Cassazione civile, SEZIONE I, 12 luglio 2002, n. 10144
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Rosario DE MUSIS - Presidente -
Dott. Giovanni LOSAVIO - Consigliere -
Dott. Ugo Riccardo PANEBIANCO - Consigliere -
Dott. Donato PLENTEDA - Consigliere -
Dott. Walter CELENTANO - Rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
BANCA INTESA SPA Società nei precedenti gradi di giudizio denominata
BANCO AMBROSIANO VENETO SPA, in persona dell'Amministratore Delegato
pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DI S. GIACOMO 18,
presso l'avvocato LUIGI FLAUTI, che la rappresenta e difende
unitamente all'avvocato GASPARE ROBINO, giusta procura speciale per
Notaio D'Avino Salvatore di Milano del 17.4.2000 REP 166029;
- ricorrente -
contro
DE ANGELI FRUA SPA, FALLIMENTO INIZIATIVE INDUSTRIALI SPA;
- intimati -
avverso la sentenza n. 524-99 della Corte d'Appello di MILANO, emessa
il 02-12-98;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
19-03-2002 dal Consigliere Dott. Walter CELENTANO;
udito per il ricorrente, l'Avvocato ROBINO, che ha chiesto
l'accoglimento del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Umberto APICE che ha concluso per l'accoglimento del secondo motivo
del ricorso. Assorbimento nel resto.
Con deliberazioni in data 10.07.1991, iscritte presso il tribunale
di Milano il successivo 3.10.1991, l'assemblea della S.p.a. De Angelis Frua
deliberò il mutamento dell'oggetto sociale.
Con una comunicazione consegnata a mani il 18.10.1991 e inviata per posta lo
stesso giorno e ricevuta dalla società il successivo 19.10, il Banco Ambrosiano
Veneto, creditore della S.p.A. Iniziative Industriali con garanzia pignoratizia
costituita su 1.600.000 azioni ordinarie della De Angelis intestate alla debitrice,
dichiarò di esercitare, per quanto fosse occorso anche in via surrogatoria,
il diritto di recesso ai sensi dell'art. 2437 c.c.
Con sentenza in data 6.10.1992 il tribunale di Milano dichiarò il fallimento
della S.p.a. De Angelis.
Il Tribunale di Monza, con sentenza del 24.12.1992, dichiarò il fallimento della
S.p.a. Iniziative Industriali.
La curatela del fallimento della S.p.a. Iniziative Industriale e il Banco Ambrosiano
Veneto s.p.a. richiesero di essere ammesse al passivo del fallimento della S.p.a.
Iniziative Industriali, rivendicando, in conseguenza dell'esercitato diritto
di recesso, il proprio credito di rimborso di n. 1.600 azioni della Soc. De
Angelis Frua che il Banco aveva ricevuto in pegno dalla Società azionaria Sasea
Italia, divenuta poi
Il giudice delegato non ammise al passivo tali crediti con la motivazione "che
il recesso della prima non era stato esercitato in tempo utile" e che "il
recesso esercitato dal Banco Ambrosiano Veneto era da ritenersi invalido stante
il carattere personale del diritto di recesso, che ne escludeva la possibilità
di esercizio da parte del creditore pignoratizio senza l'espresso consenso del
debitore, in quanto il recesso stesso spogliava il debitore della sua qualità
di socio".
Le società istanti proposero opposizione allo stato passivo, alle quali la curatela
resistette.
