Cassazione civile, SEZIONI UNITE, 17 ottobre 1988, n. 5636


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati
Dott.    Renato            GRANATA                Pres. di Sez.
ff. di                                   Primo Presidente
Dott.    Franco            BILE                   Pres. di Sez.
"       Gaetano           LO COCO                     "
"       Giorgio           ONNIS                  Consigliere
"       Domenico          MALTESE                     "
"       Giuseppe          CATURANI                    "
"       Gentile           RAPONE                      "
"       Girolamo          GIRONE                      "
"       Renato            SGROI                  Rel. "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso iscritto il primo al n. 6160-87 del R.G. AA.CC., proposto
da
da
S.P.A. SUPERTRAVET COSTRUZIONI, in persona del legale  rappresentante
in carica, elettivamente domiciliata in Roma, Largo del Teatro  Velle
n. 6 presso lo studio dell'Avv. Leonardo Di  Brina,  rappresentata  e
difesa dall'avv.  Gustavo  Minervini,  giusta  procura  speciale  per
Notaio Consiglia Anna Grilletti di Serramanna dell'8 giugno  1987  n.
4127 di repertorio;
Ricorrente
contro
MELONE ANTONIO e MELONE VINCENZO, entrambi elettivamente  domiciliati
in Roma, Via Monte Zebio  n.  37  presso  lo  studio  dell'Avv.  Elio
Fazzalari, che li rappresenta e difende unitamente  all'Avv.  Antonio
Venditti, giusta delega a margine del controricorso;
Controricorrenti
e contro
SOC. in acc. sempl. FRATELLI MARIO E ANTONIO MELONE, in  persona  del
legale rappresentante in carica,
Intimata
E sul secondo  ricorso,  iscritto  al  n.  6316-87  del   R.G.AA.CC.,
proposto
da
MELONE ANTONIO e MELONE VINCENZO, entrambi elettivamente  domiciliati
in Roma, Via Monte Zebio  n.  37  presso  lo  studio  dell'Avv.  Elio
Fazzalari, che li rappresenta e difende unitamente  all'Avv.  Antonio
Venditti, giusta delega in calce al ricorso;
Ricorrenti
contro
S.P.A. SUPERTRAVET COSTRUZIONI, in persona del legale  rappresentante
in carica, elettivamente domiciliata in Roma, Lardo del Teatro  Valle
n. 6 presso lo studio dell'Avv. Leonardo Di  Brina,  rappresentata  e
difesa dall'Avv.  Gustavo  Minervini,  giusta  procura  speciale  per
Notaio Consiglia Anna Grilletti di Serramanna dell'8 Giugno  1987  n.
4127 di repertorio;
Controricorrente
E sul terzo ricorso, iscritto al n. 6362-87 del R.G.AA.CC., proposto
da
MELONE ANTONIO E MELONE VINCENZO, entrambi elettivamente  domiciliati
in Roma, Via Monte Zebio  n.  37  presso  lo  studio  dell'Avv.  Elio
Fazzalari, che li rappresenta e difende unitamente  all'Avv.  Antonio
Venditti, giusta delega in calce al ricorso;
Ricorrenti
contro
S.a.s. F.LLI  MARIO  E  ANTONIO   MELONE,   in   persona   dei   soci
accomandatari Antonio e Vincenzo Melone;
Intimata
Avverso la sentenza della Corte d'appello di Napoli -  depositata  il
31.3.1987;
Udita nella pubblica udienza, tenutasi il giorno 23 giugno  1988,  la
relazione delle cause svolte dal Cons. Rel. Sgroi;
Uditi gli avvocati Minervini, Fazzalari-Venditti;
Udito il Pubblico Ministero, nella persona del Dr.  evandro  Minetti,
Sostituto Procuratore Generale presso la Corte Suprema di Cassazione,
che ha concluso chiedendo: l'assorbimento del ricorso n.ro 6160-87, e
per i ricorsi nn. 6316-87 e 6362-87: il rigetto  del  secondo  motivo
del ricorso, l'accoglimento del primo  nonché  l'assorbimento  degli
altri.

