Cassazione civile, SEZIONE I, 14 maggio 1997, n. 4259
SEZIONE I CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Mario CORDA Presidente
" Pellegrino SENOFONTE Consigliere
" Alessandro CRISCUOLO Rel. "
" Ugo Riccardo PANEBIANCO "
" Giulio GRAZIADEI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
GALLI COLOMBO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA PO 21,
presso
BERNARDINETTI, giusta delega in calce al ricorso;
Ricorrente
contro
COOPERATIVA TARTUFI SRL;
Intimata
avverso la sentenza n. 359-93 della Corte d'Appello di PERUGIA,
depositata il 24-12-93;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
30-09-96 dal Relatore Consigliere Dott. Alessandro CRISCUOLO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Marcello Filippo IORIO che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Con citazione in data 14 settembre 1984 il sig. Colombo Galli convenne
in giudizio davanti al Tribunale di Terni la società Cooperativa Tartufi, con
sede in quella città, esponendo: che dal dicembre del 1983 egli era socio della
detta cooperativa, costituita il 27 febbraio 1974; che in precedenza, fin dal
1974, egli aveva avanzato continue richieste di ammissione alla cooperativa
medesima, ma tali richieste erano state sempre disattese ad onta del suo buon
diritto ad ottenere l'ammissione, nascente dal possesso di tutti i requisiti
all'uopo necessari; che, a causa di tale reiterato rifiuto, egli non aveva potuto
esercitare la raccolta dei tartufi nei terreni della cooperativa (ancorché legittimato
a farne parte), subendo così un danno quantificabile in circa cento milioni
di lire. Chiese pertanto: a) che si dichiarasse il suo diritto - ex art. 3 della
legge n. 568 del 1970 - alla libera escavazione dei tartufi a partire dal 1974,
anno della costituzione della cooperativa, nei terreni di quest'ultima, con
condanna della medesima al risarcimento dei danni per avergli impedito l'esercizio
del diritto attraverso l'operato dell'azienda Pastorale del Comune di Terni;
b) che si dichiarasse che, ai sensi dell'art. 4 della legge 17 luglio 1970 n.
568, i terreni e i boschi incolti dovevano essere destinati alla libera raccolta
dei tartufi; c) che si dichiarasse che i soci della cooperativa potevano esercitare
la raccolta dei tartufi soltanto quando fossero proprietari ovvero detentori
di boschi naturali e di terreni incolti.
La convenuta contestò l'avversa pretesa, chiedendone il rigetto.
All'esito dell'istruzione il tribunale adito, con sentenza dell'11 luglio 1989,
rigettò la domanda e condannò l'attore al pagamento delle spese giudiziali.
Su gravame del Galli
Avverso la suddetta sentenza il Galli ha proposto ricorso per cassazione, affidato
a cinque motivi di annullamento.
L'intimata non ha spiegato attività difensiva.
Con il primo mezzo di cassazione il ricorrente denunzia violazione
ed errata applicazione degli artt. 2225, 1332, 2597 c.c., in riferimento agli
artt. 4 e 5 dello statuto sociale della Cooperativa Tartufi in data 27 febbraio
1974, alla legge della Regione Umbria n. 38 del 2 maggio 1980 (richiamante la
legge 17 luglio 1970 n. 568) e all'art. 360 n. 3 c.p.c.
Premesso che l'azione da lui promossa aveva natura risarcitoria, per non aver
potuto procedere - sia come socio della detta cooperativa sia come titolare
di regolare licenza - alla raccolta di tartufi nei boschi di proprietà del Comune
di Terni e nelle altre zone indicate in ricorso, sostiene che
Nel caso di specie mai la cooperativa avrebbe comunicato ad esso Galli il rigetto
della domanda di ammissione, pur avendo l'obbligo di farlo.
Inoltre, comunque egli avrebbe avuto il diritto soggettivo ad essere iscritto
alla cooperativa sin dal 1974, ai sensi degli artt. 3 e 4 della legge n. 568
del 1970, della legge 2 maggio 1980 n. 38 e dell'art. 4 della legge 16 febbraio
(NDR: così nel testo) 1985 n. 752, le quali, riconoscendo che la raccolta dei
tartufi è libera nei boschi e nei terreni non coltivati, renderebbe ovvio il
diritto d'iscrizione alle cooperative aventi come scopo sociale la raccolta
dei tartufi.
