Cassazione civile, SEZIONE I, 22 ottobre 1998, n. 10488


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Vincenzo           CARBONE                     Presidente
Dott. Antonio A          CATALANO                    Consigliere
Dott. Vincenzo           FERRO                       Rel. Consigliere
Dott. Simonetta          SOTGIU                      Consigliere
Dott. Angelo             SPIRITO                     Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
CREMASCHI FRANCO, rappresentato e difeso dagli avv. Mario Donzelli  e
Paolo Pavesi del foro di Milano e dall'avv. Lucio Moscarini del  foro
di Roma, presso quest'ultimo elettivamente domiciliato in  Roma,  via
Sesto Rufo n. 23, in virtù di procura in calce al ricorso,
Ricorrente
contro il
FALLIMENTO della S.R.L. CREMASCHI  e  C.,  in  persona  del  Curatore
Pierangelo Capra, autorizzato al presente giudizio  con  decreto  del
giudice delegato 5 giugno 1994, rappresentato  e  difeso  dagli  avv.
Giuseppe Prisco del foro di Milano ed Enrico  Biamonti  del  foro  di
Roma;  presso  quest'ultimo   elettivamente   domiciliato   in   Roma
lungotevere  Michelangelo  9,  in  virtù  di  procura  in  calce  al
controricorso,
Controricorrente
avverso la sentenza della Corte di  appello  di  Milano  29  marzo-26
maggio 1995 n. 1514.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza  del  19
marzo 1998 dal Relatore Cons. dott. Vincenzo Ferro;
Uditi l'avv. Moscarini per il ricorrente e gli avv. Prisco,e Biamonti
per il controricorrente;
Udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale dott. Franco  Morozzo
della Rocca, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Fatto

Con ricorso in data 5 febbraio 1987 la s.r.l. Cremaschi chiedeva al Presidente del Tribunale di Milano autorizzazione a sequestro conservativo a carico di Cremaschi Franco, il quale era stato amministratore unico della società suddetta fino al 30 giugno 1986, a garanzia del credito risarcitorio che dichiarava di vantare nei confronti del Cremaschi stesso in relazione a vari illeciti da lui commessi tra cui il prelievo dalle casse sociali a fini personali di complessive lire 918.346.560 e irregolarità fiscali quali il mancato versamento dell'IRPEG per il 1982, il tardivo versamento dell'IRPEG per il 1981 e l'infedele dichiarazione relativa ad IRPEG e ILOR per il 1982, che avevano comportato a carico della società oneri aggiuntivi per complessive lire 292.895.460. Autorizzato, ed eseguito, il sequestro, con atto notificato il 20 luglio 1987 la s.r.l. Cremaschi citava in giudizio davanti al Tribunale di Milano Cremaschi Franco, esercitando nei suoi confronti l'azione di responsabilità di cui agli art. 2392 e 2393 C.C. e proponendo quindi domanda di convalida del sequestro e di condanna al risarcimento dei danni con rivalutazione e interessi. Costituendosi in giudizio Cremaschi Franco resisteva alle pretese della società attrice;. deduceva, in particolare, che il 7 maggio 1986 egli e la moglie Morganti Ida avevano ceduto tutte le quote della s.r.l. Cremaschi di cui erano titolari rispettivamente per lire 19.565.000 e per lire 435.000 nominali, costituenti l'intero capitale sociale, alla PEFIN s.p.a. per lire 19.565.000, a Pellegrini Ernesto per lire 235.000 e a Pellegrini Giordano Natale per lire 200.000, con l'impegno da parte di Pellegrini Ernesto di accollarsi tutte le perdite della società a quella data esistenti e non eccedenti lire 8.000.000.000,di rifondere alla società il debito di esso Cremaschi di lire 918.346.560 risultante dai libri sociali, e di manlevarlo da qualsiasi richiesta della società in relazione alla sua attività di amministratore.

