Cassazione civile, SEZIONE I, 11 dicembre 2000, n. 15599
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Corrado CARNEVALE - Presidente -
Dott. Vincenzo FERRO - Consigliere -
Dott. Alessandro CRISCUOLO - Rel. Consigliere
Dott. Mario Rosario MORELLI - Consigliere -
Dott. Walter CELENTANO - Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PIERI PIERO, MARCHETTI MARIA PAOLA, MARCHETTI MARCO LUIGI, MARCHETTI
ANDREA, MAORI CESARE ANTONIO, elettivamente domiciliati in ROMA VIA
XXIV MAGGIO 46, presso l'avvocato ARE MARIO, che li rappresenta e
difende unitamente agli avvocati PINNARÒ MAURIZIO e FAZZUTTI ETTORE,
giusta procura in calce al ricorso;
- ricorrenti -
contro
BANCA TOSCANA SpA, in persona dei legali rappresentanti pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI CONDOTTI 91, presso
l'avvocato LIBONATI BERARDINO, che la rappresenta e difende
unitamente all'avvocato CORSI FRANCESCO, giusta procura speciale per
Notaio Alessandro Ruggiero di Firenze rep. n. 65669 del 12.6.2000;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 253-97 della Corte d'Appello di PERUGIA,
depositata il 12-12-97;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
20-06-2000 dal Consigliere Dott. Alessandro CRISCUOLO;
uditi per i ricorrenti, gli Avvocati Pinnarò e Fazzutti, che hanno
chiesto l'accoglimento del ricorso;
udito per il resistente, l'Avvocato Corsi, che ha chiesto il rigetto
del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Vincenzo MACCARONE che ha concluso per il rigetto dei motivi primo,
terzo, quarto e sesto; l'inammissibilità del secondo e quinto motivo
del ricorso.
Con citazione notificata il 9 ottobre 1991 i signori Piero Pieri,
Maria Paola Marchetti, Marco Luigi Marchetti, Andrea Marchetti e Cesare Antonio
Maori convennero in giudizio davanti al Tribunale di Perugia la s.p.a. Banco
di Perugia, esponendo che: essi erano titolari di azioni del Banco di Perugia
e tale società, con assemblea straordinaria del 22 luglio 1991, aveva deliberato
la fusione per incorporazione nella Banca Toscana s.p.a., recependo lo statuto
dell'incorporante e sulla base di un rapporto di cambio fra le azioni delle
due società pari a tre azioni dell'incorporante per ogni sedici dell'incorporata;
la menzionata delibera era affetta da diversi profili d'invalidità e comunque
comprimeva i diritti degli esponenti soci di minoranza che non vi avevano partecipato,
in quanto: a) i soci stessi, unici destinatari degli utili, erano stati in parte
privati del relativo diritto, perché lo statuto adottato in conseguenza della
fusione, recependo l'art. 27 dello statuto dell'incorporante, aveva previsto
una obbligatoria eterodestinazione dei predetti utili (destinandoli in parte
ad uno stanziamento per opere cattoliche ed associazioni benefiche, culturali,
ricreative o sociali), sicché il progetto di fusione avrebbe richiesto l'approvazione
unanime dei soci; b) la fusione era stata approvata col voto determinante della
stessa Banca Toscana, proprietaria del 70.89% delle azioni del Banco di Perugia
e quindi in evidente situazione di conflitto d'interessi nel momento determinante
della fissazione del rapporto di cambio; c) tale fissazione era illecita, siccome
conseguente all'impiego di criteri erronei da parte di amministratori e periti
ed alla omessa considerazione delle valutazioni ufficiali di borsa dei due titoli.
Pertanto gli attori chiesero che il tribunale adito, previa sospensione dell'esecuzione
della delibera impugnata ex art. 2378 cod. civ., accertasse e dichiarasse la
nullità della deliberazione, medesima o, in subordine, ne pronunciasse l'annullamento.
In data 11 ottobre 1991 fu stipulato l'atto di fusione, iscritto nel registro
società del Tribunale di Perugia il 12 ottobre successivo.
Con citazione notificata il 30 ottobre 1991 gli attori sopra nominati convennero
nuovamente in giudizio il Banco di Perugia, nonché
Anche i soci signori Enzo Pineschi, Maria Assunta Brogioni, Alda Ruschena, Marcello
Palleggi ed Anna Moretti, con citazione notificata il 29 ottobre 1991, chiesero
che fosse dichiarata la nullità o inefficacia della delibera assembleare di
fusione, o in subordine il risarcimento dei danni.
