i due ordini finì per stabilirsi una posizione di equilibrio che, seppure decide­va l’egemonia dell’istituzione cisterciense sul mondo monastico (il suo tipo di capitolo venne, generalmente, assunto a modello), non ne sanzionava però [la] maggior perfezione […]. L’ordine [cistercien-se], del resto, era cresciuto in modo che, in apparenza, negava le premesse: con il favore politico dell’episcopato (saldamente legato a Roma, dopo la conclusione della lotta per le investiture), dei papi (Bernardo svolse un’attività instancabile nello scisma del 1130-38 e nella repressione delle eresie; un suo discepolo fu eletto papa col nome di Eugenio III), dei potenti laici, e con la grande forza di attrazione esercitata, esso aveva acquisito beni e terre e, per estensione, aveva raggiunto e superato Cluny; Roma inoltre, gli riconobbe lo stato di esenzione come premio per il sostegno politico che esso le aveva sempre assicurato; il lavoro manuale che era praticato nelle abbazie cisterciensi consentiva la produzione di beni che andava ben oltre le reali necessità e ne imponeva la commercializzazione, con la conseguente accumulazione di enormi risorse finanziarie.

L’ordine che era cresciuto all’insegna della povertà e del deserto era divenuto il più ricco e potente d’Europa. Nel XIV secolo un lettore di Idung chiosava il manoscritto: «Ecco, quando questo dialogo fu scritto i cisterciensi non possedevano nulla; ora sono diventati cluniacensi!»

 

 

G. M. Cantarella, Il monachesimo in Occidente: il pieno medioevo (secoli X-XII), in La Storia, a cura di N. Tranfaglia e M. Firpo, Il Medioevo, vol. I, I quadri generali, UTET, 1986, pp. 351-355







[1] L’autore si riferisce al fatto che il monastero di Cluny gode di un’esenzione, ovvero di un’immunità, che lo rende libero dal potere esercitato dal vescovo e dal conte della regione ove Cluny stessa sorge.