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 M. Montanari, Economia e paesaggio nell’Alto e nel pieno Medioevo

Massimo Montanari è uno storico del Medioevo particolarmente attento all’ambiente, alle modifiche cui è stato sottoposto, alle risorse alimentari che i diversi “paesaggi” hanno messo a disposizione delle comunità e dunque ai sistemi di proprietà e ai rapporti sociali che hanno determinato possibilità ed abitudini alimentari dei diversi strati della popolazione. Nella prima parte del testo qui proposto, l’Autore descrive l’ambiente europeo dell’alto Medioevo e le attività da cui le genti di allora potevano ricavare il loro sostentamento (più o meno) quotidiano. Nella seconda parte, ci trasporta nel pieno Medioevo, tra X e XI secolo, mostrandoci come le profonde trasformazioni sociali e tecniche del tempo, modificando il paesaggio e il sistema proprietario, abbiano modificato pure le abitudini e le possibilità alimentari.

 

Economia e paesaggio nell’Alto e nel pieno Medioevo

L’economia altomedievale è solo in par­te agricola in senso stretto. Accanto alla col­tivazione dei campi e delle vigne vengono praticate, spesso in posizione preminente, attività di tipo silvo-pastorale, cioè di sfrut­tamento delle aree incolte (bosco, pascolo naturale, brughiera, palude): aree che, dopo la crisi economica e demografica inizia­ta nel periodo tardo imperiale, si sono allargate ovunque, conferendo al paesaggio un’impronta selvatica. Se, per un verso, queste zone costituiscono per l’uomo una presenza incombente e minacciosa, per l’al­tro esse rappresentano una riserva prezio­sa di cibo e di materie prime, e vengono ampiamente utilizzate; perciò, nell’Alto Medioevo, il rapporto con gli spazi incolti è molto stretto, quotidiano e familiare per tutti.

 

La principale attività che viene svolta in tali spazi è l’allevamento brado del bestiame; soprattutto animali di piccola taglia, maiali e pecore, pascolati gli uni sotto le querce (che sono, anche in pianura, l’albero più largamente diffuso), le altre nei pascoli erbosi ai margini delle foreste. Ma anche la caccia è importante come attività produt­trice di cibo: animali di grossa taglia, co­me il cervo, il capriolo, il cinghiale, sono presenti un po’ dovunque in abbondanza, accanto alle specie minori. Altra attività fon­damentale è la pesca, in tutti i corsi d’ac­qua dell’interno, oltre che nei laghi, nelle paludi e nel mare; e in appositi vivai, rica­vati ovunque possibile, in un ambiente in cui l’acqua è presenza assidua e costante non meno di quella del bosco. Anche la rac­colta di prodotti spontanei (bacche, frutti: soprattutto castagne) era economicamente importante. Essenziale, infine, era il taglio del legname, che forniva il materiale ne­cessano per la costruzione degli edifici, per la fabbricazione degli attrezzi, per il riscal­damento, per la cottura dei cibi.

 

L’Alto Medioevo è dunque, veramente, una civiltà del bosco e dell’incolto. La società rurale è fatta di boscaioli, pastori, cac­ciatori, più ancora che di contadini; diciamo meglio: è fatta di persone che svolgo­no tutte queste attività insieme: una società di contadini-pastori-cacciatori.

L’importanza economica delle aree incol­te è attestata dal fatto che esse vengono va­lutate in termini di produttività, esattamente come i terreni coltivati. I campi vengono misurati secondo la quantità di cereali che vi si possono seminare; le vigne secondo la quantità di vino che possono fornire; i prati secondo i carri di fieno che sono in grado di riempire; i boschi in base al nu­mero di maiali che possono ingrassare: bo­scum ad saginandum porcos… (bosco per ingrassare maiali… : e qui si specificava il numero).