Rimasta senza esito l'istanza diretta ad ottenere la sospensione della deliberazione
impugnata, nei processi (poi riuniti) si costituì
Il Tribunale di Perugia, con sentenza depositata il 26 aprile 1993, ritenuta
la legittimazione passiva della Banca Toscana s.p.a., dichiarò improcedibile
la domanda proposta da Piero Pieri, Maria Paola Marchetti, Marco Luigi Marchetti,
Andrea Marchetti e Cesare Antonio Maori, diretta ad ottenere la declaratoria
di nullità o d'inefficacia della delibera assembleare in data 22 luglio 1991
del Banco di Perugia, nonché la nullità o l'annullamento dell'atto di fusione
per incorporazione del Banco di Perugia nella Banca Toscana; rigettò le domande
di risarcimento dei danni avanzate dagli attori suddetti; dichiarò improponibile
la domanda formulata da Enzo Pineschi, Maria Assunta Brogioni, Alda Ruschena,
Marcello Palleggi e Anna Moretti, diretta ad ottenere la dichiarazioni (*) di
nullità o inefficacia, ovvero l'annullamento, della delibera in data 22 luglio
1991; rigettò le domande di risarcimento dei danni formulate dai medesimi attori;
condannò tutti gli attori in solido a pagare alla Banca Toscana s.p.a. metà
delle spese giudiziali, dichiarando compensata la restante metà.
Il tribunale ritenne che, ai sensi dell'art. 2504 quater cod. civ., essendo
stato iscritto l'atto di fusione, l'invalidità di questo non potesse essere
pronunziata e che ciò comportasse l'intangibilità degli atti prodromici. Osservò
che, invece, ragioni di invalidità della fusione potevano essere accertate al
fine di decidere sul risarcimento dei danni; ma, attraverso una dettagliata
analisi della vicenda e della argomentazioni addotte dagli attori, giunse alla
conclusione che non fossero ravvisabili elementi o profili di illegittimità.
La sentenza fu appellata in via principale dai signori Piero Pieri, Maria Paola
Marchetti, Marco Luigi Marchetti, Andrea Marchetti e Cesare Antonio Maori.
La Banca Toscana s.p.a. si costituì per resistere al gravame, proponendo altresì
appello incidentale in relazione alla parziale compensazione delle spese giudiziali.
Anche i signori Enzo Pineschi, Maria Assunta Brogioni, Adda Ruschena, Marcello
Palleggi ed Anna Moretti proposero appello incidentale, svolgendo motivi d'impugnazione
analoghi a quelli formulati dagli appellanti principali.
La Corte di appello di Perugia, con sentenza n. 253-97 depositata il 12 dicembre
1997, confermò in toto la sentenza impugnata, condannando gli appellanti azionisti
al pagamento delle spese giudiziali del grado in favore della Banca Toscana.
La corte territoriale considerò: che gli azionisti appellanti deducevano l'incostituzionalità
dell'art. 2504 quater, primo comma, cod. civ. e chiedevano che si dichiarasse
l'invalidità della delibera 22 luglio 1991, da loro impugnata, o in subordine
si condannasse
Contro tale sentenza, e nei confronti della Banca Toscana s.p.a.
(anche quale società incorporante il Banco di Perugia s.p.a.), i signori Piero
Pieri, Maria Paola Marchetti, Marco Luigi Marchetti, Andrea Marchetti e Cesare
Antonio Maori hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a sei motivi.
1. - Il controricorso della Banca Toscana s p.a., come risulta dalla
sua epigrafe, è stato proposto in forza di procura in calce alla copia notificata
del ricorso (e non apposta in calce o a margine del controricorso medesimo).
Quest'ultimo, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile, in quanto, come
questa Corte ha ripetutamente affermato, difetta la prova certa che la procura
sia stata rilasciata in epoca anteriore o coeva alla notificazione dell'atto.
In simili ipotesi il difensore del resistente non è abilitato alla proposizione
del controricorso nè al deposito della memoria, ma gli è soltanto consentito
di costituirsi e di partecipare alla discussione orale, come nella specie avvenuto
(cfr. Cass., 12 aprile 2000, n. 4679; 17 dicembre 1999, n. 14220; 1 dicembre
1998, n. 12187; 19 agosto 1998, n. 8200; 27 gennaio 1998, n. 788; 25 novembre
1996, n. 10441). 2.- Il ricorso per cassazione non risulta notificato ai signori
Enzo Pineschi, Maria Assunta Brogioni, Alda Ruschena, Marcello Palleggi, Anna
Moretti, già parti nel giudizio di appello.
La posizione di ciascuno di costoro, tuttavia, è autonoma rispetto a quella
di ciascuno degli attuali ricorrenti, potendo ogni socio far valere autonomamente
le situazioni giuridiche connesse al suo status.
Si verte, dunque, in tema di cause scindibili, onde è applicabile l'art. 332
cod. proc. civile. E poiché in relazione alla sentenza impugnata è decorso il
termine di cui all'art. 327 cod. proc. civ., non si deve far luogo alla notificazione
contemplata nel citato art. 332 e può procedersi all'esame del ricorso. 3. -
Con il primo mezzo di cassazione i ricorrenti denunziano violazione degli artt.
2247, 2350, 2365, 2379, 2502 cod. civ., in relazione all'art. 360, primo comma,
n. 3, cod. proc. civ., nonché violazione dell'art. 360, primo comma, n. 5 cod.
proc. civ., avendo la corte di merito, con sentenza sostanzialmente priva di
motivazione, affermato la legittimità della deliberazione dell'assemblea straordinaria
in data 22 luglio 1991 del Banco di Perugia s.p.a. che, a semplice maggioranza,
aveva approvato il progetto di fusione per incorporazione nella controllante
Banca Toscana s.p.a., nonostante la presenza, nello statuto di questa, di una
clausola che imponeva la devoluzione in beneficenza di una quota degli utili
periodici.