Con il secondo motivo, poi, il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione
dell'art. 345 c.p.c., in ordine alla invocata violazione dell'art. 5 dello statuto
sociale, nonché omessa o insufficiente motivazione sul punto, in relazione all'art.
360, n. 3 e 5 c.p.c.
I due mezzi - che, per essere tra loro strettamente connessi, possono formare
oggetto di esame congiunto - non hanno fondamento.
È vero che l'affermazione della Corte di Perugia, secondo cui il richiamo alla
(asserita) violazione dell'art. 5 dello statuto sociale da parte della cooperativa
costituirebbe domanda nuova per mutamento della causa petendi ex art. 345 c.p.c.,
non può essere condivisa.
Infatti il Galli aveva chiesto l'accertamento del suo diritto a vedere accolta
la domanda d'iscrizione al sodalizio e quindi ad essere ammesso tra i soci della
cooperativa.
Nel quadro di tale domanda il richiamo alla citata norma statutaria (che prevedeva
una procedura di reclamo avverso il diniego d'iscrizione disposto dal consiglio
di amministrazione della società, secondo quanto si deduce in ricorso) non modificava
in alcun modo le ragioni giuridiche e l'oggetto della domanda medesima, che
restava identica, nè introduceva nuovi accertamenti di fatto, essendo ancorato
alla fonte di prova (documentale) costituita dallo statuto sociale già invocato
dal ricorrente, ma si traduceva soltanto in un'argomentazione aggiuntiva certamente
consentita in secondo grado dall'art. 345, comma secondo, c.p.c. nel testo (applicabile
alla fattispecie) anteriore alla riforma attuata con l'art. 52 della legge 26
novembre 1990 n. 353.
Tuttavia, chiarito il punto che precede nell'esercizio del potere correttivo
attribuito a questa Corte dall'art. 384 comma secondo c.p.c., la pronunzia di
rigetto adottata dalla Corte di merito sulla domanda in esame risulta conforme
a diritto e deve dunque essere confermata.
Invero le società cooperative (caratterizzate per lo specifico scopo istituzionale
perseguito nello svolgimento dell'attività d'impresa, ossia per lo scopo mutualistico),
ancorché formino oggetto di una particolare ed articolata disciplina legislativa
(contenuta nel codice ed in leggi speciali) hanno però una struttura a base
contrattuale (cfr. l'art. 2518 c.c.) che vincola i soci all'osservanza dei doveri
sociali e li rende titolari dei relativi diritti, ma non attribuisce di regola
situazioni giuridiche soggettive a terzi estranei al sodalizio, i quali perciò
non possono invocare il patto sociale per fondare su questo diritti a proprio
favore. Pertanto l'aspirante socio, in quanto ancora estraneo alla società,
non può vantare di regola un diritto soggettivo ad essere ammesso nella società
e gli amministratori non sono obbligati ad accogliere la sua domanda (art. 2525
c.c.), quando anche egli sia in possesso di tutti i requisiti soggettivi stabiliti
dalla legge o dall'atto costitutivo.
Nell'ordinamento si rinvengono norme le quali stabiliscono un obbligo di ammissione
per determinate categorie di cooperative, quali le cooperative edilizie a contributo
statale (artt. 93, 94, 101 T.U. 28 aprile 1938 n. 1165), le cooperative di produzione
e lavoro ammesse ai pubblici appalti (art. 3 R.D. 12 febbraio 1911 n. 278) e,
per i consorzi, quelli costituiti nell'ambito della L. 25 maggio 1970 n. 364,
recante l'istituzione del Fondo di solidarietà nazionale (artt. 14, 15, 17 legge
cit.). Ma proprio il carattere eccezionale di tali espresse previsioni normative
ribadisce la regola generale dianzi enucleata, alla stregua della quale di regola
non è configurabile un diritto soggettivo dell'aspirante socio all'ammissione.
Nè in contrario varrebbe invocare il c.d. principio della "porta aperta"
affermato per le società cooperative: esso si riferisce alla semplificazione
delle procedure di ammissione ma non incide sul diritto di essere ammesso nel
sodalizio. La domanda di ammissione resta una proposta contrattuale che la società
- e per essa gli amministratori (art. 2525 cit.) - è libera di accettare o meno.