Il tribunale di Milano, pronunciando nei giudizi riuniti, dichiarò cessata la
materia del contendere tra il fallimento della S.p.a. Iniziative Industriali
e il fallimento della S.p.a. De Angelis Frua e rigettò l'opposizione proposta
dal Banco Ambrosiano Veneto, il quale propose appello, riproponendo le domande
respinte. Al gravame resistette
La Corte di Appello territoriale, con sentenza emessa il 16.03.1999, così provvide,
rigettando il gravame:
a) confermò l'invalidità del recesso esercitato dal Banco quale creditore pignoratizio
delle azioni De Angelis Frua date in pegno dal suo debitore Soc. Iniziative
Ind.li, negando in termini generali la legittimazione del creditore pignoratizio
al recesso; giudicò infondata la tesi che la dichiarazione di recesso avrebbe
dovuto ritenersi manifestata dal socio S.p.A. Iniziative Industriali, rilevando
che la dichiarazione stessa proveniva non dal socio suddetto bensì dal curatore
del suo fallimento.
b) ritenne altresì infondato il motivo di appello che prospettava la legittimità
del recesso del Banco in via surrogatoria ex art.
2900 c.c., escludendo l'ammissibilità dell'azione in relazione ad atti di esercizio
di potere cosiddetti "a struttura alternativa" nel senso che al titolare
era dato di scegliere tra due modi, appunto alternativi, di tutela del proprio
interesse.
Avverso tale sentenza
Gli intimati - S.p.a. De Angelis Frua e Curatela del fallimento S.p.a. Iniziative
Industriali - non hanno svolto attività difensiva.
Con tre motivi la banca ricorrente ha denunciato:
1 - in ordine alla negata validità della dichiarazione di recesso dalla De Angelis
Frua S.p.a., espressa dal Banco Ambrosiano Veneto quale creditore pignoratizio,
per asserito difetto della sua legittimazione all'esercizio del recesso di cui
all'art. 2437 cod.
civ., "la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, e in particolare
degli artt. 2437, 2352 e 2795 c.c. nonché l'insufficiente e comunque errata
e contraddittoria motivazione sul punto decisivo della ratifica della dichiarazione
di recesso, intervenuta ad opera del debitore costituente il pegno delle azioni
(
2 - in ordine alla negata validità dell'esercizio del diritto di recesso in
via surrogatoria, "la violazione e falsa applicazione di norme di diritto,
e in particolare degli artt. 2900 e 2437 c.c. e comunque errata e contraddittoria
motivazione su punto decisivo";
3 - in ordine all'affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo la
quale il diritto di recesso sarebbe stato comunicato oltre il termine di cui
all'art. 2437 comma secondo c.c., questione non disaminata dalla Corte di merito,
perché ritenuta assorbita, "l'omessa motivazione su punto decisivo".
Il primo motivo non ha fondamento.
La Corte di merito, argomentando sulla base della norma dell'art.
2792 c.c. e del coordinamento secondo criteri di razionalità logico - sistematica
della norma dell'art. 2352 con l'altra dell'art. 2437 c.c., ha giustamente negato
la legittimazione del Banco Ambrosiano Veneto, quale creditore pignoratizio
delle azioni, all'esercizio del recesso ex art. 2437 c.c..
Deduce la ricorrente, denunciando l'erroneità del giudizio, che
2352 c.c. e alla sua ratio, costituendo essa il riconoscimento, da parte del
legislatore, dell'esigenza del creditore pignoratizio di tutelare il valore
della garanzia costituita da partecipazioni di capitale, esigenza prevalente
rispetto a quella del socio".
Richiama la pronuncia di questa Corte n. 2698 del 1961 per il principio che
"il fondamento della previsione" (contenuta nella norma circa l'attribuzione
al creditore pignoratizio del diritto di voto) è l'attribuzione al creditore
pignoratizio di una tutela del suo diritto di garanzia in coerenza con la natura
di tale diritto e del normale intento pratico delle parti. E ciò ammesso, deve
escludersi carattere di eccezionalità della disposizione".