Molte sarebbero le questioni sottoposte all'esame del giudice a quo e da questo
non affrontate o trattate con motivazioni giuridicamente infondate ed approssimative.
Il primo punto, pregiudiziale ad ogni altro, sarebbe stato quello relativo alla
validità ed efficacia di una delibera che approvava a semplice maggioranza un
progetto di fusione per incorporazione, benché nello statuto della società incorporante
fosse presente una clausola di "eterodestinazione" degli utili come
quella recata dall'art. 27 dello statuto medesimo (trascritto in ricorso).
Sostengono i ricorrenti che il predetto art. 27 imponeva la devoluzione in beneficenza
di una quota imprecisata dell'utile periodico, sicché ai soci della Banca Toscana
s.p.a. sarebbe spettata soltanto una parte di tale utile, ossia quella non devoluta
in beneficenza (loro distribuita o accantonata a riserva). Ciò a differenza
dei soci del Banco di Perugia s.p.a., ai quali sarebbe appartenuto, invece,
tutto l'utile, sia distribuito sia accantonato.
Di qui l'impossibilità, per l'assemblea straordinaria del Banco di Perugia s.p.a..
di approvare a maggioranza l'unione con una società il cui atto costitutivo,
destinato a regolare per l'avvenire anche i rapporti con gli ex soci della società
da incorporare, conteneva la clausola predetta, e quindi l'inefficacia o la
radicale nullità della deliberazione impugnata, dato che la delibera di (approvazione
del progetto di) fusione sarebbe strutturalmente una modificazione dell'atto
costitutivo, comportante l'adozione di una serie di modificazioni statutarie.
In presenza di una clausola non lucrativa di eterodestinazione di una parte
degli utili, il fine della Banca Toscana s.p.a., reso comune anche ai soci dell'incorporata,
non sarebbe stato più soltanto quello societario, di cui all'art. 2247 cod.
civ., perché ad esso se ne sarebbe affiancato un altro, estraneo alla funzione
causale del contratto di società e proprio di altra figura associativa.
Nel caso di specie, dunque, la fusione avrebbe richiesto il consenso di tutti
i soci del Banco di Perugia s.p.a., esulando dal potere deliberativo dell'assemblea
l'imposizione ai soci medesimi di un nuovo regolamento, con contenuto contrario
alla funzione del contratto di società e tale da pregiudicare il loro interesse
su un punto non riguardante l'organizzazione sociale o l'interesse collettivo,
ma l'interesse individuale.
Gli argomenti addotti dalla corte territoriale a sostegno della decisione negativa
adottata sul punto sarebbero apodittici, irrilevanti o giuridicamente infondati.
Così dovrebbe dirsi per l'assunto secondo cui una infinitesima percentuale degli
utili verrebbe devoluta in beneficenza. Esso sarebbe immotivato se avesse inteso
enunciare il contenuto della clausola statutaria, in quanto questa non fisserebbe
la misura dell'utile suscettibile di essere devoluto annualmente in beneficenza.
Sarebbe irrilevante se avesse voluto riferirsi agli utili effettivamente destinati
a quel fine negli ultimi anni, dovendosi tenere conto non di questo dato ma
della quota dell'utile che per statuto l'assemblea aveva il potere di devolvere
a terzi per il titolo suddetto.
L'affermazione secondo cui gli azionisti avrebbero potuto esercitare il diritto
di recesso sarebbe priva di fondamento giuridico, perché la fusione non costituirebbe
ipotesi legittimante il recesso ex art. 2437 cod. civile.
Infine i ricorrenti mai avrebbero inteso rivendicare un diritto alla immodificabilità
delle regole statutarie che prevedono la destinazione degli utili, bensì il
loro fondamentale diritto ad essere i destinatari esclusivi dell'utile prodotto
dalla società.
L'immodificabilità sul punto dell'atto costitutivo originario, se non con il
consenso di tutti i soci, sarebbe la conseguenza della immodificabilità con
delibera maggioritaria degli elementi fondamentali del contratto di società.
L'essere il socio destinatario esclusivo degli utili prodotti dalla società
non sarebbe regola statutaria modificabile a maggioranza ma la conseguenza stessa
dell'essere il contratto associativo un contratto "di società".
Le complesse censure così articolate non hanno fondamento.
Si deve premettere che certamente uno degli elementi caratterizzanti delle società
è costituito dallo scopo perseguito (cosiddetto scopo - fine). Tale scopo, per
le società commerciali, s'identifica con lo svolgimento di attività d'impresa
con terzi per la produzione di utili (lucro oggettivo), destinati poi ad essere
divisi tra i soci (lucro soggettivo). Ed è questo lo scopo che il legislatore
assegna ad alcuni tipi di società commerciali (tra cui le società di capitali),
perciò definite società lucrative.
L'inderogabilità dello scopo lucrativo, tuttavia, non comporta che tutti gli
utili conseguiti debbano sempre essere distribuiti ai soci o accantonati a riserva.
