Cassazione civile, SEZIONE I, 19 marzo 1996, n. 2314


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott.    Renato            SGROI                       Presidente
"       Antonio           CATALANO                    Consigliere
"       Ernesto           LUPO                             "
"       Ugo Riccardo      PANEBIANCO                       "
"       Renato            RORDORF                     Rel. "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
dalla
MARINA del PIOMBONE S.R.L., elettivamente domiciliata in Roma, piazza
Navona n. 49, presso l'avv. Giovanni Strocchi, che la  rappresenta  e
difende giusta procura in margine al controricorso,
Ricorrente
contro
ELLERO TAMBURINI, elettivamente domiciliato in forlì, Via Cignani n.
40, presso l'avv. Azer Cicognani, che lo rappresenta e difende giusta
delega procura in margine al controricorso,
Intimato
avverso la sentenza n.  1550-91  della  corte  d'appello  di  Bologna
emessa il 30 ottobre 1991;
udita la relazione del consigliere dr. Rordorf;
udito il pubblico ministero nella persona del  sostituto  procuratore
generale dr. Vincenzo Maccarone, che ha concluso per il  rigetto  del
ricorso.

Fatto

Ellero Tamburini, socio della marina del Piombone (già denominata Punto Vela) s.r.l., convenne in giudizio detta società dinanzi al tribunale di Forlì per sentirla condannare, in proprio favore, alla restituzione, entro un prefissando termine, della somma di L. 8.000.000, che egli assumeva di avere in precedenza erogato alla società a titolo di finanziamento.
Radicatosi il contraddittorio, la società si difende sostenendo non esservi prova che l'indicata somma le fosse stata versata dal socio quale mutuo, ed ipotizzando che il versamento potesse invece esser stato eseguito per aumentare il capitale sociale: con la conseguenza che nessun diritto di restituzione l'attore avrebbe potuto, nell'immediato, vantare.
Ma il tribunale, con sentenza emessa il 23 novembre 1987, accolse la domanda del Tamburini, e condannò la società convenuta a restituire la richiesta somma di L. 8.000.000 entro quattro mesi dalla pubblicazione della sentenza.
Investita del gravame proposto dalla Marina del Piombone, la corte d'appello di Bologna, con pronuncia depositata il 30 ottobre 1991, confermò l'impugnata sentenza di primo grado.
Ritenne la corte territoriale che l'essere ricompreso il versamento in questione tra altri eseguiti dai soci ed annotati nel libro giornale della società come "in conto aumento capitale infruttifero", non giustificasse l'assunto difensivo della convenuta secondo cui l'erogazione di denaro in favore della società sarebbe avvenuta a titolo di aumento del capitale sociale. Poiché, infatti, nessuna deliberazione assembleare di aumento di capitale risultava essere stata adottata dalla società, dopo l'esecuzione di detti versamenti da parte dei soci, costoro avevano comunque maturato - a giudizio della corte - il diritto alla restituzione delle somme erogate. Osservò poi la corte che era rimasta del tutto indimostrata l'affermazione dell'appellante secondo la quale il versamento sarebbe stato effettuato in esecuzione di un aumento di capitale già deliberato dai soci in via totalitaria, giacché a tal fine sarebbe stata indispensabile una deliberazione dell'assemblea straordinaria, la cui esistenza giuridica, in difetto di verbalizzazione, era invece da escludere; e, del resto, la testimonianza resa dall'ex socio Gurioli non consentiva neppure di ritenere provato che davvero tutti i soci della Marina del Piombone avessero unitamente acconsentito all'ipotizzata operazione di aumento del capitale sociale.
Contro tale sentenza
la Marina del Piombone ha proposto ricorso per cassazione per tre motivi.
Il Tamburini ha resistito con controricorso.

Diritto

1. - Come si evince dall'impugnata sentenza, la fattispecie in discussione nasce da un fatto pacifico: l'erogazione di una somma di denaro in favore di una società di capitali da parte di alcuni soci della stessa, registrata nel libro giornale come versamenti "in conto aumento capitale infruttifero", cui ha fatto poi seguito la contestata richiesta di restituzione di quanto versato, avanzata da uno dei soci nei riguardi della società.