E ancora deduce che "l'attribuzione per ogni delibera di qualsivoglia natura
e contenuto del diritto di voto al creditore pignoratizio, lo scopo di tutelare
il valore del suo diritto reale di garanzia e il preminente carattere patrimoniale
del diritto di partecipazione sociale nella società commerciale di capitali
costituiscono i parametri interpretativi in forza dei quali non si può non attribuire
al creditore pignoratizio la legittimazione ad esperire la dichiarazione di
recesso di cui all'art. 2437 c.c., perché ritenere, al contrario, che il diritto
di recesso non possa essere esercitato dal creditore pignoratizio e che debba
restare nella discrezionalità del socio sarebbe, da una parte, in palese contrasto
con la tutela del diritto reale di garanzia riconosciuta al creditore pignoratizio
e sarebbe, d'altra parte, contraddittorio con la facoltà spettante allo stesso
creditore pignoratizio di deliberare lo stesso scioglimento del rapporto sociale;
sarebbe, infine, in contrasto con il fatto che attribuire il diritto di voto
per ogni delibera al creditore pignoratizio a tutela del suo diritto reale di
garanzia si risolverebbe in una vuota proposizione, che resterebbe senza contenuto
se non si riconoscesse che con il diritto di voto spetta anche quanto con tale
diritto è in connessione".
1. Un solo argomento sembra, prima facie proponibile, a sostegno della tesi
che, nell'ipotesi dell'art. 2352 c.c., la legittimazione al recesso spetti al
creditore pignoratizio: potrebbe, infatti, sostenersi che rispetto alle deliberazioni
previste dall'art. 2437 c.c., alle quali, come ad ogni altra perché la norma
non distingue, è ammesso al voto il creditore pignoratizio, dovrebbe ritenersi
che la tutela della garanzia pignoratizia e il potere di operare, attraverso
il voto, per la conservazione del valore delle azioni, non possano esaurirsi
nella manifestazione del voto di dissenso perché questo non sarebbe sufficiente
alle ragioni di tutela del creditore pignoratizio, alle quali l'attribuzione
del diritto di voto è strumentale. Ma è argomento soltanto suggestivo, irrilevante
e di nessun peso perché in senso contrario militano considerazioni di ordine
teorico e sistematico relative sia alla ratio dell'attribuzione del voto sia
alla configurazione del recesso e del relativo significato dell'esercizio del
diritto, nonché il dato normativo.
È vero che la norma dell'art. 2352 c. c. crea una interferenza della garanzia
pignoratizia del creditore con le ragioni societarie dell'azionista debitore
costituente del pegno, e tuttavia la tutela del creditore non può non essere
ricercata secondo quella che viene definita la "prospettiva dominicale",
ossia in coerenza con le sue ragioni di garanzia reale, all'interno del rapporto
che la costituzione del pegno stabilisce tra esso creditore e il debitore e
dunque nella disciplina normativa dello specifico diritto reale di garanzia,
piuttosto che nelle norme e negli istituti che riguardano la partecipazione
societaria del debitore. Soccorre allora, ai fini della tutela, e quale mezzo
all'uopo apprestato dalla stessa disciplina codicistica del pegno, la vendita
anticipata della cosa di cui all'art. 2795, cui già
2. È altresì vero che il voto è attribuito al creditore pignoratizio nell'interesse
specifico di questo in funzione di una tutela conservativa del valore patrimoniale
delle azioni date in pegno, e tuttavia rileva che nella norma dell'art. 2352
c.c. non vi sia deroga alcuna alla disciplina del diritto reale di pegno qual
è configurata dalle norme degli artt. 2784 e ss. c.c., sicché l'attribuzione
del diritto di voto al creditore non può non coordinarsi con tale disciplina.
La norma non esprime, dunque, un trasferimento della posizione societaria in
capo al creditore pignoratizio ma attribuisce a questo, con disposizione peraltro
derogabile dalle parti (il che significativamente attenua la forza del termine
spetta adoperato dal legislatore), il diritto di voto in funzione semplicemente
conservativa della res (del valore delle azioni: in dottrina è stato giustamente
osservato che l'oggetto "sostanziale" del pegno di azioni è costituito
non dai diritti facenti parte o derivanti dalla partecipazione societaria o
dai beni ricompresi nel patrimonio sociale bensì dal valore dei titoli dati
in garanzia), donde il principio giurisprudenziale (v. per quest'ultima, la
sentenza n. 7614 del 1996 di questa Corte, in tema di usufrutto di quota, ma
il principio di diritto è comune al pegno) secondo il quale il creditore esercita
si un diritto proprio ma nell'esercizio dello stesso egli deve astenersi da
comportamenti che possano arrecare pregiudizio al titolare delle azioni e in
particolare da modi di esercizio del diritto di voto che possano compromettere
la conservazione del valore economico della partecipazione societaria (le c.d.