In tema di società per azioni l'art. 2328 cod. civ. stabilisce che l'atto costitutivo
(di cui lo statuto si considera parte integrante) deve contenere tra l'altro
(n. 7) le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti, ed in tale
precetto è compresa la possibilità di prevedere che parte degli utili sia destinata
a scopi diversi, purché tale destinazione - per la sua entità o per altre ragioni
- non venga a pregiudicare lo scopo lucrativo perseguito.
Ne deriva che una clausola come quella contenuta nell'art. 27 dello statuto
della Banca Toscana s.p.a. deve considerarsi legittima, siccome inidonea in
linea di principio ad incidere sul detto scopo.
Nè a diversa conclusione potrebbe giungersi per il fatto che la clausola non
predeterminava il quantum degli utili da devolvere in beneficenza, perché, ai
sensi dell'art. 2433 cod. civ., spetta all'assemblea che approva il bilancio
deliberare sulla distribuzione degli utili ai soci, onde alla sede assembleare
è demandata anche la determinazione della parte di utili da destinare in beneficenza.
Se l'entità dello stanziamento fosse tale da arrecare sostanziale pregiudizio
alla finalità lucrativa potrebbe profilarsi un vizio invalidante (abuso della
maggioranza), relativo però non già alla clausola statutaria bensì alla specifica
delibera che avesse disposto quello stanziamento; mentre la quantificazione
di esso in misura esigua non sarebbe affatto incompatibile con lo scopo lucrativo,
potendo anzi considerarsi a questo conforme perché rispondente, per esempio,
ad esigenze promozionali della società.
La questione, quindi, si risolve in un apprezzamento di fatto in relazione al
contenuto della delibera di distribuzione: questione riservata al giudice di
merito, dovendosi qui ribadire in via generale la legittimità della suddetta
clausola statutaria.
Si tratta ora di stabilire se, poiché nell'atto costitutivo e nello statuto
del Banco di Perugia mancava una clausola analoga, l'assemblea di detta banca
potesse deliberare a maggioranza la fusione per incorporazione nella Banca Toscana.
Infatti, la tesi propugnata dai ricorrenti è che l'assemblea straordinaria del
Banco di Perugia non potesse approvare a semplice maggioranza "l'unione
con una società il cui atto costitutivo, destinato a regolare per l'avvenire
anche i rapporti con gli ex soci dell'incorporanda, conteneva una clausola siffatta".
La delibera di fusione costituirebbe strutturalmente una modificazione dell'atto
costitutivo; e, poiché la fusione non potrebbe essere lo strumento per sottrarre
ai soci le garanzie e le forme di tutela loro apprestate dall'ordinamento in
relazione ai diversi e autonomi momenti della vita societaria, la relativa delibera
nel caso in esame sarebbe stata soggetta al consenso di tutti i soci.
Ma questa tesi non può essere condivisa.
La sentenza impugnata - che, contrariamente a quanto sostengono i ricorrenti,
ha esposto una sia pur concisa motivazione sul punto (onde è infondata la censura
mossa con riguardo all'art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.) - ha richiamato
l'art. 2436 cod. civ., rimarcando che ai soci dissenzienti sarebbe spettato
il diritto di recesso di cui all'art. 2437 dello stesso codice (e ciò implica,
evidentemente, un giudizio di legittimità della deliberazione, mossasi comunque
in un quadro normativamente definito).
Pertanto, se la questione si ponesse soltanto in termini di modifica dell'atto
costitutivo, essa sarebbe già risolta, in quanto la critica sul punto avanzata
dai ricorrenti - secondo i quali la fusione non costituirebbe ipotesi legittimante
il recesso - non coglie nel segno. È agevole replicare, invero, che, se la fusione
si risolve in termini di modifica (ancorché strutturale) dell'atto costitutivo,
occorre far capo alla relativa disciplina (artt. 2436 e ss. cod. civ.).
Il collegio ritiene però che la motivazione in proposito della sentenza impugnata
(il cui dispositivo è conforme al diritto) debba essere precisata e corretta,
nell'esercizio del potere attribuito a questa Corte dall'art. 384, comma secondo,
cod. proc. civile.
Che la fusione (nel caso di specie si tratta di fusione omogenea, in quanto
intervenuta tra società dello stesso tipo) sia inquadrabile tra le vicende modificative
dell'atto costitutivo delle società partecipanti è tesi sostenuta da autorevole
dottrina. Essa deve ritenersi corretta perché l'effetto modificativo si produce,
ma non è l'unico effetto della fusione medesima. Con la sua attuazione la società
incorporante o che risulta dalla fusione assume i diritti e gli obblighi delle
società interessate all'operazione e queste si estinguono (art. 2504 bis, primo
comma, cod. civ., introdotto dall'art. 13 d.lgs. 16 gennaio 1991, n. 22, applicabile
alla fattispecie in forza dell'art. 25, comma secondo, del detto d.lgs.), onde
gli effetti sono certamente più pregnanti di quelli riconducibili ad una semplice
modifica dell'atto costitutivo.