La corte d'appello, confermando la precedente decisione del tribunale, ha reputato tale richiesta giuridicamente fondata in base ad un ragionamento che può essere riassunto come segue. Se la causa giustificativa dell'attribuzione patrimoniale del socio in favore della società è costituita, per espressa indicazione della società stessa, dell'aumenta del capitale sociale, occorre che un siffatto aumento vi sia: o perché già deliberato nel momento in cui ha avuto luogo il versamento, che in tal caso si potrebbe come atto esecutivo di quella deliberazione, o perché deliberato in un momento successivo ed attuato mediante utilizzazione delle somme già versate dai soci nelle casse sociali. Se, invece, la deliberazione dell'aumento del capitale manca, allora - secondo la corte territoriale - necessariamente spetterebbe al socio il diritto alla restituzione delle somme versate, giacché farebbe difetto una ragione idonea a ricomprendere quelle somme nel capitale di rischio dell'impresa sociale e, quindi, sarebbe giocoforza ritenere che la loro erogazione sia avvenuta a titolo di mutuo in favore della società, con conseguente obbligo di rimborso a carico di quest'ultima.
Le censure articolate di siffatta decisione dalla società ricorrente tendono a scalfire il predetto ragionamento sostanzialmente su due punti. Non sarebbe vero, in primo luogo, che una deliberazione di aumento del capitale sociale, ricollegabile ai versamenti in discorso, non v'è stata; o almeno non lo si potrebbe semplicemente dedurre dalla mancanza del verbale di deliberazione assembleare. Non basterebbe, comunque, l'asserita mancanza della deliberazione di aumento del capitale sociale a giustificare la conclusione secondo cui l'erogazione di denaro dal socio alla società affonda le sue radici in un rapporto di mutuo dal quale perciò discenderebbe il diritto alla restituzione.
Ciò premesso, conviene esaminare gli accennati profili di censura separatamente.
2. - Con il primo motivo la marina del Piombone denuncia, in particolare, la violazione, ad opera del giudice a quo, degli artt. 2486, 2375, 2364 e 2365 c.c.
La ricorrente, come s'è accennato, insiste nel prospettare l'ipotesi che il versamento a suo tempo eseguito dal socio Tamburini in favore delle società possa trovare la propria causa giustificatrice in una deliberazione di aumento del capitale sociale.
E, muovendo da tale premessa, assume che la corte territoriale avrebbe errato nel ritenere giuridicamente inesistente l'ipotizzata deliberazione di assemblea straordinaria avente ad oggetto l'aumento del capitale della società, in mancanza di apposito verbale, ancorché assunta da tutti i soci all'unanimità. Il carattere ordinario o straordinario della deliberazione sarebbe invece, in tal caso, irrilevante; ed il difetto di verbalizzazione - riguardando più l'aspetto della documentazione che quello della forma dell'atto - inciderebbe semmai sull'efficacia di questo nei confronti dei terzi, ma non lo renderebbe certamente invalido, nè potrebbe impedirne l'operatività nei rapporti tra i soci.
La critica non coglie però nel segno.
Non si tratta, infatti, di stabilire se vi sia - e quale - un diverso grado di rilevanza della verbalizzazione dei deliberati assembleari a seconda del carattere ordinario o straordinario dell'assemblea. E neppure ha rilievo la discussione in ordine alle conseguenze della mancata verbalizzazione di tali deliberati, ed in particolare se essa incida o meno sulla loro esistenza giuridica e se l'accordo totalitario dei soci possa eventualmente dispensare dai requisiti di forma prescritti per tal genere di atti.
