Cassazione civile, SEZIONE I, 28 aprile 1997, n. 3652


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott.    Michele           CANTILLO                    Presidente
"       Vincenzo          BALDASSARRE                 Consigliere
"       Mario Rosario     MORELLI                          "
"       Giuseppe          SALMÈ                           "
"       Renato            RORDORF                     Rel. "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da:
A.C. MONOPOLI Srl,     in persona del legale  rappresentante  pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DELL'OLMATA 30, presso
l'avvocato P. CIPPONE, rappresentato e  difeso  dall'avvocato  ANDREA
VIOLANTE, giusta delega a margine del ricorso;
Ricorrente
contro
LARUCCIA  VITO,          LARUCCIA  VITANTONIO,      elettivamente
domiciliati in ROMA VIA DEGLI SCIPIONI 268-A,  presso  l'avvocato  D.
BATTISTA,  rappresentanti  e  difesi  dall'avvocato  LUCIO  RICCARDI,
giusta delega a margine del controricorso;
controricorrente
avverso  la  sentenza  n.  812-93  della  Corte  d'Appello  di  BARI,
depositata il 02-11-93;
udita la relazione della causa  svolta  nella  pubblica  udienza  del
31-01-97 dal Relatore Consigliere Dott. Renato RORDORF;
udito il P.M. in persona del  Sostituto  Procuratore  Generale  Dott.
Raffaele PALMIERI che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

La Associazione Calcio Monopoli s.r.l. (d'ora in avanti indicata solo come Monopoli), con citazione notificata il 7 settembre 1987, convenne in giudizio dinanzi al tribunale di Bari gli ex amministratori Vito e Vitantonio Laruccia e chiese che essi fossero condannati a risarcire i danni cagionati alla società, indicati nella misura di L. 2.093.652.236. A sostegno della domanda, l'attrice riferì che Vito Laruccia, dopo la scadenza dalla carica e nel periodo di proroga dei poteri sino alla nomina dei nuovi amministratori, aveva gravemente depauperato il patrimonio sociale, in particolare compiendo operazioni di ingaggio e di cessione di calciatori contrarie all'interesse della società, cui aveva così provocato un ingente indebitamento; e che Vitantonio Laruccia, quale presidente del consiglio di amministrazione, aveva avallato tale illecito comportamento.
La domanda, contestata dai convenuti, fu respinta dal tribunale con sentenza poi confermata, a seguito di gravame, dalla corte d'appello di Bari.
A fondamento di tale decisione, la corte barese osservò che la responsabilità degli amministratori di società sorge solo per effetto della violazione di obblighi fissati dalla legge o dall'atto costitutivo, non essendo le loro scelte censurabili sotto il profilo dell'opportunità; di modo che una simile responsabilità non può essere desunta dalla mera circostanza che il risultato della gestione sociale, o singoli atti della gestione medesima, si siano rivelati, ad un giudizio ex post, negativi. Il che, nella specie, rendeva irrilevanti le censure dell'appellante in ordine alla "campagna acquisti" condotta dagli amministratori del Monopoli nell'estate del 1985, anche perché non erano state denunciate difformità rispetto ai parametri in proposito fissati dalla "Lega-Calcio".
Quanto poi al fatto che Vito Laruccia avesse compiuto le indicate operazioni dopo la scadenza del triennio per il quale era stato nominato amministratore, la corte barese rilevò che l'art. 2385 c.c., laddove stabilisce che la cessazione degli amministratori dalla carica ha effetto dal momento della loro sostituzione, non pone limite alcuno ai poteri degli amministratori in proroga e non consente perciò, a tal riguardo, di distinguere tra atti di ordinaria e di straordinaria amministrazione.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società Monopoli, per tre motivi di cui appresso di dirà.
Gli intimati Laruccia hanno resistito con controricorso.