ragioni societarie essendo salvaguardate in ogni caso dalla validità del voto
espresso in assemblea e dalla validità della deliberazione che l'assemblea abbia
adottato con il concorso, quale che sia stato, del voto del creditore pignoratizio).
L'attribuzione del diritto di voto in funzione, come si è detto, conservativa
del valore delle azioni date in pegno, e degli altri diritti sociali minori
(richiesta di convocazione dell'assemblea, di informativa nello svolgimento
di essa, di impugnazione delle deliberazioni invalide - per quest'ultimo vedi
Cass. n. 3422 del 1977) dei quali pure si ammette l'esercizio da parte del creditore
pignoratizio, segna dunque il limite della interferenza dinanzi rilevata.
Tali considerazioni di ordine sistematico, ricostruttive della fattispecie in
coerenza con il dato normativo, impongono di porre in primo piano quest'ultimo,
e segnatamente la norma dell'art. 2790 c.c.
circa l'obbligo del creditore pignoratizio di custodire la cosa data in pegno
e la sua responsabilità, secondo le regole generali, per la perdita e il deterioramento
della cosa stessa.
Si profila del tutto evidente l'impossibilità giuridica, sul piano normativo
e sistematico, di configurare in capo al creditore pignoratizio di cui all'art.
2352 c.c. un potere di disposizione in ordine alla partecipazione societaria
del suo debitore.
3. Il recesso di cui all'art. 2437 c.c..
In nessun modo si dubita - e
L'esercizio del recesso è dunque atto di disposizione e in quanto tale, non
può non restare in capo al socio, come atto che naturalmente rientra nelle sue
facoltà in ordine alla partecipazione societaria, anche allorché il socio medesimo
abbia costituito in pegno le azioni delle quali sia titolare. In tal senso può
anche parlarsi di "personalizzazione" (nel senso, appunto, che resti
comunque riservata al socio) della facoltà o diritto di recesso.
I limiti normativi delle attribuzioni del creditore pignoratizio, quali emergono
dalle norme degli artt. 2352, 2790 c.c., e il significato e le conseguenze societarie
dell'esercizio della facoltà di recesso ex art. 2437 c.c. si pongono dunque
di ostacolo a ritenere che la costituzione del diritto di pegno sulle azioni
implichi il trasferimento in capo al creditore pignoratizio della disponibilità
della partecipazione societaria del suo debitore e, a monte, delle scelte in
ordine alla stessa (mantenere o non il vincolo associativo in presenza dei deliberati
mutamenti dell'oggetto sociale o del tipo societario etc., in relazione alle
ragioni e alle valutazioni relative all'investimento del suo capitale).
Concorda sul punto la dottrina, anche quella che la norma dell'art. 2352 c.c.
ricostruisce nella prospettiva societaria, piuttosto che nell'ottica della garanzia
pignoratizia, e considera che "l'attribuzione al creditore sarebbe in contrasto
con il divieto di uso della cosa, non necessario alla sua conservazione (art.
2792 c.c.), norma questa che è derogata dall'art. 2352 soltanto per il diritto
di voto, ferma la non estensibilità al diverso atto di disposizione del bene,
qual è il recesso" (ciò indipendentemente dalle ragioni che, sul piano
strettamente esegetico nonché su quello della ricostruzione logico - sistematica,
altra dottrina ricava dall'aver la norma stessa dell'art. 2352 c.c. mantenuto
in capo al debitore pignoratizio la titolarità del diritto di opzione, ossia
il "diritto di decidere in ordine alle modifiche quantitative" della
propria partecipazione societaria).
