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 Fabbriche di falsi ricordi

Al giorno d’oggi siamo bombardati da informazioni, documenti visivi, simulazioni, realtà virtuali, cosicché è spesso difficile individuare l’origine di un’informazione o stabilire se essa sia veritiera o credibile, e questo vale anche per le memorie autobiografiche. La ricostruzione obbiettiva del passato è quindi sempre più incerta? La realtà si presenta soltanto con alcune delle sue possibili facce? Rispondere a simili interrogativi non è certo facile e lo sarà ancor meno in futuro quando ci si dovrà confrontare con il pullulare di false «prove» e memorie. Man mano che passa il tempo, la possibilità di «falsificare» la realtà, e quindi la storia, è infatti facilitata dallo sviluppo di una serie di tecnologie: non soltanto la fotografia è ben più diffusa rispetto al passato e i trucchi fotografici sono divenuti estremamente raffinati, ma l’armamentario elettronico consente di «ripulire» immagini registrate al videotape, eliminandone alcune figure, o addirittura di inserire vecchie immagini in un nuovo contesto. Queste stesse tecniche consentono di far rivivere celebri attori del passato inserendoli nello scenario di spot pubblicitari ambientati nella realtà odierna. Ma esse potrebbero anche consentire di truccare, e in modo inquietante, un documento storico, noto o ignoto che sia. Ovviamente si potrebbe obbiettare che la falsificazione della storia, in particolare di quella fondata sulle immagini, dovrebbe comportare l’esercizio di uno stretto controllo di tutti gli archivi da parte di un censore di stampo orwelliano e che questa eventualità è piuttosto remota in tempi in cui il controllo dell’informazione è parcellizzato e diffuso. Tuttavia un’immagine falsa o adulterata ha anche un sottile effetto indiretto, in quanto si inserisce nella nostra memoria visiva e compete con altre immagini, vere, che si riferiscono allo stesso avvenimento. In tal modo, malgrado inizialmente possiamo anche essere consci del fatto che alcune immagini sono vere ed altre false, col tempo la nostra memoria può appannarsi e confondersi.

Prendiamo, ad esempio, il caso di alcune immagini ben radicate nella memoria visiva collettiva di quanti erano giovani o adulti negli anni Sessanta: le immagini dell’assassinio di John Kennedy, dello scenario metropolitano di Dallas attraversata dal corteo presidenziale, dell’uccisione del presunto assassino del presidente americano. Si tratta di immagini che fanno ormai parte di un archivio storico di tipo visivo ben radicato nella nostra memoria. Ebbene, cosa succederà a questi nostri ricordi dopo la visione di un film come JFK di Oliver Stone o di altre analoghe ricostruzioni «a tesi»? Probabilmente, anche grazie all’amplificazione emotiva che viene esercitata dalla colonna sonora sulle immagini di un film, saremo meno certi della congruità della nostra memoria: le nuove immagini, che appartengono a una storia falsa o reinterpretata, competeranno con quelle precedenti, cosicché nella nostra mente il confine tra reale e fantastico si sarà fatto più sottile. Ma i nuovi «documenti» cinematografici avranno effetti ancor più ambigui e sottili sul pubblico più giovane, cioè su quanti hanno un ricordo visivo più evanescente di quei fatti: le immagini false sembreranno così quasi vere.