Chiedeva, quindi, di essere autorizzato alla chiamata in causa di Pellegrini Ernesto; ma l'istanza veniva respinta dal giudice istruttore. Nelle more del giudizio davanti al Tribunale veniva dichiarato il fallimento della s.r.l. Cremaschi. Ne seguiva l'interruzione del processo e la riassunzione dello stesso ad opera del Curatore del fallimento il quale faceva proprie tutte le domande e le difese della società attrice.

Interveniva in giudizio Morganti Ida, proponendo opposizione al sequestro conservativo relativamente ad alcuni cespiti immobiliari dal Cremaschi costituiti in fondo patrimoniale ai sensi dell'art. 167 C.C., con atto pubblico 26 dicembre 1986.

Il Tribunale di Milano con sentenza 27 maggio -13 dicembre 1993 n. 11931, ritenuta fondata l'azione di responsabilità in ordine agli addebiti suindicati, condannava Cremaschi Franco al pagamento in favore del Fallimento della s.r.l. Cremaschi a titolo di risarcimento di lire 1.211.242.020, con gli interessi legali dai singoli esborsi al saldo, e con la rivalutazione del capitale in ragione degli indici ISTAT fino alla data della sentenza, accoglieva l'opposizione di Morganti Ida relativamente agli immobili costituiti in fondo patrimoniale, e convalidava nella restante parte il sequestro conservativo come sopra autorizzato ed eseguito a carico del Cremaschi.

Proponeva appello Cremaschi Franco, assumendo: che i mancati o ritardati pagamenti di imposte non erano a lui imputabili perché determinati esclusivamente dalla mancanza di liquidità in cui versava la società; che non vi era prova che da tali ritardi od omissioni fosse derivato danno alla società, non essendo dimostrato che l'Amministrazione delle Finanze avesse ottenuto dalla stessa il pagamento di interessi moratori o sanzioni, o si fosse insinuata per crediti di tal natura nel passivo fallimentare; che il denaro da lui prelevato dalle casse sociali era stato interamente impiegato nell'interesse della società, e che, comunque, il Pellegrini si era accollato tale debito restitutorio; che il risarcimento a cui egli risultasse in ipotesi tenuto non poteva eccedere la differenza tra il passivo e l'attivo accertati in sede fallimentare; che non potevano essere applicati interessi sulla somma capitale in aggiunta alla riconosciuta rivalutazione monetaria. Il fallimento della s.r.l.

Cremaschi si costituiva in giudizio per resistere all'impugnazione.

Si costituiva anche Morganti Ida, alla quale era stato notificato l'atto di appello, per chiedere la conferma della sentenza di primo grado nella parte che la riguardava.

Con sentenza 29 marzo-26 maggio 1995 n. 1514 la Corte di appello di Milano ha respinto l'appello di Cremaschi Franco, ha riconosciuto al Fallimento della s.r.l. Cremaschi la ulteriore rivalutazione monetaria in base agli indici ISTAT sul capitale di lire 1.211.242.020 dalla data della sentenza di primo grado a quella della sentenza di secondo grado, ha condannato Cremaschi Franco al rimborso in favore del Fallimento delle spese del secondo grado, ha dichiarato interamente compensate le spese del grado tra Morganti Ida (della quale ha rilevato la carenza di legittimazione a partecipare al giudizio di appello in assenza di impugnazione nei suoi confronti) e tutte le altre parti.

Avverso la sentenza della Corte di appello Cremaschi Franco propone il presente ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.

Il Fallimento della s.r.l. Cremaschi resiste con controricorso, illustrato da memoria difensiva depositata ai sensi dell'art. 378 C.P.C.