4. In ordine alla c.d. "ratifica" da parte del curatore fallimentare
della S.p.a. Iniziative Industriali, socio azionista della Soc. De Angelis Frua,
si osserva quanto segue.
Sotto il profilo della violazione di legge, la ricorrente deduce che muovendo
dal riconoscimento, cui pure i giudici dell'appello erano pervenuti, della natura
patrimoniale dei diritti connessi alla partecipazione societaria in una società
di capitali, si sarebbe dovuto conseguentemente riconoscere anche "che
il curatore del fallimento era pienamente legittimato ad esprimere la volontà
della società con riferimento, appunto, ai diritti di carattere patrimoniale",
mentre sotto il profilo della denunciata inadeguatezza della disamina sul punto,
la stessa ricorrente deduce che sia stata sostanzialmente trascurata da quei
giudici, proprio a cagione dell'errore di diritto per il profilo della provenienza
della dichiarazione, la circostanza, "di per sè determinante", della
"ratifica" da parte del debitore pignoratizio e, per esso, da parte
del curatore del suo fallimento - ratifica avente efficacia retroattiva ex art.
1399 c.c..
Avendo
Il rilievo in questione, che evidentemente presuppone un (inespresso) giudizio
negativo della stessa Corte circa la possibilità che la suddetta dichiarazione
"di riconoscimento" proveniente dal curatore fallimentare del socio
valesse a conferire efficacia giuridica alla dichiarazione di recesso manifestata
dal Banco creditore pignoratizio, la cui legittimazione diretta era stata già
esclusa, non tiene conto della circostanza che, una volta intervenuto il fallimento
(s'intende, a cagione della sua insolvenza quale imprenditore) del socio azionista,
non altri che il curatore sarebbe stato legittimato all'esercizio dei diritti
e delle facoltà a contenuto patrimoniale che già spettavano al socio, dovendosi
gli stessi, per di più, essere acquisiti al procedimento concorsuale.
Ma, riconosciuto tale errore e rilevata anche l'effettiva, e ad esso conseguente,
manchevolezza della disamina condotta dai giudici dell'appello, che non è stata
estesa a tutti i profili di diritto sotto i quali l'intervenuta dichiarazione
di ratifica, la sua rilevanza giuridica e la sua efficacia retroattivamente
sanante erano state prospettate dalla Banca appellante, può procedersi in questa
sede, sul fondamento della norma dell'art. 384 comma 2 c.p.c. e sulla base delle
stesse prospettazioni della ricorrente, all'integrazione della motivazione,
atteso che una più esauriente valutazione in termini di diritto della suddetta
dichiarazione di "ratifica" non conduce a decisione diversa da quella
alla quale è pervenuta
La norma dell'art. 384 comma 2 c.p.c., intesa secondo la sua ratio, può infatti
consentire che resti superata la necessità dell'annullamento della sentenza
nell'ipotesi in cui, riconsiderati quei profili di diritto di un fatto o di
un atto o di un negozio giuridico dedotto dalla parte che il giudice di merito
abbia trascurato, e in tal modo integrata la motivazione della sentenza, non
debba restare mutata la decisione finale raggiunta dal giudice di merito circa
la rilevanza o la irrilevanza giuridica nel medesimo fatto o atto o negozio
giuridico.
Può infatti ritenersi contrario a detta ratio della norma che per la disamina
dei suddetti profili di diritto debba disporsi l'annullamento con rinvio anche
allorché sia prefigurabile un esito di conferma, nella sede di rinvio, della
sentenza sul medesimo punto, in altri termini, allorché la più completa disamina
della fattispecie - ritenuta questa nella configurazione in cui è stata dedotta
e non contrastata o in cui è stata accertata nel giudizio di merito - non debba
portare, in ordine alla stessa, a conseguenze decisorie diverse da quelle che
il giudice di merito ha raggiunto pur nella sua incompleta disamina.