È infatti decisivo il rilievo che la corte territoriale, nel presente caso, con una motivazione non soggetta (per questo aspetto) a censura - e, comunque, sicuramente congrua -, ha in punto di fatto accertato, anche sulla base delle prove orali raccolte, che nessuna assemblea (totalitaria o meno) si è mai tenuta per deliberare un qual si voglia aumento del capitale della società. D'inesistenza storica, prima ancora che d'inesistenza giuridica, di un deliberato aumento del capitale nominale della società si deve dunque parlare.
Ed è perciò evidente che sarebbe sterile ogni discussione in ordine agli effetti giuridico di un atto che non risulta mai essere stato compiuto.
3. - Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta invece un difetto di motivazione dell'impugnata sentenza, la quale sarebbe carente in ordine alla qualificazione giuridica del rapporto di cui si discute, ed in particolare in ordine alla definizione dell'erogazione di denaro in favore della società come mutuo anziché come versamento dei soci in conto di aumento del capitale sociale, ai sensi dell'art. 43 del d.p.r. n. 597-73.
Il terzo mezzo infine, è volto a censurare la sentenza d'appello per violazione degli artt. 1813 e 2697 c.c., sul rilievo che, non bastando la prova dell'avvenuta erogazione di una somma di denaro per dimostrare l'esistenza di un mutuo o di un titolo che comunque giustifichi la restituzione di quanto versato dal socio alla società, la domanda dell'attore avrebbe dovuto, già sol per questo, essere respinta.
Le suindicate censure - che giova esaminare congiuntamente, essendo legate da un evidente nesso logico - valgono a porre in luce un profilo della decisione impugnata che non può condividersi.
Come già s'è detto, la corte d'appello ha stimato che la domanda di restituzione delle somme versate dal socio alla società fosse fondata, unicamente perché ha escluso che il versamento potesse trovar causa in una deliberazione di aumento del capitale sociale ed assumere quindi i caratteri di un vero e proprio conferimento di capitale. In difetto di una tale deliberazione, insomma, l'indicata erogazione di denaro non potrebbe che essere avvenuta a titolo di mutuo, e ciò giustificherebbe la pretesa del mutuante di vedersi restituire la somma in questione entro un termine fissato dal giudice.
È però legittimo nutrire dubbi sull'esattezza dell'alternativa suggerita dal ragionamento della corte bolognese. Va infatti considerato che, tra l'ipotesi dell'erogazione di fondi dal socio alla società a titolo di mutuo e quella del formale conferimento a titolo di aumento di capitale (già deliberato), la prassi è andata da tempo elaborando una terza via, costituita da versamenti, variamente denominati, la cui comune caratteristica consiste nell'essere destinati ad incrementare il patrimonio della società - talvolta anche sotto forma di copertura di perdite - senza però riflettersi (o, almeno, non immediatamente) sul capitale nominale della società stessa e senza perciò essere sottoposti ai vincoli legali propri del capitale sociale in senso stretto. Una prassi, questa, assai diffusa, soprattutto nelle società a ristretta base personale, che è giudicata legittima dalla prevalente dottrina e che anche la giurisprudenza ha da tempo avallato, ritenendo ammissibili apporti siffatti (cui talvolta si da il nome di conferimenti di patrimonio); i quali, in quanto appunto volti ad accrescere il patrimonio dell'ente dotandolo di ulteriori mezzi propri in cui esso possa disporre (il che evidentemente non accadrebbe se l'acquisizione delle somme rogate fosse bilanciata, al passivo, da debiti per restituzione di pari importo in favore dei soci), perciò stesso non danno luogo a crediti esigibili a richiesta del conferente durante la vita della società (cfr. Cass. 3 dicembre 1980, n. 6315; nonché - ma con riguardo prevalentemente ad aspetti fiscali - Cass. 22 settembre 1988, n. 5195, Cass. 25 ottobre 1991, n. 11374 e Cass. 7 aprile 1993, n. 4158).
In effetti nulla consente di escludere la possibilità e la legittimità di siffatti apporti di patrimonio, tanto se destinati a colmare un passivo (cosiddetti versamenti a fondo perduto) quanto se volti ad incrementare l'attivo.
