LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Mario CORDA Presidente
" Rosario DE MUSIS Rel. Consigliere
" Giovanni OLLA "
" Gian Carlo BIBOLINI "
" Luigi ROVELLI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
SAER SPA in liquidazione coatta amministrativa, in persona del
Commissario Liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliato in
ROMA VIA FERDINANDO DI SAVOIA 3, presso l'avvocato GIOVANNI
GIORNELLI, che lo rappresenta e difende giusta delega in calce al
ricorso;
ricorrente
contro
U.C.I. - UFFICIO CENTRALE ITALIANO - SOCIETÀ consortile a
r.l.;
Intimato
e sul 2 ricorso n. 11224-94 proposto da:
U.C.I. - UFFICIO CENTRALE ITALIANO - SOCIETÀ consortile a r.l.,
in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato
in ROMA L.GO GENERALE GONZAGA 2, presso l'avvocato LUDOVICO
PAZZAGLIA, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato
MARIO POGLIANI, giusta delega a margine del controricorso e
ricorso incidentale;
Controricorrente e ricorrente incidentale
contro
SAER SPA in liquidazione coatta amministrativa;
Intimato
avverso la sentenza n. 1721-93 della corte d'Appello di Milano,
depositata il 28-09-93;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
26-11-96 dal Relatore Consigliere Dott. Rosario DE MUSIS;
udito per il ricorrente, l'Avvocato Giornelli, che ha chiesto
l'accoglimento del ricorso principale, rigetto del ricorso
incidentale;
udito per il resistente e ricorrente incidentale, l'Avvocato
Pazzaglia, che ha chiesto il rigetto del ricorso principale,
l'accoglimento del ricorso incidentale;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Alberto CINQUE che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.
Fatto
La s.p.a. "SAER", esercente attività di assicurazione, nel 1977 concesse in pegno titoli e contanti per lire 100.000.000 alla s. consortile a r.l. "Ufficio centrale italiano" a garanzia del rimborso da parte di essa assicuratrice a tale Ufficio dell'ammontare degli indennizzi che questo avrebbe pagato all'estero per sinistri occorsi ad assicurati della stessa.
Con citazione del 4.3.1985 la liquidazione coatta amministrativa (dichiarata nel 19891) della società assicuratrice convenne in giudizio detto Ufficio chiedendo che fosse condannato alla restituzione della somma datagli in pegno (con interessi e rivalutazione).
Nella resistenza del convenuto, il quale replicò che l'obbligo di restituzione del pegno presuppone l'estinzione del debito a garanzia del quale i pegno stesso è stato concesso, e nella specie tale estinzione non era avvenuta in quanto pendevano le liquidazioni di numerosi sinistri, il Tribunale di Milano accolse la domanda.
La pronunzia fu riformata, con sentenza del 28.9.1993, dalla Corte d'appello di tale città, la quale affermò: che tra il debito di restituzione della somma data in pegno e il debito a garanzia (del pagamento) del quale è stato costituito il pegno opera la compensazione al momento in cui i rispettivi crediti sono liquidi ed esigibili; che nella specie era stato costituito un pegno irregolare, come tale connotato dal passaggio della proprietà della somma data in pegno dal debitore al creditore; che pertanto era inapplicabile - in quanto concernente il pegno regolare, il quale non importa detto passaggio di proprietà - l'art. 53 della legge fallimentare, che consente la prelazione durante il fallimento solo previa ammissione al passivo del credito pignoratizio, considerando altresì che non è normativamente previsto che il credito opposto in compensazione al credito di restituzione della somma data in pegno necessiti di essere ammesso al passivo; che l'Ufficio aveva eccepito la compensazione, in appello, del credito per lire 32.349.234 e del credito corrispondente a 381.487.03 franchi francesi; che dovevano ritenersi compensati i crediti dell'Ufficio per lire 32.349.234 e per lire 27.902.015, concernenti due indennizzi per sinistri anteriori alla dichiarazione di liquidazione coatta amministrativa, dei quali il primo era stato liquidato anteriormente e il secondo posteriormente a detta dichiarazione; che il credito corrispondente a franchi francesi 381.487.03 non era compensabile in quanto, concernendo un sinistro in via di definizione, non era liquido ed esigibile; che pertanto la condanna dell'Ufficio doveva essere limitata al pagamento di lire 39.748.751, somma residua rispetto a quella data in pegno.
Ha proposto ricorso per cassazione la liquidazione coatta amministrativa della "SAER"; ha resistito con controricorso l'intimata, la quale ha proposto altresì ricorso incidentale; entrambe le parti hanno presentato memoria.
Diritto
Il ricorso principale e quello incidentale, in quanto rivolti avverso la stessa sentenza, vanno riuniti.