Se dunque (di regola ed a parte i casi espressamente previsti dalla legge) non
è ravvisabile una posizione soggettiva tutelabile (di diritto soggettivo o anche
d'interesse legittimo) per il terzo in ordine all'ammissione della società,
non può neppure essere configurato un diritto al risarcimento del danno per
lesione di tale supposta ma inesistente posizione soggettiva.
Nè esso potrebbe esser radicato sul disposto dell'art. 2395 c.c. che, in tema
di società per azioni, attribuisce il diritto al risarcimento del danno al socio
o al terzo che siano stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi
degli amministratori. La norma è applicabile anche in tema di società cooperative
per il richiamo operato dall'art. 2516 c.c., ma nella specie manca il fatto
costitutivo della pretesa risarcitoria in essa contemplata, non potendosi qualificare
illecita la condotta degli amministratori che, essendo liberi di accettare o
non accettare la domanda del Galli, si sono orientati negativamente (almeno
fino al 1983).
Il ricorrente, richiamando una sentenza di questa Corte (Cass., 3 giugno 1976
n. 2005), sostiene però che lo statuto della Cooperativa tartufi stabiliva che
l'aspirante socio, in caso di rigetto della sua domanda di ammissione da parte
del consiglio di amministrazione, poteva proporre reclamo ai probiviri sociali,
e ciò condurrebbe ad escludere l'attribuzione al detto consiglio di un potere
insindacabile di ammettere o non ammettere il nuovo socio (appunto perché quest'ultimo
avrebbe avuto il diritto di appellarsi ai probiviri). Ma la cooperativa mai
avrebbe comunicato il rigetto della domanda di ammissione avanzata da esso Galli,
laddove egli avrebbe avuto diritto alla comunicazione di tale rigetto: di qui
nascerebbe la pretesa risarcitoria azionata, essendo stato pregiudicato il suo
diritto di ricorrere all'organo di controllo.
Neppure codesta prospettazione può essere condivisa.
Non si può escludere, in linea di principio, che lo statuto di una cooperativa
sia articolato in modo tale da attribuire al terzo (aspirante socio), che chieda
di essere ammesso nel sodalizio, un vero e proprio diritto all'iscrizione nel
concorso di determinati requisiti, o - quanto meno - un diritto ad ottenere
una pronuncia espressa sulla domanda di ammissione. Si tratta di un problema
d'interpretazione contrattuale, da risolvere volta per volta secondo le circostanze
del caso concreto.
Non può però esser condiviso l'assunto del ricorrente, il quale sembra voler
sostenere la tesi secondo cui la sola previsione nello statuto sociale di un
meccanismo (interno) di reclamo avverso la decisione del consiglio di amministrazione
da un lato escluderebbe l'attribuzione a quest'organo di un giudizio insindacabile
e, dall'altro, farebbe sorgere in testa all'aspirante socio il diritto ad ottenere
una pronunzia espressa sulla sua domanda di ammissione nonché ad averne formale
comunicazione. La previsione statutaria di una procedura di reclamo avverso
un deliberato (o anche un comportamento omissivo) del consiglio di amministrazione
non significa di per sè che quest'ultimo sia obbligato a provvedere sulla domanda
di ammissione, ma può ben esaurirsi nella semplice individuazione di un secondo
momento valutativo, anch'esso del tutto libero (come il primo) e peraltro attivabile
dall'interessato (aspirante socio) anche in mancanza di una pronunzia espressa
del detto consiglio.
In altre parole - fermo il punto, dianzi illustrato, che il terzo aspirante
socio non vanta (al di fuori delle ipotesi legali) un diritto soggettivo ad
essere ammesso in una cooperativa - il Galli non può basare l'esistenza di un
suo diritto soggettivo su una previsione statutaria che, a quanto si desume
dalla sentenza impugnata e dallo stesso ricorso per cassazione, non vincolava
in alcun modo la libertà del sodalizio di accettare o meno la domanda di un
nuovo socio, rendendone obbligatoria l'ammissione in presenza di determinate
condizioni.