Sovente si fa cenno, a tal riguardo, a diverse disposizioni speciali di natura tributaria che a simili versamenti alludono (segnatamente gli artt. 43 e 64 dell'abrogato d.p.r. n. 597-73, ed, ora, gli art. 43, 44, primo comma, e 55, quarto comma, richiamati dall'art. 95, secondo comma, del nuovo testo unico delle imposte sui redditi approvato con d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917), ed anche la difesa della ricorrente vi ha fatto riferimento. Occorre però avvertire che da tali disposizioni può al più trarsi un indice del riconoscimento legislativo della prassi di cui si sta parlando; ma che, tuttavia, la specifica disciplina tributaria del fenomeno resta circoscritta all'ambito fiscale, non risultando sempre coerente (soprattutto quella del citato d.p.r. n. 597-73) con i principi civilistici della materia societaria, ed apparendo detta disciplina esclusivamente inspirata all'esigenza di evitare possibili elusioni in danno dell'erario.
Più che dalla normativa fiscale è sul terreno del diritto civile che va valutata la legittimità dei menzionati apporti di patrimonio fuori capitale. ed a tal riguardo giova subito osservare come dalla regola della responsabilità limitata dei soci di società di capitali sia dato solo desumere l'impossibilità di una deliberazione che imponga al socio recalcitrante di effettuare apporti ulteriori rispetto a quanto conferito a titolo di capitale; ma non si possa certo anche far discendere l'esistenza di un contrario principio che vieterebbe al scio consensiente di eseguire spontaneamente (o - il che è lo stesso - in forza di accordi parasociali con gli altri soci) detti ulteriori apporti. Anzi, come la più attenta dottrina ha ben posto in luce, la disciplina positiva del diritto societario, ed in specie la previsione secondo cui è possibile richiedere il versamento di un sovrapprezzo a che sottoscriva quote di capitale sociale, offre un sicuro spunto in favore dell'ammissibilità, in linea di principio, di apporti non di capitale, destinati a confluire in riserve patrimoniali e ad essere perciò registrati in bilancio tra le altre poste formanti il patrimonio netto della società. In null'altro il sovrapprezzo infatti consiste se non, appunto, in un apporto che colui il quale sottoscrive una quota di capitale è chiamato a versare nelle casse sociali, in aggiunta all'ammontare del capitale sottoscritto, e che resta sottratto al regime proprio del capitale per confluire invece in una posta di riserva. Il che, naturalmente, non vuol dire che la natura degli apporti dei quali qui si sta trattando sia identica o simile a quella dei versamenti di sovrapprezzo, ma sta solo a significare che il sistema del diritto societario non respinge la possibilità di conferimenti finalizzati non direttamente all'aumento del capitale bensì alla costituzione o all'incremento di riserve del patrimonio netto (le "altre riserve, distintamente indicate", ora menzionate - sub A)- VII della colonna del passivo - dall'art. 2424 c.c., come sostituito dall'art. 5 del d. lgs. n. 127-91).
Stando così le cose, appare davvero non appagante la conclusione della corte d'appello secondo cui, non essendovi stata una deliberazione di aumento di capitale cui ricondurre il versamento di denaro eseguito dal socio in favore della società, esso sarebbe, sol per questo, da considerare alla stregua di un mutuo. Dato il possibile diverso atteggiarsi dei rapporti tra società e socio, viceversa, e muovendo dall'indicazione del libro giornale che definiva il versamento "in conto aumento capitale infruttifero" (ossia con una delle espressioni tipiche dei suaccennati conferimenti di patrimonio) non avrebbe potuto essere trascurata la possibilità che si trattasse di un versamento non correlato ad uno specifico e già deliberato aumento di capitale, e pur tuttavia avente una causa diversa da quella del mutuo.
4. - Ciò posto, due precisazioni ancora s'impongono, entrambe rilevanti per la corretta risoluzione del caso in esame.