Con l'unico motivo del ricorso principale si deduce che la Corte d'appello, affermando che doveva ritenersi compensato il credito di lire 27.902.015, sorto a seguito di pagamento di sinistro avvenuto prima della dichiarazione di liquidazione coatta amministrativa ma liquidato dopo, e che al fine non sarebbe stata necessaria la previa ammissione al passivo del credito, è incorsa in violazione e falsa applicazione degli artt. 55 e 56 della legge fallimentare in quanto non ha rilevato che la realizzazione della prelazione anche durante il fallimento richiede che il credito sia stato previamente ammesso al passivo e in quanto ha interpretato l'art. 56 nel senso che la liquidità e la esigibilità del credito debbano sussistere al momento in cui la compensazione viene accertata, laddove secondo l'art. 55 la posizione creditoria e debitoria del fallito si cristallizza al momento del fallimento, al quale quindi deve aversi riguardo per la compensazione - che pertanto non avrebbe potuto essere dichiarata per difetto della certezza e della liquidità del credito a tale momento -.
Il motivo è fondato.
Ai sensi dell'art. 201 della legge fallimentare dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa si applicano (tra le altre) le disposizioni del titolo II, capo III, sezione II, e quindi gli artt. dal 51 al 53.
L'art. 53 dispone "I crediti garantiti da pegno o assistiti da privilegio a norma degli artt. 2756 e 2761 del codice civile possono essere realizzati anche durante il fallimento, dopo che sono stati ammessi al passivo con prelazione.
Per esser autorizzato alla vendita il creditore fa istanza al giudice delegato, il quale, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, stabilisce con decreto il tempo della vendita, disponendo se questa debba essere fatta ad offerte private o all'incanto, e determinando le modalità relative. Il giudice delegato, sentito il comitato dei creditori... può anche autorizzare il curatore a riprendere le cose sottoposte a pegno o a privilegio, pagando il creditore, o ad eseguire la vendita nei modi stabiliti dal comma precedente".
La questione da decidere consiste nello stabilire se al pegno irregolare - nella specie al Corte d'appello ha affermato che ra stato costituito un pegno di tale natura e sul punto non è stata mossa censura - si applichi la riportata norma, ed in particolare il suo primo comma nella parte in cui richiede la previa ammissione al passivo del credito (pignoratizio).
Al quesito va data risposta positiva.
La tesi opposta si basa sul rilievo che la norma prevede la vendita della cosa data in pegno (o la facoltà del curatore di riprenderla) e pertanto non può che concernere il solo pegno regolare.
Solo questo difatti, in quanto connotato dal permanere della cosa oggetto del pegno nella proprietà del debitore, consente che il curatore possa (essere autorizzato a) riprenderla o che il creditore possa chiederne la vendita.
Il pegno irregolare invece, in quanto connotato dal passaggio della cosa oggetto del pegno nella proprietà del creditore, non consentirebbe nè al curatore di (essere autorizzato a) riprendersi una cosa della quale è ormai proprietario il creditore nè a costui di chiedere la vendita di una cosa che è già di sua proprietà.
L'argomentazione non suffraga la conclusione che su di esso di basa e sussistono invece ragioni che militano a favore della indicata soluzione positiva della questione.
Anzitutto ragioni di interpretazione letterale della norma.
È ben vero che il secondo e il terzo comma della stessa contengono una disciplina che non può che avere ad oggetto cosa rimasta in proprietà del debitore (e quindi acquisita al fallimento), ciò che avviene solo nel pegno regolare.
Ma detti commi disciplinano unicamente le "modalità" dell'esercizio della prelazione: essi quindi non possono essere intesi come assolventi la ulteriore funzione di specificare la previsione del primo comma, la quale disciplina invece unicamente la "ammissibilità" dell'esercizio della prelazione durante il fallimento.
Il primo comma difatti - disponendo (a) che è ammessa la realizzazione (prelatizia) dei crediti "anche" durante il fallimento e (b) che condizione di tale realizzazione è la "previa" ammissione di tali crediti al passivo (in via privilegiata) - pone, in quanto ammette l'esercizio autonomo della prelazione durante la procedura fallimentare, un principio di deroga all'ordinario regime fallimentare, secondo i quale l'esercizio della prelazione deve avvenire in via concorsuale, e fissa la condizione per l'operatività della deroga stessa: esso pertanto contiene una previsione specifica di portata generale ed esaustiva.
Il fatto poi che i rimanenti comma concernano unicamente le modalità di prelazione nell'ipotesi di pegno regolare trova giustificazione nel rilievo che solo per la prelazione correlata a tale tipo di pegno si rendeva necessari fissarne le modalità, essendo invece normativamente previste come automatiche (compensazione) le modalità della prelazione nell'ipotesi di pegno irregolare.