Quanto al richiamo agli artt. 3 e 4 della legge 17 luglio 1970 n. 568, alla
legge della Regione Umbria 2 maggio 1980 n. 38 e all'art. 4 della legge 16 dicembre
1985 n. 752, si deve in primo luogo notare che quest'ultima ha espressamente
abrogato la citata legge n. 568 del 1970 (art. 20
Conclusivamente, i primi due motivi del ricorso devono essere disattesi.
Con il terzo mezzo di cassazione il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione
dell'art. 2055 c.c., dell'art. 3 della L. 17 luglio 1970 n. 568 e della legge
regionale umbra n. 38 del 2 maggio 1980 (che richiama la cennata legge n. 568
del 1970) in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., nonché insufficiente e contraddittoria
motivazione su punto decisivo della controversia in relazione all'art. 360 n.
5 c.p.c.
La Corte territoriale avrebbe errato nel rigettare la domanda risarcitoria basata
sulla circostanza che la cooperativa, a mezzo dei guardiani della azienda Silvio
Pastorale, avrebbe impedito ad esso Galli di esercitare il suo diritto di raccogliere
i tartufi, benché provvisto di tesserino come raccoglitore, e ciò in violazione
dell'art. 2 della L. n. 568 del 1970 e della legge regionale del maggio
Tale interpretazione sarebbe inesatta, perché l'art. 3 della legge citata avrebbe
stabilito che la raccolta dei tartufi era libera nei boschi naturali e nei terreni
incolti, mentre i proprietari dei terreni potevano riservare la raccolta apponendo
dei cartelli a distanza di tre metri, distanza che, come emerso dalla prova,
non sarebbe stata rispettata; inoltre la cooperativa non sarebbe stata proprietaria
dei terreni ed i vari esposti di esso Galli avrebbero dimostrato l'irregolarità
di gestione della cooperativa medesima.
Tali censure non hanno alcun fondamento.
La Corte territoriale, pur rilevando che mancava la prova della riferibilità
alla convenuta cooperativa dei fatti lamentati dal Galli, ha tuttavia esaminato
tale profilo osservando che le disposizioni normative richiamate dal ricorrente
non gli attribuivano in alcun modo il diritto alla escavazione dei tartufi nei
terreni della società, onde legittimamente questa attività era stata impedita
allo stesso Galli, all'epoca non ancora socio della cooperativa in questione.
La suddetta proposizione è senz'altro corretta alla luce dell'art. 3 della L.
17 luglio 1970 n. 368 (NDR: così nel testo).
Questa norma definiva libera la raccolta dei tartufi nei boschi naturali e nei
terreni incolti, ma aggiungeva che il proprietario del terreno poteva riservarsela
con la semplice apposizione di cartelli posti ad almeno tre metri di altezza
dal suolo, lungo il confine, ad una distanza tale da esser visibili da ogni
punto di accesso. È chiaro che, quando il proprietario del terreno si era riservata
la raccolta dei tartufi, cessava la libertà del terzo di effettuarla nel terreno
medesimo. È altrettanto chiaro che le previsioni circa le modalità di apposizione
dei cartelli erano finalizzate ad assicurarne la visibilità ma non incidevano
certo sulla efficacia della praticata riserva e, quindi, sulla legittimità dell'impedimento
opposto alla raccolta ad opera di terzi. Che la cooperativa non fosse proprietaria
dei terreni è circostanza irrilevante se essa ne aveva la disponibilità in virtù
di un titolo legittimo, il che non è contestato e si traduce, comunque, in un
accertamento di fatto precluso nella presente sede di legittimità.
Quanto alle asserite irregolarità di gestione della cooperativa, a parte l'impossibilità
di dare ingresso in questa sede ad accertamenti di merito in proposito, non
si comprende quale rilevanza esse potrebbero avere per sostenere il diritto
(e la conseguente pretesa risarcitoria) vantati dal ricorrente.
Con il quarto mezzo di cassazione quest'ultimo deduce violazione degli artt.
29, 295 c.p.c. e dell'art.
Neppure questo motivo è fondato.