Diritto

1. Il primo motivo di cui al ricorso, con denuncia di violazione o falsa applicazione di norme di diritto (che vengono indicate negli art. 2393 e 2394 C.C., nell'art. 146 della legge fallimentare, negli art. 1223 e 2056 C.C., nell'art. 2697 C.C.) e di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia prospettato dalla parte, è rivolto contro quella parte della decisione della Corte di merito con cui è stato disatteso l'assunto difensivo del Cremaschi secondo cui la Curatela del fallimento non aveva assolto la prova dell'esistenza di un danno risarcibile. In particolare, avendo il Cremaschi sostenuto in quella sede che l'obbligazione risarcitoria dell'amministratore, convenuto in giudizio dal curatore del fallimento, per i danni cagionati con i suoi ritenuti inadempimenti o con i suoi comportamenti comunque illeciti, non potrebbe eccedere un ammontare pari alla differenza tra il passivo e l'attivo fallimentare, la Corte ambrosiana ha affermato che "il richiesto accertamento dell'attivo e del passivo fallimentare è, ai fini della determinazione dell'entità dei danni risarcibili, del tutto irrilevante", osservando che le problematiche prospettate in proposito dal Cremaschi attengono esclusivamente all'azione prevista dall'art. 2394 C.C. che esula dalla materia del contendere, avendo la s.r.l. Cremaschi agito unicamente ai sensi degli art. 2392 e 2393 C.C. ed avendo il Fallimento, succeduto all'originaria attrice nella sua situazione creditoria sostanziale e nella sua posizione processuale, coltivato soltanto tale azione, caratterizzata da funzione reintegrativa del patrimonio sociale a prescindere dalla situazione patrimoniale - deficitaria o meno - della società danneggiata dal comportamento degli amministratori, e rilevando in concreto che il Cremaschi è stato condannato, appunto, a corrispondere alla controparte un importo esattamente pari ai danni dallo stesso cagionati alla società da lui amministrata con i suoi accertati illeciti. Contro tale ratio decidendi, deduce oggi il ricorrente che l'azione di cui all'art. 2394 C.C. è azione surrogatoria di quella spettante alla società in base all'art. 2393 C.C., avendo uguale natura e fondamento, e che, conseguentemente, intervenuto il fallimento della società, non può non trovare applicazione in entrambi i casi il principio della commisurazione del danno risarcibile in caso di ritenuta responsabilità dell'amministratore alla differenza tra il passivo e l'attivo fallimentare. L'assunto del ricorrente si palesa infondato. La responsabilità degli amministratori verso la società da essi amministrata, prevista e disciplinata dall'art. 2392 (con il complemento dell'art. 2393) C.C., ha ad oggetto il risarcimento dei danni che alla società siano stati cagionati dall'inadempimento, da parte degli amministratori, dei doveri loro imposti dalla legge o dall'atto costitutivo richiamati dal primo comma dell'art. 2932, ovvero dall'inadempimento dell'obbligo generale di vigilanza o dell'altrettanto generale obbligo di intervento preventivo e successivo, posti a loro carico dalla duplice clausola generale di cui al secondo comma dello stesso articolo: il thema probandum a fondamento della responsabilità che al riguardo venga prospettata si articola nei tre elementi dell'inadempimento da parte degli amministratori di uno o più degli obblighi suindicati, del danno subito dalla società, e del nesso causale intercorrente tra l'uno e l'altro: per quanto riguarda, in particolare, il contenuto dell'obbligazione risarcitoria, il danno che l'amministratore responsabile è tenuto a risarcire è quello causalmente riconducibile in via immediata e diretta alla sua condotta colposa o dolosa, ed entro tale limite ricomprende, secondo i principi generali, sia il danno emergente sia il lucro cessante; e va in concreto commisurato al pregiudizio che la società non avrebbe subito se un determinato comportamento illegittimo, attivo od omissivo, non fosse stato posto in essere da parte dell'amministratore. E da tali criteri non può dirsi che i giudici del merito si siano discostati. Altra, e distinta, è la previsione di cui all'art. 2394 