Fatto

Con citazione notificata il 5 giugno 1981 la Supertravet Costruzioni S.p.A., quale socia accomandante della Soc. in acc. sempl. F.lli Mario ed Antonio Melone, con quota pari all'80% del capitale sociale, assumendo che i soci accomandatari Antonio e Vincenzo Melone (titolari ciascuno di una quota del 10%) si erano resi inadempienti ai loro obblighi di soci ed amministratori, impedendo ad essa accomandante l'esercizio del diritto di controllo ex art. 2320, terzo comma c.c., rifiutando di comunicarle o di farle conoscere i bilanci sociali a tutto il 1980, impedendo il funzionamento collegiale della società, non convocando l'assemblea dei soci per l'approvazione dei bilanci ed opponendosi a quelle da essa convocate, sosteneva che ciò arrecava danni alla società ed all'esponente e costituiva motivo di esclusione dei Melone dalla società, oltre che giusta causa di revoca degli stessi dalla carica di amministratori. Conveniva, pertanto, in giudizio Melone Antonio, Melone Vincenzo e la soc. a. s. Fratelli Mario ed Antonio Melone, innanzi al Tribunale di S. Maria C. V. per sentire: a) dichiarare esclusi dalla società i predetti soci; b) in subordine, revocare per giusta causa gli stessi dalla carica di amministratori e nominare un amministratore giudiziario; c) condannare i Melone a risarcire i danni cagionati alla società ed all'accomandante, da liquidare in separata sede.
I Melone, costituendosi in giudizio, chiedevano il rigetto delle domande e spiegavano, in via riconvenzionale, le seguenti domande (precedute dall'esposizione delle ragioni in fatto e diritto): a) dichiararsi la nullità dell'atto per notar Anni 30 novembre 1977, costitutivo della Soc. acc. sempl. "Fratelli Antonio e Mario Melone - Industria Laterizi e Calce" e della scrittura privata di pari data per l'illiceità dell'intero negozio, in particolare sotto il profilo della causa e dell'oggetto; b) in subordine, annullare detti atti per dolo; c) emettersi i conseguenziali provvedimenti di legge; d) in subordine dichiararsi esclusa l'accomandante della società ex art. 2320 c.c.; e) condannarsi
la Supertravet S.p.A. al risarcimento dei danni; g) in via subordinata, autorizzarsi la chiamata in causa del dr. G. La Sala.
Il Tribunale
, con sentenza 30 marzo 1983, rigettava la domanda attrice ed accoglieva la prima riconvenzionale, dichiarando la nullità del contratto costitutivo della s.a.s. Fratelli Mario ed Antonio Melone, per l'inammissibilità della partecipazione di una società di capitali ad una società di persone.
La Supertravet Costruzioni proponeva appello, a cui resistevano i Melone, proponendo appello incidentale subordinato, in relazione ai punti in cui i primi giudici avevano pronunciato in modo difforme dalle loro richieste.
Con sentenza 31 marzo 1987
la Corte d'appello di Napoli, in riforma dell'impugnata sentenza, revocava per giusta causa Antonio e Vincenzo Melone dalle funzioni di amministratori della soc. in acc. semplice "Fratelli Mario e Vincenzo Melone", assegnando a tale società, per la durata di anni uno e per il compimento di tutti gli atti di gestione già di competenza dei soci accomandatari un amministratore giudiziario; condannava Antonio e Vincenzo Melone al risarcimento dei danni cagionati alla società accomandante, da liquidarsi in separata sede; rigettava l'appello incidentale; compensava interamente fra le parti le spese del doppio grado.