L'interpretazione letterale della norma nella sua globalità quindi suffraga la conclusione che il primo comma abbia uno specifico contenuto di portata generale ed indiscriminata, come tale applicazione ad ogni tipo di pegno, e che i rimanenti comma abbiano un diverso specifico contenuto correlato solo al pegno regolare, e siano pertanto solo a questo applicabili.
Di poi ragioni logiche.
I connotati che differenziano il pegno irregolare da quello regolare - il primo determina il passaggio della proprietà della cosa data in pegno in capo al creditore e attribuisce a costui la facoltà di esercitare direttamente la prelazione mediante ritenzione per compensazione (non importa al fine stabilire se si tratti di compensazione in senso tecnico o di estinzione meramente contabile di rispettive partite provenienti da un rapporto unico o da considerarsi tale) - non sarebbero idonei a giustificare la non necessità dell'applicazione anche al pegno irregolare dell'onere della previa ammissione al passivo del credito a garanzia (del soddisfacimento) del quale è stato costituito tale pegno dal momento che la facoltà di esercizio diretto e automatico, per compensazione, della prelazione nel pegno irregolare - facoltà che trova base nell'indicato trapasso della proprietà - non immuta la natura precipua dei due tipi di pegno, e cioè la medesima) funzione di garanzia di pagamento di un debito, in quanto la compensazione non è altro che lo strumento attraverso il quale si esercita la prelazione pignoratizia nel pegno irregolare.
Ma il diverso modo di esercizio della prelazione nei due tipi di pegno non incide sulla necessità della previa ammissione al passivo del credito per il quale deve esercitarsi la prelazione poiché tale necessità - come si è più sopra rilevato - concerne il diverso ambito della ammissibilità della prelazione durante il fallimento.
Infine ragioni di interpretazione sistematica dell'intera disciplina fallimentare.
L'art. 52, secondo comma, della legge fallimentare, disponendo che "ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione, deve essere accertato secondo le norme stabilite..., salvo diverse disposizioni della legge", pone il canone fondamentale della verifica di tutti i crediti a garanzia della "par condicio creditorum" e prevede espressamente che lo stesso possa essere derogato solo normativamente.
L'art. 53, quindi, prescrivendo la previa ammissione al passivo del credito nel caso in cui si intenda esercitare la prelazione pignoratizia durante il fallimento, costituisce previsione non innovativa, ma ribadente la operatività di detto canone fondamentale in tale specifica ipotesi.
Ora la necessità, prevista nell'art. 52 citato, che la deroga al ripetuto canone dovesse avvenire con disposizione di legge imponeva al legislatore, che avesse inteso escludere che la prelazione nel pegno irregolare fosse condizionata al previo accertamento del credito opposto in compensazione, di esplicitare formalmente tale deroga.
Nè si potrebbe pensare che la deroga debba ritenersi implicita nella previsione dell'art. 53, (se) inteso come concernente nella sua interezza i solo pegno regolare.
E ciò sia perché la modalità della deroga fissata nell'art. 52 imponeva una disposizione espressa sia perché sarebbe stato comunque necessario - e si è più sopra rilevato che invece non ricorre tale ipotesi - che l'art. 53 avesse avuto ad oggetto la disciplina del solo pegno regolare con tanta univocità da far desumere con assoluta certezza che il legislatore avesse inteso escludere dalla disciplina stessa il pegno irregolare.
In realtà, a ben vedere, ciò di cui soprattutto occorre tener conto per la soluzione interpretativa - concernendo la prelazione, si ripete, unicamente il modo di realizzazione del credito - è che la prelazione stessa attiene alla riscossione - privilegiata - di un credito: e seguendo l'interpretazione che si ritiene di non condividere si consentirebbe la riscossione di un credito su un bene che appartiene alla massa fallimentare senza alcun intervento di questa stessa.
E non potrebbe obiettarsi che tale verifica sarebbe stata legislativamente richiesta unicamente per il credito correlato alla cosa oggetto di pegno regolare perché solo tale tipo di pegno la consentirebbe dal momento solo in questo la cosa - in quanto rimasta nella proprietà del debitore - sarebbe (conseguentemente) entrata a far parte del patrimonio fallimentare.
Il rilievo difatti non coglierebbe nel segno in quanto sotto il profilo ora esaminato le situazioni scaturenti dai due tipi di pegno sono identiche dal momento che al fine occorre far riferimento, come si è più sopra rilevato, al credito che si intende soddisfare e non alla cosa oggetto del pegno.