Ad onta di ciò, nelle società di capitali la fusione deve essere deliberata
dall'assemblea straordinaria, con le maggioranze all'uopo previste, e non all'unanimità.
In particolare, l'art. 2502 cod. civ. dispone che la fusione deve essere deliberata
da ciascuna delle società che vi partecipano mediante l'approvazione del relativo
progetto, senza alcun cenno all'esigenza del consenso unanime di tutti i soci,
onde vanno rispettate le norme dettate per le modificazioni dell'atto costitutivo.
Nè la necessità di un consenso unanime può desumersi dalla presenza, nello statuto
della società incorporante, del citato art. 27. Già si è posta in luce la legittimità
di tale clausola, non incidente sulla comunione d'interessi creata col contratto
sociale e non idonea in via di principio ad eludere lo scopo lucrativo perseguito
dalla società. D'altro canto la legge, con il prevedere che l'assemblea debba
deliberare sulla distribuzione degli utili (art. 2433 citato: prima di tale
momento, vi è una semplice aspettativa, potendo l'assemblea sociale impiegare
diversamente gli utili o rinviarne la distribuzione: Cass., 7 settembre 1993,
n. 9385;
Cass., 11 marzo 1993, n. 2959), ribadisce la subordinazione della posizione
del socio a quella della società ed ammette la possibilità di modificare tale
posizione con riferimento alla riscossione degli utili, fermo restando che tale
modifica non può tradursi nell'eliminazione dello scopo di lucro, anche soggettivo,
tipico delle società commerciali e, per quanto qui rileva, della società per
azioni. Il che, però, in base alle considerazioni sopra svolte, nel caso in
esame deve essere escluso.
Conseguentemente, non sussistono le violazioni di legge denunziate e il primo
motivo del ricorso deve essere respinto.
Con il secondo mezzo di cassazione i ricorrenti deducono violazione dell'art.
2501 bis, primo comma, n. 2 e 4, cod. civ., in relazione all'art. 360, primo
comma, n. 5 cod. proc. civ., per omessa disamina della questione, decisiva e
prospettabile d'ufficio, della inammissibilità di una fusione per incorporazione
mediante concambio con azioni proprie.
Nel caso di specie, la fusione sarebbe stata deliberata senza adozione delle
misure necessarie per consentire l'emissione delle azioni da assegnare in concambio
agli azionisti di minoranza del Banco di Perugia s.p.a. (stante l'impossibilità
di assegnare alla incorporante Banca Toscana s.p.a., azionista di maggioranza
del Banco di Perugia s.p.a., azioni proprie in cambio di quelle estinte: art.
2504 ter, secondo comma, cod. civ.).
Il motivo deve essere dichiarato inammissibile.
Come si desume dallo stesso ricorso per cassazione (narrativa dei fatti e pag.
22), esso risulta proposto per la prima volta in questa sede di legittimità
e non può trovarvi ingresso in quanto richiede accertamenti di fatto, sulle
modalità e sulle misure con cui fu deliberata la fusione nonché sull'assegnazione
delle azioni ai soci dell'incorporata, che sono preclusi a questa Corte. Nè
giova l'argomento secondo cui i giudici del merito avrebbero dovuto prospettarsi
la questione di ufficio, perché anche questo profilo dovrebbe essere oggetto
di verifica nel quadro dei suddetti accertamenti.
Con il terzo mezzo di cassazione i ricorrenti deducono falsa applicazione degli
artt. 2501 guater e 2501 guinquies cod. civ., in relazione all'art. 360, primo
comma, n. 3 cod. proc. civ., nonché violazione dell'art. 360, primo comma, n.
5, cod. proc. civ., per omesso esame delle ragioni, dedotte ed emergenti dagli
atti del procedimento di fusione, circa l'illegittimità ed arbitrarietà del
rapporto di cambio.
La sentenza impugnata si sarebbe limitata ad affermare che i criteri, in base
ai quali il rapporto di cambio tra le azioni delle società procedenti alla fusione
viene determinato, non sarebbero sindacabili dall'autorità giudiziaria, salva
l'ipotesi (nel caso in esame non provata) di evidente arbitrarietà o fraudolenza
in danno dei soci di minoranza. Si tratterebbe di affermazione riferibile ad
orientamenti della giurisprudenza maturati nel vigore della precedente disciplina
della fusione, oggi improponibili ancor più a proposito di società con titoli
quotati.
La corte distrettuale avrebbe del tutto ignorato due circostanze assolutamente
incontestate, e cioè: a) il fatto che il rapporto di cambio sarebbe stato fissato
senza considerare che le partecipazioni sociali dell'incorporante e dell'incorporata
avevano caratteristiche specifiche e diverse, in ragione delle diverse norme
statutarie sulla destinazione degli utili; b) la circostanza che il valore di
mercato - quotazione di borsa - sarebbe stato pretermesso nella fissazione del
detto rapporto e neppure avrebbe costituito elemento per la verifica del (diverso)
metodo prescelto.