C.C. il cui primo comma stabilisce che "gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale"; la disposizione è completata dal secondo comma ove si dispone che "l'azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti". La responsabilità in questione ha natura extracontrattuale, in assenza dell'imprescindibile presupposto della responsabilità contrattuale che è costituito dalla preesistenza di un vincolo obbligatorio (anche se non necessariamente di genesi contrattuale) del quale possa configurarsi l'inadempimento; tale responsabilità sorge se ed in quanto il comportamento degli amministratori cagioni una diminuzione del patrimonio sociale di entità tale da rendere lo stesso inidoneo per difetto ad assolvere la funzione di garanzia patrimoniale generica di cui all'art. 2740 C.C., e il diritto riconosciuto ai creditori sociali è quello di ottenere dagli amministratori, a titolo di risarcimento, l'equivalente della prestazione che, per loro colpa, la società non è più in grado di adempiere (o di integralmente e correttamente adempiere). Non è nuovo il problema se ci si trovi in presenza di un'azione autonoma volta a far valere direttamente un diritto spettante ai creditori, ovvero se si tratti della stessa azione di responsabilità esercitata in via surrogatoria dai creditori nell'esercizio della legittimazione sostitutiva di cui all'art. 2900 C.C.. La tesi, oggi riproposta dal ricorrente, della natura surrogatoria dell'azione, pur autorevolmente sostenuta in dottrina e accolta in alcuni precedenti della giurisprudenza di legittimità, appare priva di fondamento. Non sembra invero riconducibile il mutamento del titolo della responsabilità, da contrattuale a extracontrattuale, nel novero degli effetti di un mero fenomeno surrogatorio. Per contro, la qualificazione dell'azione di cui trattasi alla stregua di azione diretta ed autonoma risulta attendibilmente affidata non solo al testuale tenore della norma secondo cui gli amministratori rispondono verso i creditori sociali, ma altresì, e soprattutto, a considerazioni di ordine sistematico, emergenti: dal quarto comma dell'art. 2394, ove si stabilisce che la rinunzia all'azione da parte della società non impedisce l'esercizio dell'azione da parte dei creditori sociali, con disposizione che risulterebbe inconcepibile se ad essa si dovesse attribuire il significato del conferimento all'attore in surrogatoria della facoltà di sostituirsi al titolare principale del diritto nel far valere un'azione a questo preclusa; dall'art. 146 della legge fallimentare, ove si prevede la possibilità per il curatore del fallimento della società di agire contro gli amministratori a norma degli articoli 2393 e 2394 del codice civile, per tal modo confermandosi la persistenza, nella pendenza della procedura concorsuale, di una duplicità di azioni; dal regime della prescrizione, che il legislatore, se non ne avesse presupposto l'autonomia, non avrebbe disciplinato con una specifica previsione normativa, per assoggettarla allo stesso termine dell'azione sociale di responsabilità, con la sola differenza che in questo caso non opera la causa di sospensione di cui al n. 7 dell'art. 2941, non essendo configurabile quel rapporto diretto tra le parti che della causa di sospensione costituisce ragione di essere, e con la particolarità che il termine di prescrizione inizia a decorrere in questo caso, in applicazione del criterio generale posto dall'art. 2935 C.C., dal momento in cui sia divenuto oggettivamente conoscibile il dato di fatto della insufficienza del patrimonio sociale, anche se lo stesso sia stato in concreto ignorato. Ne consegue, sul piano delle differenze specifiche, che mentre l'accoglimento della domanda proposta ai sensi degli art. 2392 e 2393 C.C. comporta la devoluzione del risultato utile di essa in via primaria e diretta ad incremento del patrimonio sociale (mentre i creditori attori ne trarrebbero solo indiretto beneficio), ciò non si verifica nel caso di cui all'art. 2394 C.C., dove il danno subito dai creditori costituisce anche la misura del loro interesse ad agire. Ciò posto, va ricordato, ancora, che l'art. 146 