Diritto

1.- Con il primo motivo la società ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 12 della legge n 91 del 1981, delle norme organizzative federali, e degli artt. 2392, 1710 e 2429-bis c.c., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione dell'impugnata sentenza su punti decisivi della controversia.
La società assume che la corte d'appello, pur muovendo da una statuizione di principio certamente condivisibile, circa i limiti entro i quali è consentito censurare gli atti di gestione degli amministratori di società, abbia poi fatto cattiva applicazione dell'enunciato principio, del tutto trascurando il concreto contenuto degli addebiti mossi ai Laruccia e dei motivi d'appello in proposito formulati, che avevano riguardo alla violazione del dovere di diligenza e di altri specifici obblighi di legge gravanti sui predetti amministratori. Ed, a tal riguardo, la ricorrente in particolare ricorda di aver censurato:
a) la mancata attuazione della politica di contenimento dei costi, resa necessaria dal grave indebitamento manifestato dal bilancio della società per l' esercizio 1984-85;
b) la stipulazione a costi altissimi di contratti d'ingaggio di calciatori non più giovani, in aperto contrasto con la dichiarata volontà di favorire la valorizzazione di giocatori emergenti;
c) la mancanza di ogni informazione all'assemblea in ordine a tali costose operazioni, compiute nell'intervallo tra la chiusura del bilancio al 30 giugno 1985 e la data di approvazione del medesimo;
d) l'incremento del 90% delle perdite registrato nella gestione 1984-85, unitamente ad un indebitamento bancario quasi raddoppiato rispetto all'anno precedente, ben oltre i limiti consentiti dalla legge n. 91 del 1981 e dalle norme organizzative emanate dalla Federazione Nazionale Gioco Calcio, con il conseguente profilarsi di una situazione prefallimentare cui si era poi dovuto porre rimedio azzerando e ricostituendo il capitale sociale; e) l'aggravamento di tale situazione anche nel successivo esercizio 1985-86, durante il quale Vitantonio Laruccia era subentrato al fratello Vito nella carica di amministratore delegato della società;
f) l'emissione, da parte del medesimo Vitantonio Laruccia, di due assegni bancari per oltre 200 milioni di lire tratti sui conti correnti della società e relativi ad operazioni non registrate nei libri sociali;
g) l'adozione, sempre da parte di Vitantonio Laruccia, di illegittimi artifici contabili al fine di mascherare ulteriori gravi perdite sociali, in occasione di una riunione assembleare convocata ai sensi degli artt. 2446 e 2447 c.c., che si era quindi conclusa - proprio in virtù dei denunciati artifici contabili - senza l'adozione dei necessari provvedimenti di riduzione e ripristino del capitale perduto e senza che la relativa deliberazione fosse poi neppure sottoposta alla prescritta omologazione del tribunale;
h) la mancata contabilizzazione, ad opera di Vito Laruccia, di un credito di circa 30 milioni vantato dalla società nei confronti della Cosenza Calcio s.p.a. per la cessione di alcuni giocatori, di fatto riscosso e trattenuto dal predetto Laruccia.
1.1 - Le varie questioni prospettate dal riferito motivo di ricorso richiedono considerazioni distinte.
Per quel che riguarda gli addebiti mossi dalla società ai resistenti (sub a e b) in tema di mancato contenimento dei costi e di stipulazione di contratti d'ingaggio scriteriati, le considerazioni dell'impugnata sentenza sulla non censurabilità delle scelte imprenditoriali degli amministratori appaiono calzanti e pienamente da condividere.