La prima precisazione riguarda la qualificazione e la concreta disciplina degli accennati apporti di patrimonio fuori capitale, che la prassi contabile designa sovente con denominazioni diverse ("soci in conto capitale", "soci in conto futuro aumento capitale" o "in conto o copertura future perdite", "conto versamento soci", "conto finanziamento soci infruttifero", e simili), senza che necessariamente a ciascuna di tali denominazioni corrisponda una realtà giuridico - economica differente, e senza che, comunque, possa essere attribuito valore decisivo all'uso del termine "capitale" (termine quasi sempre adoperato in senso economico - ossia come sinonimo di capitale di rischio impiegato nell'impresa e perciò comprensivo di tutti i mezzi propri di cui l'impresa collettiva può disporre per la propria attività - e non in senso rigorosamente giuridico).
Ora, lasciando da parte l'ipotesi (che qui non ricorre) dei versamenti destinati a copertura di perdite, non può farsi a meno di notare - e la dottrina infatti lo ha ben rilevato - che altro sono i versamenti genericamente effettuati "in conto capitale", altro quelli che si riferiscono ad un futuro e ben determinato aumento del capitale sociale.
Mentre per i primi non sembra dubbio che si tratti di apporti di patrimonio dei quali la società è libera di disporre come di qualsiasi altra riserva (anche, ma non necessariamente, adoperandoli in futuro per aumentare il capitale nominale), senza che possa venire in questione alcun diritto al rimborso del socio fin quando non sia stata liquidata l'impresa collettiva, la situazione si presenta in termini diversi nella seconda delle due fattispecie sopra ipotizzate.
Quando, infatti, le parti abbiano stabilito un chiaro collegamento casuale tra il versamento eseguito dal socio ed un prossimo aumento del capitale sociale, è in genere da ritenere che esse abbiano inteso condizionare risolutivamente l'acquisizione patrimoniale della società alla futura deliberazione di aumento del capitale nominale.
Il versamento eseguito dal socio sarà pertanto, in tal caso, solo provvisoriamente da includere tra le riserve e dovrà poi, ove l'assemblea effettivamente deliberi l'ipotizzato aumento del capitale nominale della società, rifluire in quest'ultima posta di bilancio ed assumere i caratteri tipici del conferimento di capitale (in senso giuridico). Ma se, viceversa, l'aumento non dovesse esser deliberato dall'assemblea (la quale, ovviamente, è del tutto libera nelle sue determinazioni), il socio avrà diritto alla restituzione di quanto versato: non perché si è trattato di un mutuo, bensì per essere venuta successivamente meno la causa giustificativa dell'attribuzione patrimoniale da lui eseguita in favore della società (e, quindi, secondo i principi della ripetizione dell'indebito).
Ove, per altro, la previsione del futuro aumento del capitale nominale, cui il versamento dovrebbe essere condizionato, sia solo generica - come non di rado avviene - e quindi priva di ogni indicazione della data, o almeno dell'epoca, entro la quale l'ipotizzata condizione dovrebbe verificarsi, s'impone la scelta tra due soluzioni alternative: o si dovrà interpretativamente ritenere che, per il fatto stesso di non aver fissato alcuna indicazione temporale, le parti abbiano in realtà inteso lasciare comunque le somme versate dal socio nella piena disponibilità della società e che, quindi, il riferimento al futuro aumento di capitale non valga a configurare una condizione risolutiva del conferimento ma serva solo a ribadire la possibilità che la società adoperi in tal senso la relativa riserva; oppure si dovrà - come suggerito da autorevole dottrina - far ricorso, in via analogica, alla disposizione dell'art. 1183 c.c., ed ammettere che il socio possa chiedere al giudice la fissazione di un termine entro il quale la società sia tenuta a riunire l'assemblea per decidere in ordine all'ipotizzato aumento del capitale nominale, così da provocare l'avveramento o il mancato avveramento della condizione cui il conferimento è risolutivamente condizionato.
È superfluo notare che la scelta tra l'una o l'altra delle sue segnalate soluzioni dipende dall'interpretazione che, in concreto, debba darsi alle volontà delle parti del rapporto di conferimento.
Ma su ciò dovrà subito tornarsi.