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267 determina la sorte delle azioni di responsabilità contro gli amministratori, i sindaci, i direttori generali, i liquidatori, nella procedura di fallimento della società, con previsione della avocazione all'ufficio fallimentare dell'esercizio delle azioni previste dagli art. 2392-2393 e 2394 C.C., e della rimessione alla libera iniziativa del socio come del terzo dell'azione che a loro compete a norma dell'art. 2395 C.C. La sostituzione del curatore alla società fallita in persona dei suoi legali rappresentanti nell'esercizio dell'azione sociale di responsabilità rappresenta solo una particolare manifestazione specifica del generale effetto, previsto nel primo comma dell'art. 43 della legge fallimentare, per cui nelle controversie relative a rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore, mentre, come ha rilevato la dottrina, la sostituzione della legittimazione del curatore a quella dei titolari dell'azione di cui all'art. 2394 C.C. non è, in se stessa, ricollegabile alla struttura del processo fallimentare, e rappresenta frutto di una scelta del legislatore volta ad assicurare alla curatela un maggior livello di tutela. È costante in giurisprudenza l'affermazione che per effetto del fallimento le azioni di responsabilità di cui agli art. 2392-2393 e 2394 C.C. confluiscono in una unica azione avente carattere unitario e inscindibile: con il corollario che la domanda risarcitoria contro gli amministratori può essere formulata così con riferimento ai presupposti della responsabilità verso la società come sulla base dei presupposti della responsabilità verso i creditori sociali. Tale possibilità, che si risolve in un risultato pratico di evidente vantaggio per il curatore, il quale potrà impostare la domanda in funzione di profili di opportunità per avvalersi a seconda dei casi della disciplina applicabile alla responsabilità contrattuale o di quella applicabile alla responsabilità extracontrattuale, non significa peraltro che la curatela la quale si avvalga consapevolmente e dichiaratamente dello strumento risarcitorio di cui agli art. 2393 e 2394 C.C. sostituendosi alla società, debba soggiacere a quanto di meno favorevole possa comportare astrattamente il ricorso all'azione di danni di cui all'art. 2394 C.C. in tema di delimitazione del danno risarcibile e dell'interesse ad agire nel senso sopra precisato. Osservasi complementarmente che comunque, anche in una prospettiva fallimentaristica, risulta carente di adeguata base concettuale la pretesa del ricorrente di vedere limitata la propria obbligazione risarcitoria alla differenza tra il passivo e l'attivo fallimentare. È ben vero che, a superamento di alcune meno recenti impostazioni viziate da manifesta eccessività quale quella che commisurava il danno all'intero passivo fallimentare, ha avuto ampia diffusione in giurisprudenza la tesi che individua l'ammontare del danno in entità corrispondente alla differenza di segno negativo tra l'attivo e il passivo; tale opinione, peraltro, fondatamente criticata dalla dottrina e sempre più spesso sottoposta a revisione nell'esperienza giudiziaria, non appare rispondente all'esigenza di una rigorosa verifica della sussistenza di un rapporto di conseguenzialità causale tra la condotta illecita e il danno. Il rispetto di tale esigenza si risolve nella riaffermazione del principio che agli amministratori deve essere accollato il risarcimento dei danni che si pongano quale conseguenza immediata e diretta dalle commesse violazioni e nella misura equivalente al detrimento patrimoniale che non si sarebbe verificato se la condotta illecita degli amministratori non fosse stata attuata: da ciò derivano, nella maggior parte dei casi, conseguenze concretamente meno gravose per i responsabili, grazie alla esenzione dal risarcimento di quei danni che possano essere stati provocati da fatti a loro non imputabili: ma non è da escludere che ne consegua, come nel caso in esame, il riconoscimento di un più pesante onere risarcitorio rispetto a quello che si vorrebbe delimitare in funzione del solo deficit fallimentare.