Proprio il fatto - che probabilmente è stato suggestivo dell'interpretazione avversata - che nel pegno irregolare la cosa data in pegno sia passata in proprietà del creditore rivela che la cosa stessa non viene più in discussione in sede di prelazione poiché dopo la costituzione di detto pegno il rapporto (che residua) concerne solo l'obbligo e il correlato diritto di restituzione, i quali hanno ad oggetto non la somma già trasferita in proprietà ma il "tantundem" della stessa, e precisamente l'equivalente totale di questa nel caso in cui il debitore abbia pagato tutto il suo debito oppure il residuo di tale equivalente nel caso in cui il debitore abbia pagato solo parte del suo debito.
Quindi la prelazione che il creditore esercita nel caso di pegno irregolare viene a realizzarsi non sulla somma trasferita in pegno, ma sulla somma - diversa - della quale il debitore avrebbe altrimenti diritto alla restituzione: il creditore cioè opera la prelazione riducendo l'ammontare di quella somma che altrimenti dovrebbe restituire al debitore e per esso al fallimento, e cioè di quella somma - totale o parziale - che con il ricevimento del pegno egli ha assunto l'obbligo di restituire.
Il creditore nel pegno irregolare pertanto, in quanto esercita la prelazione non sulla somma della quale è divenuto proprietario ma sulla somma della quale il debitore, e quindi il fallimento, è creditore, esercita la prelazione - quindi al pari del creditore nell'ipotesi di pegno regolare - su cosa che appartiene (nel caso di pegno irregolare come oggetto di diritto alla restituzione) al fallimento.
Consegue che non sussistono specifiche ragioni di differenziazione della tutela prelatizia nei due tipi di pegno.
E pertanto il difetto di esplicita previsione non può ritenersi che il legislatore abbia consentito nell'ipotesi di pegno irregolare di derogare all'indicato canone fondamentale dell'assoggettamento a verifica di ogni credito vantato nei confronti del fallito.
Altrimenti dovrebbe inferirsene che il legislatore abbia attribuito ai creditori fallimentari il diritto di controllare la esistenza, la validità e la efficacia di un credito nei confronti del fallimento correlato ad un pegno regolare ed abbia invece escluso tale diritto nel caso che tale credito fosse correlato ad un pegno irregolare: e ciò senza che sussistesse, come si è rilevato, alcuna ragione di trattamento differenziato - in sede fallimentare - dei due crediti.
Alla stregua delle considerazioni per ultimo svolte dovrebbe comunque, ove si ipotizzasse che la norma in esame concernesse unicamente il pegno regolare e non fosse suscettibile di comprendere per interpretazione estensiva il pegno irregolare, ritenersi che a questo la norma stessa sarebbe applicabile in via analogica: tale applicazione dei fatti potrebbe considerarsi inammissibile solo ove si ritenesse - e si è detto che tale ipotesi non ricorre, che dovesse ritenersi stabilita legislativamente la menzionata deroga nel caso d pegno irregolare.
Da quanto finora rilevato può enuclearsi il seguente principio: l'art. 53, primo comma, della legge fallimentare concerne anche il pegno irregolare e pertanto costituisce condizione dell'esercizio della prelazione correlata a tale tipo di pegno nel corso del fallimento la previa ammissione al passivo del credito per il cui soddisfacimento dovrebbe esercitarsi la prelazione stessa.
Il ricorso è pertanto fondato.
La sentenza impugnata dev'essere quindi cassata in ordine alla statuizione concernente i credito per lire 27.902.015 e la causa va rinviata ad altro giudice, il quale deciderà attenendosi all'indicato principio.
Con il ricorso incidentale si deduce che la Corte d'appello, ritenendo che fosse applicabile la compensazione e che questa non operasse per la somma di lire 39.748.751, è incorsa in violazione degli artt. 1851 c.c. e 53 e 72 legge fallimentare perché non ha rilevato: a) che non sussistevano due diversi rapporti - condizione questa che la operatività della compensazione - e pertanto vigeva il principio del pareggio automatico e contabile, operante quando si tratti di rapporto unico o di rapporti collegati (quale il rapporto principale e quello di garanzia); b) che la procedura concorsuale non aveva rilevanza poiché per il principio della continuazione dei contratti in corso (dei quali non si determini lo scioglimento) permaneva l'operatività del contratto "de quo"; c) che non sussisteva, trattandosi di pegno irregolare, l'onere di insinuazione al passivo del credito corrispondente all'obbligazione a garanzia del pagamento della quale era stato costituito il pegno.
La censura sub b) introduce una questione nuova, che, in quanto tale, non può essere prospettata per la prima volta in sede di legittimità.
Le argomentazioni poste a base dell'accoglimento del ricorso principale poi rendono irrilevante la censura sub a) e infondata la censura sub c).
Il ricorso incidentale dev'essere pertanto respinto.
P.Q.M
riunisce i ricorsi; accoglie quello principale e rigetta quello incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d'appello di Milano, in diversa sezione, la quale provvederà anche sulle spese processuali del giudizio di cassazione.
Così deciso il 26.11.1996