Sulla base di tali elementi si rivelerebbe irrazionale, arbitrario e fraudolento
adottare criteri di valutazione presupponenti che le azioni (i cui valori debbano
essere comparati) riflettano integralmente i valori aziendali, perché nella
specie soltanto le azioni del Banco di Perugia sarebbero state interamente rappresentative
delle capacità reddituali di esso, mentre quelle della Banca Toscana non lo
sarebbero state in ragione delle regole stabilite per la destinazione degli
utili. Inoltre, quando le azioni di entrambe le società siano quotate nei mercati
ufficiali, criterio congruo per una corretta determinazione del rapporto di
cambio sarebbe il valore di scambio desunto dal corso di borsa dei titoli, onde
ogni valutazione non potrebbe prescindere dalla centralità di tale criterio.
Richiamato il disposto degli artt. 2501 quater e 2501 quinquies cod. civ., e
posto l'accento sulla essenzialità del rapporto di cambio (che deve essere congruo
e risultare dall'applicazione di metodo reso esplicito e verificato come adeguato),
i ricorrenti proseguono affermando che, quando si tratti di fusione a mezzo
della quale una società incorpora altra società controllata, la congruità e
l'adeguatezza sarebbero valori indisponibili da sottoporre a rigorosa verifica,
poiché l'informazione e il rispetto delle formalità, da soli, risulterebbero
insufficienti ad assicurare la correttezza delle operazioni di fusione ed a
tutelare la posizione giuridica ed economica degli azionisti di minoranza della
società incorporanda.
Inoltre, in presenza di più metodi di valutazione, sarebbe necessario non soltanto
indicare quale ipotetico rapporto di cambio sarebbe derivato seguendo l'uno
o l'altro, ma altresì rendere esplicita e verificare come adeguata la partecipazione
di ciascun metodo alla fissazione del valore del rapporto di cambio effettivamente
proposto; e tutto ciò nella specie sarebbe mancato.
La legge escluderebbe che il rapporto di cambio si possa ridurre al risultato
di una mera trattativa, più o meno libera, tra le parti interessate.
Le suddette censure non hanno fondamento.
L'art. 2501 guater dispone che gli amministratori delle società partecipanti
alla fusione devono redigere una relazione, la quale illustri e giustifichi
sotto il profilo giuridico ed economico il progetto di fusione e, in particolare,
il rapporto di cambio delle azioni o delle quote. Il secondo comma aggiunge
che la relazione deve indicare i criteri di determinazione del rapporto di cambio.
L'art. 2501 qiuinquies stabilisce che uno o più esperti per ciascuna società
devono redigere una relazione sulla congruità del rapporto di cambio delle azioni
o delle quote, ne precisa il contenuto e, per quanto qui rileva, dispone che
le società partecipanti alla fusione possono richiedere al presidente del tribunale
la nomina di uno o più esperti comuni.
Tutti gli adempimenti previsti dalle citate norme, come accertato dalla sentenza
impugnata, sono stati osservati. E va notato che
Peraltro, dalla stessa narrativa in fatto del ricorso per cassazione si apprende
che, con delibera del 6 maggio 1991, il consiglio di amministrazione del Banco
di Perugia s.p.a. approvava il progetto di fusione e la "attinente relazione";
che tale progetto indicava il rapporto di cambio, risultante del valore stimato
dal Comitato direttivo degli Agenti di cambio della Borsa valori di Milano e
ritenuto congruo dal consiglio di amministrazione; che in data 22 luglio
Ma, per consentire al collegio di apprezzare il carattere decisivo dei punti
suddetti (art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.), sarebbe stato necessario
che i ricorrenti, in base al principio di autosufficienza del ricorso, esponessero
i metodi ed i criteri in concreto seguiti nella fissazione del rapporto di cambio,
ponendo in evidenza le ragioni che avrebbero condotto a giudicare incongrui
ed inadeguati tali metodi. Nel ricorso, invece, è contenuto soltanto un accenno
al "criterio reddituale" che sarebbe stato adottato (pag. 24), senza
alcuna ulteriore illustrazione, e di esso si postula il carattere iniquo ed
arbitrario per aver trascurato i due profili sopra indicati.
Però questi in sè non hanno alcuna forza vincolante. La legge si astiene dal
fissare criteri direttivi per la determinazione del rapporto di cambio, onde
essi restano affidati alla discrezionalità tecnica (non all'arbitrio) degli
amministratori, con la previsione di un'adeguata informazione per i soci e di
un controllo preventivo imparziale sulla congruità del detto rapporto.
Perciò è apodittica l'affermazione, contenuta in ricorso, secondo cui l'adozione
del criterio reddituale (non meglio specificato) sarebbe "iniqua ed arbitraria"
ed i risultati conseguenti sarebbero per definizione "incongrui".
I ricorrenti avrebbero dovuto illustrare criticamente i metodi ed i criteri
seguiti nella fissazione, spiegando l'incidenza sul relativo iter logico della
mancata considerazione dei due dati da loro allegati.