La responsabilità ipotizzata dall'art. 2392 c.c. discende infatti unicamente dalla violazione di obblighi giuridici, gravanti sui gestori del patrimonio sociale, cui non potrebbe invece essere mai imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico: giacché una valutazione di tal fatta atterrebbe alla sfera dell'opportunità, e dunque della discrezionalità amministrativa, e potrebbe semmai solo rilevare come giusta causa di revoca dell'amministratore dalla carica, e non già come fonte di responsabilità contrattuale dello stesso verso la società. Donde consegue che la responsabilità dell'amministratore non può essere semplicemente desunta dai risultati della gestione e che, perciò, al giudice investito dell'azione di responsabilità non è consentito sindacare i criteri di opportunità e di convenienza seguiti dall'amministratore nell'espletamento dei suoi compiti <F3,0>Ora, è bensì vero che il primo comma dello stesso citato art. 2392 richiede agli amministratori di adempiere i loro doveri con la diligenza del mandatario, onde l'eventuale difetto di diligenza nell'operare dei medesimi amministratori è circostanza rilevante anche sotto il profilo giuridico, e potrebbe perciò essere posta a base di un addebito di responsabilità. Ed è vero anche che non sempre risulta agevole distinguere in concreto tra valutazioni di mera opportunità (come tali non censurabili in sede giudiziaria) e la deduzione della violazione dell'obbligo di agire con diligenza. Il discrimine tra queste due diverse figure, tuttavia, sussiste, e va soprattutto individuato in ciò: che la scelta tra il compiere o meno un certo atto di gestione, oppure di compierlo in un certo modo o in determinate circostanze, non è mai di per se sola (salvo che non denoti addirittura la deliberata intenzione dell'amministratore di nuocere all'interesse della società) suscettibile di essere apprezzata in termini di responsabilità giuridica, per l'impossibilità stessa di operare una simile valutazione con un metro che non sia quello dell'opportunità e perciò di sconfinare nel campo della discrezionalità imprenditoriale; mentre, viceversa, è solo l'eventuale omissione, da parte dell'amministratore, di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel genere che può configurare la violazione dell'obbligo di adempiere con diligenza il mandato di amministrazione e può quindi generare una responsabilità contrattuale dell'amministratore verso la società.
In breve: il giudizio sulla diligenza non può mai investire le scelte di gestione degli amministratori, ma tutt'al più il modo in cui esse sono state compiute. Non senza aggiungere che, ovviamente, un tale giudizio - in ordine al grado di diligenza che la cura di un determinato affare avrebbe normalmente richiesto, in rapporto a quello in concreto impiegato dall'amministratore convenuto in giudizio dalla società - costituisce una tipica valutazione di merito, come tale non sindacabile in cassazione se non per eventuali vizi di motivazione.
Ora, alla stregua di quanto sopra osservato, appare di tutta evidenza come, nel caso in esame, l'avere gli amministratori della società Monopoli deciso d'ingaggiare certi giocatori, piuttosto che altri, e di sostenere i relativi costi, si sottrae - di per se - ad ogni possibile censura di legittimità, volta che non è stato dedotto che tale scelta sia stata compiuta dagli amministratori senza assumere adeguate informazioni sulle qualità sportive, sull'età e sullo stato fisico dei calciatori in questione, oppure sui prezzi usualmente praticati, sulle condizioni del mercato o su altre simili circostanze. Nè certo - è appena il caso di aggiungerlo - la congruità della singola operazione con le linee di politica gestionale tracciate in via generale dai medesimi amministratori può assurgere ad elemento di responsabilità, essendo fuor di dubbio che l'avere enunciato preventivamente un programma di azione non priva poi gli amministratori del potere discrezionale di derogarvi, di volta in volta, quando la situazione a loro giudizio lo richieda; ed un siffatto comportamento può magari assumere rilievo nella valutazione dei soci in sede di eventuale revoca o, comunque, all'atto del successivo rinnovamento delle cariche, ma non certo di per se solo determinare una qualche responsabilità giuridica.
Il fatto, poi, che le suaccennate operazioni abbiano comportato ingenti costi è, del pari, di per se solo irrilevante, essendo evidente che quasi ogni atto di natura commerciale ne comporta, e che la scelta di compierlo è legata alla prospettiva di ricavarne comunque dei vantaggi superiori; nè, trattandosi appunto di una valutazione di opportunità operata ex post, la mancata realizzazione di tale prospettiva vale a rendere illegittimo quell'atto.