Nel caso di specie, risulta di immediata evidenza che le prospettazioni della
ricorrente, già di per sè considerate, non arrecano sostegno alcuno alle tesi
svolte nel ricorso sul punto specifico del preteso riconoscimento di una qualche
efficacia giuridica, in forza della successiva dichiarazione di "convalida
e ratifica" (in ogni caso esulante dalla fattispecie tipica configurata
dagli artt. 1398 e 1399 c.c. atteso che la ricorrente ha sempre dedotto, nei
gradi di merito e con il ricorso in esame, di aver manifestato il recesso in
proprio, nella sua qualità di creditore pignoratizio delle azioni: v. pag. 3
del ricorso) proveniente dal curatore fallimentare, alla dichiarazione di recesso.
Deve infatti considerarsi a) che, pur ricondotto il caso di specie, nei termini
nei quali è enunciato dalla ricorrente, ad una situazione nella quale avrebbe
potuto operare il principio generale della efficacia mediante ratifica successiva
della dichiarazione negoziale resa dal soggetto non legittimato, non è dubbio
che detta ratifica o approvazione debba intervenire tempestivamente allorché
un termine di decadenza sia previsto per la dichiarazione è il caso del recesso
ex art. 2437.c.c. il cui termine è di decadenza (v.
Cass. n. 5173 del 1999 e n. 12 del 1998, mentre per il principio del completamento
della fattispecie entro il termine di decadenza v.
Cass. n. 249 del 1989 e le altre conformi in essa richiamate) e per il caso
di specie la stessa ricorrente ha dedotto, con il ricorso, che le deliberazioni
10.07.1991 della Soc. De Angelis Frua erano state iscritte presso il Tribunale
di Milano il 3.10.1991, che la sua dichiarazione di recesso era stata inoltrata
il 18.10.1991 mentre la dichiarazione di c.d. "ratifica" da parte,
del curatore fallimentare della Soc. Iniziative Industriali era stata resa il
31.03.1993, allorché il medesimo curatore aveva presentato la domanda di ammissione
al passivo nel fallimento DAF per il credito corrispondente al valore delle
azioni. E può ancora rilevarsi, b) che al momento in cui fu resa, tale dichiarazione
del curatore fallimentare del socio azionista non avrebbe mai potuto concorrere
alla produzione degli effetti di cui all'art. 2437 c.c. a cagione del già intervenuto
(il 6.10.1992, secondo quanto la ricorrente ha indicato: pag. 3 del ricorso)
fallimento della S.p.a. De Angelis Frua - situazione sopravvenuta, questa, che
imprimeva tutt'altra sorte e destinazione al patrimonio di quest'ultima sociètà
e che anche poneva limiti intrinseci all'eventuale efficacia retroattiva della
dichiarazione di ratifica.
Da tutto quanto considerato in ordine al (la facoltà di) "recesso deriva
l'infondatezza del secondo motivo di ricorso.
A) per il caso di specie non risultano dedotti nei gradi di merito comportamenti
del socio azionista S.p.a. Iniziative Industriali diversamente interpretabili,
e dunque assume rilievo decisivo la considerazione che, in via generale, l'astensione
da ogni tipo di iniziativa, il silenzio del socio circa ogni sua determinazione
di seguito ad una deliberazione societaria avente il contenuto indicato dalla
norma dell'art. 2437 c.c., non potrebbe essere interpretato, nella sua semplice
oggettività di comportamento omissivo in astratto riferibile all'alternativa
di ritiro dalla partecipazione societaria, come inerzia nell'esercizio del recesso,
onde dell'esercizio in via surrogatoria della relativa facoltà difetterebbe
il primo presupposto.