In difetto di ciò, da un lato non è ravvisabile carenza di motivazione e, dall'altro,
non sussiste la falsa applicazione delle norme denunziate. Infatti, proprio
perché la legge non fissa criteri direttivi, la sindacabilità (in ordine al
rapporto di cambio) della delibera assembleare che approva il progetto di fusione
rimane circoscritta ai casi in cui quel rapporto sia determinato in modo arbitrario
o sulla base di dati incompleti o non veritieri. Non basta dunque opporre ai
metodi ed ai criteri di valutazione seguiti altri metodi e criteri diversi;
occorre anche allegare e dimostrare che questi ultimi, in concreto e non in
ipotesi, condurrebbero a risultati più congrui ed adeguati.
Dalle esposte considerazioni discende il rigetto del terzo motivo.
Con il quarto mezzo di cassazione i ricorrenti denunziano falsa applicazione
dell'art. 2373 cod. civ., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 cod.
proc. civile.
La Corte di merito avrebbe escluso che
Il giudice a quo avrebbe ignorato che la norma sul conflitto d'interessi costituirebbe
presidio insuperabile nell'ipotesi in cui si dovesse ammettere piena libertà
nella determinazione del rapporto di cambio ed avrebbe trascurato di considerare
che la società incorporante, qualora sia socia della incorporata, non avrebbe
alcun interesse alla fissazione di quel rapporto, non potendo assegnarsi azioni.
La fissazione del rapporto di cambio, dunque, non avrebbe le stesse conseguenze
per tutti i soci e questi non sarebbero tutti portatori del medesimo interesse
a tale fissazione. Infatti l'incorporante sarebbe portatrice dell'interesse
ad un rapporto di cambio sfavorevole ai soci dell'incorporanda (aventi diritto
al concambio) e favorevole invece ai soci della medesima incorporante. In caso
d'incorporazione di una società partecipata sussisterebbe quindi un conflitto
tra l'incorporante e tutti gli altri soci della società da incorporare.
Questa situazione di conflitto non potrebbe essere irrilevante per l'ordinamento
giuridico.
Il principio maggioritario postulerebbe che tutti i soci in astratto abbiano
il medesimo interesse rispetto alle deliberazioni da adottare e che queste siano
produttive degli stessi effetti per tutti, altrimenti non potrebbe trovare applicazione.
Sarebbe contrario ai più elementari principi del diritto societario e della
logica giuridica che un socio, istituzionalmente portatore di un interesse particolare
e in conflitto con gli altri soci, potesse votare in sede di fissazione del
rapporto di cambio.
Ne deriverebbe che la descritta situazione di conflitto d'interessi dovrebbe
essere regolata dal legislatore con l'imposizione di un rapporto di cambio congruo,
oppure richiederebbe l'astensione dal voto del socio in situazione di conflitto
"per conto terzi" con l'interesse sociale, cioè con l'interesse comune
dei soci, il quale potrebbe far capo esclusivamente ai soci della società da
incorporare aventi diritto al concambio delle azioni.
Il motivo non è fondato.
Versa in conflitto d'interessi l'azionista che, in una determinata delibera,
è portatore per conto proprio o altrui di un interesse personale potenzialmente
contrastante con l'interesse delle società.
In tale situazione l'art. 2373, primo comma, cod. civ., stabilisce che il diritto
di voto non può essere esercitato dal socio. Il secondo comma dispone poi che,
se il socio non si è astenuto dal voto, la deliberazione, qualora possa arrecare
danno alla società, è impugnabile, a norma dell'art. 2377,se, senza il voto
del socio che avrebbe dovuto astenersi, non si sarebbe raggiunta la necessaria
maggioranza.
Come questa Corte ha già notato, il collegamento esistente tra il primo e il
secondo comma del citato art. 2373 comporta che, secondo il sistema positivo,
l'elemento giuridicamente essenziale ai fini dell'invalidità è costituito dall'idoneità
potenziale della delibera a ledere gli interessi sociali. La delibera adottata
col voto del socio in conflitto d'interessi non è senz'altro annullabile, essendo
necessario che ricorrano due ulteriori condizioni: a) che il suo voto sia stato
determinante (cd. prova di resistenza); b) che la delibera possa arrecare un
danno alla società. In particolare, facendo difetto quest'ultima condizione,
la delibera resta inattaccabile, quand'anche approvata col voto determinante
del socio in conflitto d'interessi; nè rileva che la delibera stessa consenta
al socio di raggiungere anche un proprio interesse se, nel contempo, non ne
risulti pregiudicato quello sociale (Cass., 21 marzo 2000, n. 3312; 23 marzo
1996, n. 2562; 21 dicembre 1994, n. 11017; 4 maggio 1991, n. 4927).
La sentenza impugnata si è conformata a tali principi, onde si sottrae alle
censure dei ricorrenti.
Costoro, in effetti, non indicano quale sarebbe stato il pregiudizio, anche
potenziale, prospettabile per il Banco di Perugia. Sostengono invece che
Orbene, una simile tesi non può essere condivisa in via generale, perché conduce
a considerare il presunto conflitto immanente in tutti i casi di fusione per
incorporazione nei quali l'incorporante abbia una partecipazione nella società
da incorporare, laddove l'accertamento del conflitto va compiuto in concreto.