Nei documenti dell’epoca, accanto alla necessità di un «buon tempo» che favorisca il raccolto dei cereali (così sensibile, dato il basso livello tecnologico, all’andamento stagionale), non si manca di auspicare una buona crescita delle ghiande sugli alberi, una buona riproduzione dei pesci nei vi­vai, una buona disponibilità di pascoli per gli animali domestici e selvatici. E le cronache, accanto alle penurie di cereali, ri­cordano le carestie – per così dire – forestali. Un cronista del IX secolo registra nell’874 una neve eccezionale, caduta sen­za interruzione dai primi di novembre alla fine di dicembre, tanto che, osserva, gli uomini furono impediti di entrare nei boschi. Un altro cronista racconta che nel 591 «una grande siccità seccò i pascoli e ogni erba; a causa di ciò si diffuse fra il bestiame e le greggi una grave epidemia, che portò la rovina non solo fra gli animali do­mestici, ma anche fra quelli selvatici. Nel folto dei boschi venne infatti trovata una gran quantità di cervi e di altri animali mor­ti. Le ghiande che erano cresciute sulle querce non giunsero neppure a maturare». La preminenza, fra le attività economi­che del tempo, del pascolo brado e soprat­tutto del pascolo dei suini è attestata da ogni sorta di documenti. […]

[Anche] la caccia, at­tività prediletta di tutta l’aristocrazia, laica ed ecclesiastica (nonostante i divieti delle autorità religiose), era essenziale nell’economia contadina: molto spesso gli stessi contratti agrari prevedevano che il contadino entrasse nel fondo non solo ad laborandum, per coltivarlo, ma anche ad venan­dum, piscandum, aucellandum: per cacciare, pescare, uccellare. Né mancano casi – nelle zone più ampiamente occupate dall’’incolto, come quelle della bassa pianura vicina al Po – di patti colonici che prevedono, accanto a canoni sulle coltivazioni agricole (una parte dei cereali, dei legumi, del vino prodotto), anche canoni sui prodotti della caccia e della pesca. Tuttavia queste attività venivano svolte più spesso fuori dell’unità poderale, nei boschi e nel­le paludi che circondavano da ogni parte gli insediamenti agricoli. Efficace l’imma­gine di uno storico francese, Jacques le Goff, che ha descritto il paesaggio europeo dell’alto medioevo come un grande deser­to punteggiato di oasi, in cui, per un curioso rovesciamento (quasi il «negativo» di una fotografia), l’oasi è senza alberi e il deserto è foresta.

 

 

L’alimentazione nel medioe­vo: contadini e signori

 

Le vicende dell’alimentazione sono stret­tamente legate agli sviluppi economico-sociali, alla storia del paesaggio, ai rappor­ti fra l’uomo e l’ambiente, alle relazioni fra gli uomini: nel Medioevo a una profonda modificazione di tali realtà corrispose dun­que una trasformazione non meno profon­da di tutto il sistema alimentare.

 

Nell’Alto Medioevo, fino all’incirca al X-XI secolo, si ritornò in parte a una con­dizione preagricola: l’agricoltura, cioè, non fu più l’attività economica prevalente, ma dovette es­sere affiancata da attività silvo-pastorali, ossia di sfruttamento di spazi incolti (alleva­mento, caccia, pesca). Esse furono consen­tite sia dall’ampia presenza di boschi e pa­scoli, di brughiere e paludi, legata al rile­vante calo della popolazione iniziato nel III secolo d.C., sia dal fatto che i rapporti di proprietà e di produzione allora instauratisi non escludevano nessuno dall’uso di quegli spazi, aperti (più o meno liberamente) allo sfruttamento di tutti. Ciò ebbe un’importanza decisiva nel caratterizzare il tipo di alimentazione, cui la carne e il pesce, accanto ai prodotti agricoli e orticoli, davano un apporto significativo, garantito a tutti i livelli sociali, per i contadini come per i signori. Cereali, legumi, ortaggi erano infat­ti molto spesso affiancati dalla carne e dal pesce: e in primo luogo dalla carne di maia­le, fornita da allevamenti di suini relativa­mente numerosi. In Italia questo valeva soprattutto per il Nord, mentre man mano che si procedeva verso il Centro-Sud cresceva l’importanza dell’allevamento ovino, per motivi di clima, di ambiente naturale e di antiche consuetudini alimentari. I bovini in­vece venivano dovunque impiegati quasi esclusivamente come animali da lavoro. Molta carne proveniva inoltre dalla cac­cia: cervi, cinghiali, caprioli e ogni sorta di animali minori abbondavano infatti un po’ dappertutto. E anche il pesce era una der­rata d’uso corrente, prodotta «a domicilio» in tutti i corsi d’acqua.