B) La norma dell'art. 2900 c.c. consente l'esercizio del potere surrogatorio
- il cui fine è, nel sistema dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale,
quello di recuperare al patrimonio del debitore somme di danaro, beni o altre
utilità economico - giuridiche che il debitore stesso trascuri di farvi rientrare
omettendo l'esercizio dei relativi diritti ed azioni - soltanto in relazione
a diritti ed azioni che abbiano contenuto patrimoniale, sempre che non si tratti
di diritti o di azioni che, per loro natura o per disposizione di legge, non
possono essere esercitati se non dal loro titolare. Resta dunque estraneo all'ambito
oggettivo del potere surrogatorio l'esercizio dì diritti o facoltà che, ricollegandosi
all'autonomia che l'ordinamento assicura al soggetto, implicano il disporre
di una situazione giuridica soggettiva.
In via generale l'esercizio del potere surrogatorio ex art. 2900 c.c. è escluso
per quei diritti "qualificati come connessi con una qualità del loro titolare,
in considerazione della quale sarebbe attribuito a quest'ultimo il potere di
risolvere a proprio favore una situazione di concorso con altri soggetti",
configurazione questa che si attaglia ai diritti connessi allo status di socio,
ed altresì, per quel che qui rileva considerare, in relazione all'esercizio
di quei diritti il cui esercizio comporti e si risolva "in una modificazione
che incida sul contenuto di una situazione o di un rapporto giuridico, ovvero
sulla relativa titolarità".
Proprio l'esercizio in via surrogatoria del potere di disposizione, quale il
recesso ex art. 2437 c.c. implica, in relazione al carattere personale delle
valutazioni che l'azionista è chiamato a compiere di fronte alla deliberazione
indicata nella stessa norma dell'art. 2437 c.c., in ordine allo status di socio
e al contenuto e al significato della partecipazione societaria, non può essere
riconosciuto al creditore pignoratizio di cui all'art. 2352 c.c. se non violando
i limiti normativi del potere surrogatorio, dinanzi individuati.
Tali conclusioni negative sono condivise dalla dottrina, alla quale si debbono
le delimitazioni del potere surrogatorio dinanzi ricordate e che non trascura
di richiamare, ancora attualmente e nella generalità delle trattazioni sulla
materia, la sentenza 7.12.1927 di questa Corte (l'unico precedente rinvenibile
sulla questione, almeno in sede di legittimità) secondo la quale "il diritto
di recesso da una società anonima è strettamente personale al socio e pertanto
non può essere esercitato in via surrogatoria, ex art. 1234 c.c., dal creditore
particolare di lui".
Occorre aggiungere, venendone sollecitazione dal contenuto patrimoniale del
diritto di recesso ex art. 2437 c.c., che se pur l'intervento del creditore
in via surrogatoria deve ammettersi per quei diritti che il socio possa vantare
nei confronti della società e nel cui esercizio si ravvisi "una pretesa
a struttura creditoria", è evidente che debba trattarsi di diritti patrimoniali
già acquisiti al socio, sicché, nel caso del recesso in questione, l'esercizio
del potere surrogatorio, escluso per la facoltà di recesso, sarebbe ammissibile
soltanto, sulla base della dichiarazione in tal senso del socio, per il conseguimento
del rimborso delle azioni, diritto che, appunto, può, esso si, risultare configurato
come a (semplice) struttura creditoria. Nella giurisprudenza di questa Corte
è ricorrente l'affermazione che "per l'esperimento dell'azione surrogatoria
non basta l'interesse generico che al creditore deriva dalla norma generale
dell'art. 2740 c.c., ma occorre un interesse specifico determinato dal pregiudizio
che alle ragioni del creditore può derivare dall'inerzia o dalla negligenza
del debitore rispetto all'esercizio di diritti che allo stesso debitore competono
nei confronti di terzi", ov'è messa in evidenza proprio la "struttura
creditoria", nel senso dinanzi delineato, del diritto e della pretesa azionabile.
Per tali ragioni di infondatezza del primo e del secondo motivo, il ricorso
va rigettato, restando assorbito - come già nella sentenza impugnata - il terzo
motivo (le questioni in esso riproposte circa l'affermata tempestività della
dichiarazione di recesso).
Non è luogo a pronuncia sulle spese.
Così deciso addì 19 marzo 2002 nella camera di consiglio della prima sezione
civile della Corte di Cassazione.