2. Risulta, in conseguenza della reiezione del primo motivo, priva di rilevanza la correlativa censura, che forma oggetto del secondo motivo, di "mancato esame di documenti determinanti ai fini della decisione e pertanto omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia prospettato dalla parte", per non avere la Corte di merito acceduto all'esame dello stato passivo dal quale avrebbe potuto rilevare che i crediti ammessi al concorso non eccedevano i trenta milioni di lire.

3. Avendo sostenuto il Cremaschi in sede di appello che erroneamente il primo giudice aveva ritenuto l'esistenza di un pregiudizio correlato al mancato o ritardato pagamento di imposte, la Corte territoriale ha affermato l'attribuibilità dell'omissione e del ritardo a responsabilità dell'amministratore e ha rilevato che la prova dell'avvenuto pagamento di sanzioni e interessi risulta dalla documentazione prodotta. Al riguardo, la critica del ricorrente di cui al terzo motivo del presente ricorso, si articola in due ordini di argomentazioni. Sotto un primo profilo, osservasi che l'assunto secondo cui "il ritenuto omesso o ritardato pagamento di tributi trovava la sua ragione in obiettive difficoltà, ancorché in prospettiva superabili, nelle quali all'epoca la società versava, e non certo in fatto colposo dell'amministratore che non era tenuto a pagare in proprio le somme dovute", appare privo di qualsiasi rilevanza non solo per la genericità della sua formulazione, ma anche - e soprattutto - alla luce della riconducibilità dell'incidenza degli indebiti prelievi effettuati dal Cremaschi nelle casse sociali sulla situazione di liquidità della società. Sotto ulteriore aspetto, il dubbio che la determinazione del quantum al suddetto titolo dovuto in lire 292.845.460 non corrisponda alle risultanze della documentazione acquisita non è introducibile nella presente sede di riesame di legittimità, in quanto involgente o un errore revocatorio nel quale possa essere incorso il giudice di secondo grado o un apprezzamento di merito difforme da quello compiuto dallo stesso giudice; che l'ipotesi che nella somma suindicata possa essere indebitamente ricompresa anche l'imposta principale è da escludere alla luce della più esauriente ricostruzione contabile contenuta nella sentenza di primo grado della quale, in se stessa, non si è doluto in appello il Cremaschi; che nessun significato può assumere la mancata ammissione al passivo di tali voci, sia in termini generali per le ragioni esposte a commento del primo motivo, sia, in concreto, per la possibilità che tali crediti siano stati soddisfatti direttamente dalla società, come appunto assume la parte controricorrente.

4. Va disatteso, infine, il quarto motivo di ricorso, con cui il Cremaschi prospetta violazione o ricorso, con cui il Cremaschi prospetta violazione o falsa applicazione degli art. 12254 e 2697 C.C. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia per essere stati inclusi nel contenuto della condanna risarcitoria pronunciata dal Tribunale e confermata dalla Corte ambrosiana gli interessi e la rivalutazione (in base agli indici ISTAT. Va ricordato al riguardo: che i motivi di appello a suo tempo rassegnati dal Cremaschi non contenevano alcuna doglianza a proposito degli interessi, onde, in tale parte, la censura attualmente formulata risulta affetta da radicale e pregiudiziale inammissibilità; che la contestazione relativa alla rivalutazione era in quella sede affidata in via principale alla tesi, manifestamente infondata e tale riconosciuta dall'odierno ricorrente, della qualificazione dell'obbligazione risarcitoria alla stregua di obbligazione di valuta, e, in via subordinata, al duplice assunto dell'inapplicabilità della rivalutazione nel periodo successivo all'aumento del saggio dell'interesse legale al 10% e alla considerazione dell'obbligo per il curatore di procedere a sollecita distribuzione delle liquidità disponibili. Rispetto a tali argomenti, si palesano caratterizzate, ancora una volta, da novità e quindi da circa i limiti da porre al cumulo di interessi e rivalutazione, mentre quelle relative all'esigenza della prova del "maggior danno" e al contenimento di esso nei limiti dell'interesse legale sembrano riecheggiare la tematica del risarcimento nelle obbligazioni di valuta.

5. Si accede, conclusivamente, alla reiezione del ricorso di Cremaschi Franco, il quale viene conseguentemente condannato al rimborso in favore del Fallimento resistente delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M

la Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al rimborso in favore del resistente Fallimento della società Cremaschi e C. s.r.l. delle spese del presente giudizio che liquida in lire 222.800 per esborsi e lire 8.000.000 per onorari.

Roma, 19 marzo 1998.