1.2 - Le rimanenti censure esposte nel primo motivo di ricorso riguardano una serie di addebiti della società ai propri ex amministratori, che la corte d'appello ha disatteso senza tuttavia esaminarli in modo specifico. Si pone dunque, a questo riguardo, la necessità di valutare se la denunciata omissione di motivazione sia o meno tale da dover determinare la cassazione della sentenza impugnata: il che dipende dal carattere di decisività che eventualmente sia da attribuire ai punti che la ricorrente segnala e sui quali la corte di merito non ha espressamente motivato.
Prima di accingersi a tale esame, va peraltro rilevato che gli addebiti cui s'è fatto ora cenno non erano espressi in modo esplicito nell'atto originario di citazione, ma sono andati delineandosi in corso di giudizio. Il che, però, non avrebbe dovuto impedire e non impedisce ora - di tenerne conto, essendovi stata piena accettazione del contraddittorio al riguardo da parte dei convenuti Laruccia.
Ciò premesso, va detto che il rilievo dianzi riferito sub c) - riguardante la mancanza di informazioni ai soci in merito alle operazioni compiute dagli amministratori tra la data di chiusura dell'esercizio e quella di convocazione dell'assemblea chiamata ad approvare il bilancio - non investe un punto decisivo della causa (e dunque non vale a sorreggere il dedotto vizio di omessa motivazione dell'impugnata sentenza). Infatti, l'addebito in tal senso mosso agli amministratori, se fondato, varrebbe certo a dimostrare che vi è stata una violazione dei doveri incombenti sugli amministratori medesimi, ai sensi dell'art. 2429-bis, primo comma, c.c. (nel testo vigente prima dell'emanazione del d. lgs. n 127 del 1991). Ma ciò non basterebbe a rendere accoglibile la domanda di accertamento di responsabilità e risarcimento dei danni proposta dalla società Monopoli, perché, in se solo considerato, il difetto d'informazione dei soci non implica automaticamente che il patrimonio sociale abbia sofferto di un qualche pregiudizio, nè la ricorrente indica sotto quale profilo la denunciata violazione di legge si sarebbe tradotta in un danno emergente o in un lucro cessante per la società.
1.3 - Del pari inconferenti sono i rilievi sopra riassunti alle lettere d) ed e).
La perdita di esercizio e l'indebitamento della società, per le ragioni che già prima sono state illustrate, non sono adducibili come causa di responsabilità degli amministratori, non potendo tale responsabilità derivare dal solo fatto che le scelte imprenditoriali compiute non si siano rivelate felici nè fortunate.
Mal s'intende, poi, in che cosa sarebbe consistita la violazione dell'art. 12 della legge n 91 del 1981, nè quali sarebbero le disposizioni della Federazione Nazionale Gioco Calcio violate, il cui tenore la ricorrente neppure specifica e che questa corte non è in condizione di conoscere, non trattandosi di norme di carattere pubblico.
1.4 - Ad analoga conclusione deve pervenirsi per quel che riguarda la questione prima riferita sub g).
Anche a questo riguardo va infatti rilevato che l'eventuale esistenza della denunciata violazione di legge (nella specie, consistente nell'avere presentato all'assemblea una relazione non rispondente alla reale situazione patrimoniale della società, così evitando l'adozione dei provvedimenti richiesti dagli artt. 2446 e 2447 c.c. in caso di più gravi perdite di capitale), non è di per sè sola sufficiente a determinare una responsabilità risarcitoria a carico degli amministratori nei confronti della società, ove non si dimostri che, a causa di quella violazione, la società medesima ha subito un danno. E, nella specie, una simile eventualità non appare essere stata neppure dedotta da parte della ricorrente.