La sentenza impugnata - nell'esaminare la pretesa dell'appellante, secondo cui
il diritto alla escavazione dei tartufi (anche nei terreni della cooperativa)
comunque gli competeva in base agli usi civici derivanti dalla antica "transazione"
in data 30 luglio 1561, stipulata tra il municipio di Terni ed i castelli di
Appecano ed Acquasparta (v. pag. 6, punto 3, della sentenza medesima) - ha fatto
cenno ad un'altra causa, richiamata dall'attore nella citazione in primo grado,
che sarebbe stata pendente nei confronti della Regione Umbria davanti al Tribunale
di Terni; e sul punto ha ritenuto di poter decidere in via incidentale, sia
perché non v'era richiesta di pronuncia con efficacia di giudicato ex art. 34
c.p.c., sia perché rispetto all'altra causa non era ravvisabile litispendenza
o continenza, in quanto essa concerneva soggetti diversi (a parte le attribuzioni
in materia dei commissari di cui all'art.
Come si vede, dunque,
Nè è ravvisabile violazione degli artt. 29 e 295 c.p.c.; per questa parte, anzi,
la censura è addirittura inammissibile perché il Galli, dopo aver enunciato
le suddette norme, non dice neppur per accenni in quale parte dell'iter argomentativo
della Corte di merito andrebbe ravvisata la presunta violazione di legge.
Per il resto la sentenza impugnata afferma che il Galli non aveva titolo per
invocare l'antico atto del 1561, sia perché la "concessione" riguardava
gli abitanti dei castelli di Appecano ed Acquasparta (luoghi diversi dalla residenza
dell'attore), sia perché essa aveva ad oggetto il legnatico ed il pascolo e
non la escavazione di tartufi. Si tratta di apprezzamenti di fatto ai quali
il ricorrente si limita ad opporre una sua diversa prospettazione senza però
esplicitare le ragioni che dovrebbero dimostrare, sotto il profilo del vizio
di motivazione (unico deducibile in proposito), l'errore compiuto dalla Corte.
Il motivo in esame, dunque, non può trovare ingresso.
Infine, con il quinto mezzo, il Galli lamenta violazione degli artt. 345 e 213
c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., nonché motivazione omessa, insufficiente,
contraddittoria circa i mezzi istruttori da lui richiesti con l'atto di appello,
inerenti ad un punto decisivo della controversia. In particolare: a)
Le suddette doglianze non hanno fondamento.
Va premesso che, per costante giurisprudenza, il giudice di merito non è tenuto
a prendere in considerazione tutte le risultanze processuali e tutte le argomentazioni
delle parti, essendo sufficiente che indichi gli elementi del proprio convincimento,
dovendosi per implicito ritenere disattesi tutti gli altri rilievi e circostanze
che, sebbene specificamente non menzionati, siano incompatibili con la soluzione
adottata.
Ciò posto, si osserva: quanto al punto sub a) la sentenza impugnata, pur avendo
considerato non provati gli estremi per azionare nei confronti della cooperativa
la responsabilità solidale ex art. 2055 c.c., ha comunque esaminato la questione,
ritenendo infondata la pretesa dell'appellante "perché dalle disposizioni
di legge da lui citate non si ricava affatto il diritto del medesimo all'escavazione
di tartufi nei terreni della società, della quale non era all'epoca socio",
sicché "legittimo appare quindi l'avere impedito tale attività al Galli,
all'epoca non ancora socio". Tale ragionamento (che, come sopra si è visto,
si sottrae alle censure del ricorrente) rendeva evidentemente superflua una
prova diretta a dimostrare circostanze che, secondo l'accertamento della Corte
di merito, non costituivano un illecito, in quanto esso Galli non aveva diritto
a raccogliere tartufi nei terreni che erano nella disponibilità della cooperativa;
quanto al punto sub b)
Non sussistono, pertanto, le denunziate carenze di motivazione, in quanto le
circostanze cui esse sono riferite non avevano rilievo nel quadro della pronunzia
(rivelatasi corretta) adottata dalla Corte territoriale.
Conclusivamente, il ricorso deve essere respinto.
Nessun provvedimento va emesso in ordine alle spese giudiziali, poiché l'intimata
non ha spiegato attività difensiva.
Nulla per le spese.
Così deciso in Roma, il 30 settembre 1996, nella camera di consiglio della prima
sezione civile della Corte Suprema di Cassazione.