Ma, a parte ciò, in realtà i ricorrenti non denunziano una forma di conflitto
riconducibile nell'ambito dell'art. 2373 cod. civ., appunto perché non è ravvisabile
danno attuale o potenziale per la società (Banco di Perugia), bensì prospettano
una sorta di abuso di potere perpetrato ai danni dei soci (di minoranza) aventi
diritto al concambio. Ma questo è profilo (anche in fatto) del tutto diverso
e non riconducibile alla norma in questa sede denunziata.
Di qui il rigetto della censura.
Con il quinto mezzo di cassazione i ricorrenti denunziano falsa applicazione
dell'art. 2504 quater, primo comma, del cod. civ., in relazione all'art. 360,
primo comma, n. 3, cod. proc. civile.
Il giudice a quo avrebbe implicitamente ritenuto non pronunziabili nè l'inefficacia
o invalidità della delibera di approvazione del progetto di fusione, nè l'inefficacia
o invalidità dell'atto di fusione, una volta iscritto l'atto medesimo ai sensi
dello stesso art. 2504 guater, primo comma, così avallando la tesi già espressa
nella sentenza di primo grado.
In parte qua la sentenza impugnata dovrebbe formare oggetto di censura ed andrebbe
di nuovo verificata la non manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale della norma ora indicata, perché: a) essa non impedirebbe di
dichiarare giudizialmente l'inefficacia o l'invalidità delle deliberazioni che
approvano il progetto di fusione, riguardando esclusivamente il contratto di
fusione e non gli atti a questo prodromici; b) la norma denunziata comporterebbe
violazione degli artt. 3, 24, 76 e 77 della Costituzione, stante il contenuto
dell'art. 2, primo comma, della legge 26 marzo 1990, n. 69 (legge - delega).
Ma il mezzo di cassazione deve considerarsi assorbito, mentre la dedotta questione
di legittimità costituzionale è irrilevante.
Invero i giudici del merito, sia pure al fine di attuare la tutela risarcitoria
di cui all'art. 2504 quater, comma secondo, cod. civ., hanno esaminato le contestazioni
rivolte dai soci di minoranza alla correttezza del procedimento di fusione ed
all'esattezza del risultato raggiunto nella determinazione del rapporto di cambio,
pervenendo a concludere che tali contestazioni non avevano fondamento. Le censure
al riguardo mosse con i precedenti motivi di ricorso sono state respinte da
questa Corte, onde quelle conclusioni sono ormai irrevocabili, nè ad esse potrebbe
attribuirsi natura di accertamento incidentale perché invece costituivano l'antecedente
logico necessario della (autonoma) domanda risarcitoria azionata.
Ne consegue appunto l'assorbimento del quinto motivo ora in esame, non dovendosi
più stabilire, in relazione alla fattispecie (che definisce il thema decidendum),
se l'art. 2504 guater, primo comma, consenta o meno di dichiarare giudizialmente
l'inefficacia o la nullità delle delibere che approvano il progetto di fusione,
attesa l'esclusione dei vizi dedotti (implicante la legittimità della delibera
impugnata). Nè a diverso risultato potrebbe giungersi per il fatto che le domande
dei ricorrenti, dirette a far dichiarare la nullità o l'inefficacia della delibera
assembleare in data 22 luglio 1991 e dell'atto di fusione, sono state dichiarate
improcedibili, non essendo configurabile un interesse degli stessi ricorrenti
ad un semplice mutamento di formula, dato che la tesi da loro propugnata, ove
pur si rivelasse fondata in linea di principio, non potrebbe comunque condurre
all'accoglimento delle menzionate domande. Da ciò consegue, altresì, l'irrilevanza
della questione di legittimità costituzionale.
Con il sesto mezzo di cassazione i ricorrenti, in via subordinata, denunziano
l'errore da cui sarebbe affetta la sentenza impugnata, relativamente alla liquidazione
delle spese del grado di appello. Di tale errore non sarebbe visibile la causa.
Sarebbe visibile, invece, l'impossibilità di una liquidazione delle spese di
lite in oltre diciassette milioni di lire.
Neppure questo motivo può avere ingresso.
La sentenza impugnata ha condannato gli azionisti appellanti, in solido, al
pagamento delle spese del giudizio di appello, liquidandole in complessive lire
77.524.400, di cui lire 53.080.000 per onorari di avvocato e lire 7.635.000
per diritti di procuratore.
La censura non investe gli onorari o i diritti di procuratore (soggetti a previsioni
normative), ma soltanto la liquidazione delle spese cosiddette vive. Tuttavia
un errore in tale liquidazione, ammesso che di errore si tratti (il che non
è verificabile in questa sede), non costituirebbe errore di diritto bensì errore
di fatto o materiale e non sarebbe dunque denunziabile con il ricorso per cassazione.
Di qui l'inammissibilità della doglianza.
Conclusivamente, il ricorso deve essere respinto e i ricorrenti, in solido,
per il principio della soccombenza, vanno condannati a pagare alla Banca Toscana
s.p.a. le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo in
relazione all'attività difensiva validamente svolta e tenuto conto dell'inammissibilità
del controricorso.
Così deciso in Roma, il 20 giugno 2000, nella camera di consiglio della prima
sezione civile della Corte suprema di cassazione.
(*) ndr: così nel testo.