Non senza aggiungere, per quel che specificamente riguarda la doglianza relativa alla mancata sottoposizione ad omologazione della deliberazione dell'assemblea, che tale adempimento nella specie non risultava essere in effetti richiesto (nè consentito), dal momento che - a quanto la stessa ricorrente riferisce - in quell'occasione l'assemblea non aveva infine deliberato alcuna variazione del capitale sociale e non aveva dunque apportato modificazioni all'atto costitutivo di cui dovesse essere ordinata l'iscrizione nel registro delle imprese.
1.5 - Restano da esaminare le questioni cui sopra s'è fatto cenno sub f) ed h), in ordine alle quali s'impongono considerazioni di segno diverso da quelle finora esposte.
La circostanza che l'amministratore Vitantonio Laruccia abbia emesso assegni bancari, tratti su conti correnti della società, per operazioni non registrate in contabilità - se risultasse conforme a verità - implicherebbe, alternativamente, o che lo stesso Laruccia ha attinto dai fondi sociali per esigenze estranee alla società o che vi è stata una lacuna nella registrazione delle operazioni sociali. In questo secondo caso, pur potendosi verosimilmente imputare al medesimo amministratore la violazione dei doveri di corretta tenuta contabile, non sarebbe necessariamente ravvisabile anche un qualche danno risarcibile in favore della società, che avrebbe sopportato un esborso comunque in definitiva corrispondente ad un'obbligazione ad essa facente capo.
Se, però, fosse invece vera la prima ipotesi, non solo il comportamento dell'amministratore apparirebbe contrario al suo dovere di custodire il patrimonio sociale impiegandolo solo per finalità coerenti con l'oggetto della società, ma incontestabilmente quest'ultima ne risulterebbe danneggiata, se avesse di fatto dovuto far fronte ad un debito non proprio.
Sarebbe stato dunque indispensabile che il giudice di merito avesse preso in esame tale punto della controversia, solo risolvendo il quale era possibile decidere della fondatezza dell'addebito di responsabilità mosso al riguardo dalla società al proprio amministratore e della conseguente pretesa risarcitoria.
Non diversamente stanno le cose per quel che concerne l'accusa rivolta dal Monopoli all'amministratore Vito Laruccia di avere riscosso e trattenuto per se un credito di cui era titolare la società.
Non occorre ancora sottolineare che la conservazione del patrimonio sociale costituisce uno dei doveri principali facenti capo agli amministratori, e la distrazione a proprio favore di somme appartenenti alla società costituisce, con ogni evidenza, un comportamento contrario a tale dovere. Comportamento che - è quasi superfluo dirlo - si pone in immediato rapporto di causalità con il danno consistente, per la società, nella perdita della disponibilità dell'indicata somma.
Nessun dubbio può nutrirsi, quindi, sulla rilevanza dell'addebito in esame, in relazione al thema decidendum proposto con l'azione sociale di responsabilità della quale si discute. E nessun dubbio è lecito avere, di conseguenza, neppure sulla necessità che il giudice di merito vagliasse, in punto di fatto, il fondamento della suindiacata accusa.
Nè all'uno nè all'altro dei punti da ultimo richiamati la corte barese ha invece dedicato attenzione alcuna, omettendo completamente ogni esame in proposito e lasciando perciò del tutto priva di motivazione, in ordine a questi punti, la decisione di rigetto del gravame proposto dal Monopoli avverso la sentenza del tribunale.
Sotto questo profilo, ed entro questi limiti, il primo motivo di ricorso dev'essere dunque accolto.
2. - Con il secondo mezzo d'impugnazione, la società ricorrente, denunciando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2385, 2386, 1711 e segg. e 172 e segg. c.c., insiste nel sostenere che le operazioni di ingaggio di calciatori cui sopra s'è fatto cenno sono state effettuate da Vito e Vitantonio Laruccia in un periodo di proroga dei loro poteri amministrativi, durante il quale essi non avrebbero potuto compiere atti eccedenti l'ordinaria amministrazione.