La seconda delle due precisazione cui innanzi si accennava attiene infatti, per l'appunto, all'interpretazione della volontà della parti sopra menzionate. L'assemblea di definizioni codificate in materia suggerisce, quì più che altrove, di verificare con la massima cautela quale sia stata in concreto la reale intenzione dei soggetti - socio e società - tra i quali il rapporto si è instaurato. Ed impone di accertare, di volta in volta, sulla scorta delle normali regole interpretative della volontà negoziale dettate dalla legge, se si sia trattato di un rapporto di finanziamento, riconducibile allo schema del mutuo, o se si sia invece in presenza di un contratto atipico di conferimento di capitale (qui inteso come capitale di rischio, in senso economico), ed, in quest'ultimo caso, se il conferimento sia stato o meno condizionato ad un futuro aumento del capitale 8qui inteso come capitale nominale, in senso giuridico) della società. Non senza osservare che la già rilevata frequenza dell'uso di termini non intesi nel loro significato tecnico - giuridico (e quasi sempre volti più al perseguimento di finalità fiscali che a definire civilisticamente la fattispecie) rende necessario non arrestarsi alla mera denominazione adoperata nelle scritture contabili della società, per volgere invece l'attenzione soprattutto al modo in cui concretamente è stato attuato il rapporto, alle finalità pratiche cui esso appare essere diretto ed agli interessi che vi sono sottesi.
Con l'ulteriore necessaria aggiunta che, ogni qual volta il materiale probatori offerto all'esame del giudice non consenta di pervenire in proposito a conclusioni sicure, sarà giocoforza respingere la domanda di restituizione proposta dal socio, perché in ambito civilistico nulla consente di presumere che il versamento sia sorretto da una causa di mutuo, ed è principio generale quello per il quale compete all'attore fornire la dimostrazione del titolo in base al quale egli avanza la propria pretesa.
5. - Alla stregua di quanto sopra osservato, s'impone dunque la cassazione dell'impugnata sentenza ed il rinvio della causa ad altra sezione della corte d'appello di Bologna, che deciderà attenendosi ai seguenti principi.
"L'accoglimento della domanda con la quale il socio di una società di capitali chiede la condanna della società a restituirgli somme da lui in precedenza versate alla società medesima richiede la prova che detto versamento sia stato eseguito per un titolo che giustifichi la pretesa di restituzione: prova che dev'essere tratta non tanto dalla denominazione con la quale il versamento è stato registrato nelle scritture contabili della società, quanto soprattutto dal modo in cui concretamente è stato attuato il rapporto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi. È questione d'interpretazione della volontà negoziale delle parti lo stabilire se l'indicato versamento tragga origine da un rapporto di mutuo o se invece esso sia stato effettuato a titolo di apporto del socio al patrimonio di rischio dell'impresa collettiva; nel quale ultimo caso il diritto alla restituzione, prima ed al di fuori del procedimento di liquidazione della società, sussiste solo qualora il conferimento sia stato risolutivamente condizionato alla mancata successiva deliberazione assembleare di aumento del capitale nominale della società e tale deliberazione non sia intervenuta entro il termine stabilito dalle parti o fissato dal giudice".
È appena il caso di aggiungere che - qualora nella fattispecie qui in esame dovesse risultare configurabile un apporto di patrimonio condizionato ad un aumento del capitale sociale poi non deliberato - competerà altresì al giudice di rinvio valutare, interpretando le domande formulate dalle parti in causa, se la pretesa restitutoria azionata dal socio Tamburini sul presupposto di un eseguito finanziamento sia o meno riconducibile anche a tale ulteriore causa petendi.
Il giudice di rinvio provvederà, infine, anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M

La corte:
1) rigetta il primo motivo di ricorso;
2) accogliendo, per quanto di ragione, gli ulteriori motivi di ricorso, cassa l'impugnata sentenza e rinvia la causa per nuovo esame ad altra sezione della corte d'appello di Bologna, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso, in Roma, il 14 luglio 1995.