I)
La Corte d'appello, richiamando la giurisprudenza della S.C. che nega l'ammissibilità della partecipazione di società di capitali a società di persone, osservava:
A) è dubbio che il contratto di società di persone sia caratterizzato da intuitus personae (inteso nel significato di fiducia esclusiva in una determinata persona); ciò aveva senso quando dalla morte di uno dei soci seguiva lo scioglimento della società, salvo il patto contrario (giusta gli abrogati codici) e non è giustificabile nella vigente legislazione che all'art. 2284 c.c. prevede come regola lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio, a meno che i soci superstiti intendano sciogliere la società (e salvo che non intendano, invece, continuarla con gli eredi del defunto);
B) l'intuitus (se esiste) non è caratteristica essenziale ed inderogabile, per cui le parti potrebbero anche prescinderne;
C) di intuitus si può parlare anche con riguarda ad enti (perchè vi sono molti contratti caratterizzati da intuitus personae, come l'appalto, che possono esser stipulati da una persona giuridica);
D) l'ipotizzata esistenza dell'intuitus verrebbe a coincidere con un rapporto fiduciario con gli altri soci (per la loro affidabilità, solvibilità, etc.) e non v'è ragione per negare che tale fiducia possa essere risposta anche nei confronti di una società di capitali che fornisca affidamento di serietà, di organizzazione, di buona amministrazione e solidità patrimoniale: caratteristiche, queste, che attraverso la constatazione di tradizioni di correttezza ed integrità possono rimanere costanti nel tempo, sì da consentire una loro individuazione nell'esame di un abituale modo di operare dei loro organi sociali (i quali, in quanto persone fisiche, possono render possibile quella collaborazione personale ritenuta essenziale nell'organizzazione della collettiva);
E) la supposta necessità dell'intuitus non può sovrapporsi alle scelte operate dai contraenti in piena autonomia, con un apprezzamento che investe se risponda o non alle esigenze dell'attività comune, su base personale, l'evenienza di possibili mutamenti dei soci nelle società di capitali o delle persone impegnate nella gestione sociale;
F) l'affectio societatis è una formula vuota di contenuto. Nei casi fisiologici può esserne destinataria anche una società di capitali con una reputazione acquisita (specie se trattasi di una società a carattere prevalentemente familiare o su ristretta base azionaria). Nei casi patologici - per disarmonia originata da discordie anche fra soci persone fisiche - all'affectio viene a sostituirsi una disaffezione, senza alcuna conseguenza sullo scioglimento del rapporto.
G) L'affermazione dei primi giudici che non può ammettersi elusione della responsabilità personale ed illimitata del socio sotto il profilo della finalità (supposta con la remora dell'estensione di quella responsabilità) di garantire con la condotta personale del socio (che rischia nell'impresa i suoi beni) sia adeguata agli interessi coinvolti nell'azione sociale, viene superata considerando che a) la limitazione della responsabilità che caratterizza la società di capitali è relativa al rapporto interno fra i soci e la società la quale, invece, nei rapporti esterni è illimitatamente responsabile verso i terzi con tutto il suo patrimonio; b) non può compiersi un'apprezzabile distinzione fra operato della persona fisica socio e delle persona giuridica socio, tanto più che sull'attività spesa dagli amministratori di quest'ultima grava la remora della responsabilità personale per i danni nei confronti della società, dei creditori sociali, dei soci e dei terzi; c) il nesso fra responsabilità illimitata e potere di amministrazione nelle società personali non è necessario, come è dimostrato dal caso dell'accomandante che è un socio a responsabilità limitata privo di poteri di gestione; d) nè sul piano delle responsabilità, nè sul piano dell'intuitus personae esistono ragioni per negare la partecipazione di società di capitali a società personali in veste di socio limitatamente responsabile e di accomandante in specie; e) resta precluso un coinvolgimento organico e permanente del patrimonio della società di capitali che abbia assunto la veste di accomandante, poiché anche la violazione del divieto di immistione costituisce un evento eccezionale, in relazione al quale gli amministratori assumono le responsabilità previste dagli artt. 2392-2395 c.c.
H) Sul punto concernente i pretesi impedimenti derivanti dalla disciplina inderogabile delle società di capitali con riguardo all'impossibilità di sottrarre ai controlli cui è sottoposta l'amministrazione di tali società quella parte di patrimonio investito nella società personale (o addirittura l'intero patrimonio della società di capitali), in presenza dell'art. 2361 c.c. e degli artt. 2424 e 2425 c.c., è da escludere che possa aversi perdita, per la società di capitali, delle garanzie organizzative e funzionali proprie del suo ordinamento, sia nell'ipotesi di partecipazione ad altra società di capitali, sia in quella di partecipazione ad una società di persone.
I) La possibilità - riconosciuta dalle S.U. con sentenza n. 6594-81 - che sia applicato l'art. 2362 anche nell'ipotesi in cui una società di capitali detenga l'intero pacchetto azionario di altra società stronca - ad avviso della Corte d'appello - ogni discussione in proposito, data la similitudine dei rischi incidenti direttamente sul patrimonio sociale e, indirettamente, sul sistema dei controlli previsti dall'ordinamento (anche statutario), sia nel caso di partecipazione di società di capitali a società di persone, sia in quello in cui la prima sia unico azionista o unico quotista di altra società di capitali.