I rapporti fra le nuove tecnologie dell’informazione e la memoria, anzi le false memorie, hanno stimolato gli studi su quella che potremmo definire la sensazione di «incertezza» del ricordo, non soltanto per quanto riguarda le memorie collettive ma anche per quanto riguarda quelle individuali. Ritorniamo al ruolo delle testimonianze e alla sensazione di incertezza del testimone: quel viso che egli ritiene di riconoscere è legato a una memoria reale oppure si sta confondendo con un viso simile? Il suo ricordo è stato «contaminato» dal modo in cui egli è stato interrogato, dalle notizie provenienti dal bombardamento dei media? In alcuni casi giudiziari un innocente è stato coinvolto perché rassomigliava al colpevole e uno o più testimoni non erano stati in grado di «contestualizzare» il loro ricordo, cioè di visualizzare quel volto in un contesto particolare. Qualcosa di simile può verificarsi nella nostra vita quotidiana quando riteniamo di aver conosciuto una persona particolare ma non siamo in grado di risalire a quella che gli psicologi definiscono col termine di «memoria sorgiva» o originaria: la sensazione di familiarità non si traduce nella capacità di risalire al contesto preciso del ricordo, al luogo in cui abbiamo incontrato quella persona ecc.

Per comprendere il significato della «fonte» di un ricordo possiamo partire da una ricerca svolta da Elisabeth Loftus, simile nella sostanza a quella già illustrata. A un gruppo di volontari furono mostrate alcune diapositive in cui un’automobile era coinvolta in un incidente dopo essersi arrestata a un segno stradale di stop. A una metà delle persone venne domandato: «Cosa è successo all’automobile dopo che si è fermata allo stop?»; mentre all’altra metà fu chiesto: «Cosa è successo all’automobile dopo che si è fermata al segnale di precedenza?». Mezz’ora dopo fu chiesto a ognuno dei partecipanti se l’auto si fosse fermata a un segnale di stop o di precedenza. Le persone cui era stata fatta la domanda sviante «ricordavano» in buona parte che l’automobile si era fermata al segnale di precedenza. Il «suggerimento» orale aveva dunque spiazzato la memoria visiva. Questa ricerca può essere considerata come il punto di partenza sulle memorie originarie. Studi successivi hanno dimostrato che in realtà la memoria originaria non viene «cancellata» dal suggerimento sviante, che essa permane in qualche ambito dei circuiti della memoria ma che non è facilmente raggiungibile, come se fosse stata nascosta. E in effetti i partecipanti a questo e ad altri esperimenti simili hanno difficoltà a visualizzare la situazione originaria, ad esempio il segnale di stop, e non sanno dire se lo hanno visto all’inizio dell’esperimento o quando gli è stata nuovamente mostrata la diapositiva per spiegare loro quale fosse in realtà la scena o il particolare che non ricordavano.

Ricordare la «memoria sorgiva» è un fatto importante e rappresenta un test per distinguere la memoria dalla fantasia o da altre situazioni simili come i sogni a occhi aperti. Immaginiamo di essere ritornati a casa dopo una giornata di lavoro. L’indomani dobbiamo uscire molto presto e non avremmo tempo per fare benzina: è per questo che abbiamo deciso di fare il pieno sulla strada di casa. Tuttavia, forse a causa della stanchezza, ora non ne siamo più certi: abbiamo veramente fatto il pieno? Oppure, abbiamo veramente chiuso il gas sotto i fornelli, prima di uscire di casa? Abbiamo veramente imbucato una lettera importante? Domande di questo tipo restano spesso senza una risposta precisa e non c’è altra soluzione, almeno in apparenza, che andare a controllare il serbatoio o i fornelli. Ma la lettera? Non possiamo certamente controllare il contenuto della cassetta! Arriverà al destinatario? Per dare una risposta alle nostre domande cerchiamo di far riemergere una «memoria sorgiva»: uno o più particolari che ci aiutino a concludere che in quel momento succedeva questo e quello, che abbiamo in effetti chiuso il gas, fatto il pieno, imbucato quella lettera. Senza il richiamo della memoria originaria, o sorgiva che dir si voglia, non è possibile distinguere la memoria dalle fantasticherie, ciò che è reale da ciò che è plausibile. Spesso questa separazione non è facile, e lo è ancor meno al giorno d’oggi in quanto siamo bombardati di informazioni che, come si è detto, possono contaminare i nostri ricordi.

Tratto da: A. Oliverio L’arte di ricordare, BUR, 1998