Ed osserva che, interpretando altrimenti il secondo comma del citato art. 2385, si consentirebbe agli amministratori scaduti di non attivarsi per il rinnovo della carica e di approfittare frattanto della situazione abusando dei loro poteri.
2.1 - La riferita doglianza è manifestamente infondata.
La menzionata disposizione dell'art.
2385, a tenore della quale la cessazione degli amministratori dalla carica ha effetto solo dal momento in cui l'organo amministrativo è stato ricostituito, risponde ad un'evidente esigenza di continuità nel funzionamento della società ed è volta ad impedire, in occasione del ricambio delle cariche sociali, ogni rischio di paralisi dell'organo di gestione della società, la quale potrebbe altrimenti restare per alcun tempo priva di chi la amministra e la rappresenta.
Nulla consente però di circoscrivere una tale esigenza alla sola amministrazione ordinaria, giacché è invece ben possibile che l'interesse al buon funzionamento della società richieda anche il compimento di atti di gestione straordinaria (pur sempre rientranti nei poteri conferiti agli amministratori dalla legge o dall'atto costitutivo) dopo la scadenza del termine di durata dell'organo ma prima che l'assemblea abbia potuto provvedere al rinnovo delle cariche. Ed, infatti, il secondo comma del citato art. 2385 non limita in alcun modo i poteri spettanti agli amministratori nel cosiddetto periodo di prorogatio, lasciando così intendere che la proroga riguarda quei poteri nella loro completa estensione, cioè tal quali essi esistevano sin da principio in capo agli amministratori prorogati in carica.
Non giova, di contro, invocare l'esistenza di un preteso principio generale, che viceversa imporrebbe di contenere nel solo ambito della gestione ordinaria i poteri spettanti agli amministratori in proroga.
L'esistenza di un simile principio (che non è neppure certa nel diritto amministrativo) è sicuramente da escludere, per difetto di qualsiasi indice normativo da cui la si possa dedurre, nel campo del diritto privato societario.
E neanche giova sostenere che l'interpretazione qui propugnata del citato art. 2385, secondo comma, offrirebbe il destro ad amministratori prepotenti per abusare dei loro poteri ritardando maliziosamente il rinnovo delle cariche sociali. Se così fosse, quegli amministratori dovrebbero rispondere non già per avere compiuto atti eccedenti i loro poteri nel periodo di proroga artificiosamente prolungato, bensì appunto per avere determinato un tale artificioso prolungamento, non adempiendo l'obbligo di tempestiva convocazione dell'assemblea (e ciò anche a tacere dei rimedi in tal caso previsti dagli artt. 2367 e 2406 c.c.).
Anche ammesso dunque - il che resterebbe pur sempre da dimostrare - che la conduzione della "campagna acquisti" da parte di una società di calcio costituisca un'attività di straordinaria amministrazione, è da escludere che essa esuli dai poteri degli amministratori scaduti ma prorogati in carica sino alla ricostituzione dell'organo di gestione.
3. - Il terzo motivo di ricorso ha riguardo al mancato espletamento, da parte del giudice d'appello, dell'attività istruttoria sollecitata dall'appellante. Il suo esame, in questa sede, è però assorbito dal parziale accoglimento del primo motivo del medesimo ricorso, che renderà comunque necessaria la celebrazione di un nuovo giudizio di merito nel cui ambito (ed entro i cui limiti) dovrà essere ulteriormente valutata l'ammissibilità delle suaccennate richieste istruttorie.
4. - Le considerazioni sopra svolte impongono, dunque, di cassare l'impugnata sentenza, in relazione ai profili di censura accolti, e di rinviare la causa per un nuovo esame ad altra sezione della corte d'appello di Bari, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M

La corte:
1) accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il primo motivo del ricorso;
2) rigetta il secondo motivo e dichiara assorbito il terzo;
3) cassa l'impugnata sentenza, in relazione ai profili di censura accolti, e rinvia la causa ad altra sezione della corte d'appello di Bari, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso, in Roma, il giorno 31 gennaio 1997.