L) Il rischio della partecipazione assunto con delibera degli organi statuari non sarebbe diverso da quello assunto in qualsiasi altro affare in cui la società di capitali venga esposta alle vicende di altra società (per es., in caso di prestata fideiussione); e la questione della delegazione ad altri (che non sia l'amministratore della S.p.A.) del potere di gestire indirettamente l'intero patrimonio della stessa non può sostanzialmente dirsi diversa (nelle conseguenze) da quella risolta dalle SS.UU. con la sentenza citata.
M) In ordine all'osservazione dei primi giudici che "per eliminare la possibilità che il patrimonio dell'anonima sia completamente coinvolto in conseguenza della gestione con le regole delle società personali bisognerebbe escludere senza una concreta base logico-giuridica che la società di capitali possa esser socio con poteri di amministrazione", la sentenza impugnata ha rilevato che la compressione dell'autonomia degli interessati può giustificarsi fin tanto che sussista un'incompatibilità o inconciliabilità delle normative delle società di persone con quella che ivi si innesterebbe attraverso la partecipazione di altra società. Escluso che ciò si verifichi (solitamente) sul piano della responsabilità nell'ipotesi di assunzione delle veste di accomandante (dato che la violazione del divieto di immistione è un evento anomalo), l'inconciliabilità non è più configurabile. Secondo
la Corte d'appello, non può definirsi abnorme ente sociale la società in accomandita in cui una società di capitali è accomandante, ove risultino rispettati i distinti ruoli di accomandatario ed accomandante e a quest'ultimo siano riconosciuti poteri sociali maggiori che al socio di società di capitali, ma pur sempre di controllo o di limitato intervento.
N)
La Corte di Napoli ha dissentito dal rilievo del Tribunale che con la partecipazione suddetta potesse eludersi la responsabilità illimitata, in quanto due società di capitali, con capitali irrisori, potrebbero costituire una società di persone priva di patrimonio che risponderebbe delle obbligazioni sociali in materia predeterminata, in contrasto con gli artt. 2291 e 2318 c.c., perchè siffatto rischio sussiste in tutti i casi in cui venga costituita una società di persone con soci nullatenenti che fungono da prestanomi dei vari interessati.
O) Manca nel nostro ordinamento una norma che vieti la suddetta partecipazione; l'art. 2247 c.c. indica gli stipulanti col termine "persone" che è idoneo a designare anche le persone giuridiche, essendo prevista dall'art. 2532 c.c. la partecipazione di persone giuridiche alle società cooperative (che per il loro carattere mutualistico dovrebbero riguardare solo persone fisiche), a maggior ragione non è preclusa la partecipazione di una persona giuridica ad altra svolgente attività lucrativa.
P) Quanto all'argomento secondo cui la legge detta per le società di persone norme non applicabili alle società di capitali che di quelle siano socie (artt. 2257 - 2258; art. 2285), esso prova troppo in quanto anche per i soci di società di capitali la legge detta talora norme che non sono applicabili a società di capitali che siano partecipi, a loro volta, come socie, di altre società di capitali, mentre quella partecipazione è pacificamente consentita. Inoltre, quand'anche vi possano essere norme applicabili alle persone giuridiche socie, non sono norme essenziali.
Q) Nè ha consistenza - secondo
la Corte d'appello - il timore che la partecipazione di cui si discute possa rivelarsi strumento indiretto di elusione del principio della responsabilità personale di coloro che operano nella società trova tutela nella responsabilità dei partecipanti della persona giuridica, che va affermata ogni volta non sia emerso all'esterno con chiarezza che essi abbiano agito in tale equità. neppure persuasivo è il rilievo che la società di capitali possa ridurre il proprio capitale, danneggiando i creditori della società di persone alla quale partecipa, per la possibilità di opporsi ex art. 2245 c.c.
Alla stregua delle suesposte considerazioni,
la Corte d'appello - rilevato che la partecipazione di una società di capitali, in veste di accomandante ad una società in accomandita semplice, non è vietata - riteneva valida la partecipazione della Supertravet Costruzioni S.p.A. (quale accomandante) alla "F.lli Mario ed Antonio melone s.a.s.