 

La varietà delle fonti alimentari si tradu­ceva naturalmente nella varietà della die­ta, e la differenza fra alimentazione conta­dina e alimentazione signorile, a quei tem­pi, non era qualitativo ma piuttosto quantitativo; in altre parole: tutti mangiavano pressappoco le stesse cose, ma c’era chi mangiava di più e chi mangiava molto di meno.

 

Le cose cominciarono a cambiare dal X secolo in poi. La crescita della popolazio­ne si accompagnò a un’espansione progres­siva dell’agricoltura, che comportò la colo­nizzazione e la conquista di nuovi spazi da coltivare a spese dei boschi e dei terreni incolti. Ne derivò un restringimento progres­sivo delle attività silvo-pastorali, che colpì selettivamente gli strati sociali inferiori. Alla diminuzione dei boschi e dei pascoli s’ac­compagnò infatti una modificazione dei rap­porti di proprietà, che ridusse, limitò o an­che abolì i diritti d’uso degli spazi incolti, ed escluse, del tutto o in parte, i ceti rurali dal godimento di quelle risorse. L’uso dei boschi, i diritti di caccia e (in parte) di alle­vamento vennero insomma sempre più concepiti come un privilegio signorile; i bo­schi diventarono «riserve» ad uso esclusi­vo dei proprietari; molti contadini ne furo­no allontanati e dovettero quindi limitare le proprie attività all’interno dei rispettivi poderi.

La ripresa agricola del Basso Medioevo, la riduzione e la privatizzazione degli in­colti, la conseguente esclusione dei ceti ru­rali dalle attività silvo-pastorali determina­rono un cambiamento progressivo del re­gime alimentare che, per gli strati sociali inferiori, si fondò sempre più nettamente sui cereali (pane, polente, zuppe e simili), mentre il consumo di carne diventava un segno di distinzione sociale, quasi il sim­bolo di un privilegio. La differenza di dieta fra contadini e signori, che un tempo era stata soprattutto d’ordine quantitativo, ora divenne anche qualitativa, perché l’alimen­tazione dei contadini fu costituita soprattut­to da vegetali, mentre i signori continua­rono a mangiare carne in abbondanza.

Cambiò pertanto la nozione stessa di «ca­restia». Nell’Alto Medioevo, quando il cibo derivava da molte fonti differenziate, l’in­sufficienza di nutrimento era determinata dalla crisi di settori economici diversi: agri­coltura, allevamento, caccia, pesca. E ap­punto per questo i testi altomedievali si preoccupano non solo della penuria di ce­reali, ma anche di quelle che potremmo chiamare «carestie forestali», ossia delle crisi che colpivano il settore economico silvo-­pastorale. C’era in compenso un minimo di sicurezza in più, dato che era improba­bile che le avversità climatiche colpissero contemporaneamente tutti i settori produt­tivi. E infatti i testi dell’epoca dimostrano che talvolta, in momenti di emergenza, la carne sostituiva i cereali: leggiamo per esempio che, se c’è carenza di cereali, viene eccezionalmente concesso di mangiare carne anche durante la quaresima.

Il fatto che i consumi di carne fossero ri­levanti nell’Alto Medioevo risulta, in negativo, anche dalle regole monastiche, che in­sistono quasi ossessivamente sulla neces­sità di astenersi dalla carne, come pratica di umiltà e penitenza. Ciò fa pensare che il consumo di carne fosse molto diffuso e che, appunto per questo, i monaci dovessero testimoniare la propria santa vocazione allontanandosi dalle abitudini correnti. La stessa cosa sembra dimostrare il fatto che nelle punizioni inflitte come penitenza ai laici ricorre spesso la privazione della carne.

Dal X-XI secolo in poi, invece, i cereali assumono per i ceti inferiori un ruolo ali­mentare sempre più importante, e la no­zione di «carestia» s’identifica senz’altro con la penuria di cereali. Perciò le cronache di epoca comunale registrano con frequenza crescente e con toni più preoccupati le conseguenze delle avversità climatiche sui rac­colti. La «penuria di pane» – come la chia­mano i testi – è ora diventata una vera ossessione, e ci si rende ormai conto che «sen­za agricoltura è difficile sopravvivere».

Non si può d’altra parte dimenticare che la ripresa dell’agricoltura successiva al Mille ha consentito in circa tre secoli di moltipli­care di tre-quattro volte sia la produzione di alimenti, sia la popolazione europea.