II )
La Corte respingeva la domanda di nullità del contratto di costituzione della "Fratelli Mario ed Antonio Melone s.a.s. per mancata sottoscrizione dell'atto notar Anni del 30 novembre 1977 da parte del rappresentante della Supertravet Costruzioni S.p.A., non ritenendo necessaria la forma scritta ad substantiam nell'atto di trasformazione della precedente società in nome coll. in s.a.s. e nell'atto di ammissione di un nuovo socio in veste di accomandante.
III )
La Corte rigettava anche al domanda di annullamento del contratto per dolo della Supertravet, la domanda di risoluzione per inadempimento di quest'ultima, nonché la domanda dei Melone volta ad ottenere il ristoro dei danni.
IV )
La Corte esaminava, poi, le domande avanzate dalla Supertravet con l'atto introduttivo ed accoglieva quella di revoca per giusta causa dei fratelli Melone dall'attività di amministratori, per il sistematico rifiuto dei predetti di comunicare o far conoscere all'accomandante i bilanci sociali; ma respingeva quella diretta all'esclusione dei soci accomandatari dalla società, in quanto la suddetta inadempienza non incideva sul raggiungimento degli scopi della società.
V ) Infine,
la Corte accoglieva la domanda di condanna generica dei Melone ai danni subiti dalla Supertravet; ma respingeva - per difetto di legittimazione - quella di risarcimento dei danni subiti dalla S. in accomandita semplice.
Avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso la soc. Supertravet ed Antonio e Vincenzo Melone. I ricorsi sono stati notificati alla società in acc. sempl. Fratelli Melone, che non ha svolto attività difensiva. Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

I ricorsi devono essere riuniti, ai sensi dell'art. 335 c.p.c. È logicamente preliminare l'esame del primo motivo del ricorso dei Melone, con il quale essi denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1343, 1344, 1418, 2249, 2313 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c. (anche per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione) per avere la sentenza impugnata ritenuta valida la partecipazione della soc. per az. Supertravet quale socia accomandante della soc. in a.s. F.lli Melone, senza osservare il principio costantemente affermato dal S.C. secondo cui tra le società di capitali e le società di persone sussiste una tale incompatibilità ontologica e di struttura da escludere in radice la possibilità che una società a base capitalistica possa far parte di una società a base personale.
Risulterebbe, infatti, una figura ibrida di una società allo stesso tempo di capitali e di persone con un'inammissibile commistione fra due regimi in relazione sia all'adempimento delle obbligazioni sociali sia in generale all'amministrazione dell'ipotizzata società.
Ad avviso dei ricorrenti, la suddetta giurisprudenza è rivolta a reprimere contratti in frode alla legge (illiceità della causa: art.
1418 in relazione agli artt. 1343 e 1344 c.c.), per impedire che norme interpretative inderogabili siano violate od eluse dalla società per azioni mediante l'espediente (invalido e nullo) di farsi socia di una società di persone. La Corte d'appello ha violato e falsamente applicato le anzidette norme, ha erroneamente cancellato l'incompatibilità fra le due forme d'esercizio dell'impresa ed ha finito col dare validità ad una forma societaria integrante ipotesi di frode alla legge, richiamandosi al principio di autonomia privata.
Secondo i ricorrenti, nella motivazione esiste contraddittorietà, dato che
la Corte d'appello non contesta l'inderogabilità (a tutela degli interessi di terzi ed indisponibili dai soci) delle norme attinenti alla disciplina fondamentale delle S.p.A. La partecipazione dietro lo schermo della società di capitali (per giunta nella specie totalmente sprovvista di attivo) costituisce espediente mediante il quale un singolo individuo mira ad utilizzare in proprio favore la società di persone, senza però assoggettarsi a responsabilità personale. Infatti, nella specie la composizione della S.p.A. è la seguente: metà delle azioni al geom. Pisano, l'altra metà alla soc. a r.l. Marcello Pisano; il capitale è di Lire 1.000.000; il bilancio 1977 accerta una perdita di oltre quattro milioni; nel novembre 1977 si dimette il fondatore ed amministratore unico Raffaele Dessì e gli succede M. Pisano: circostanze decisive dalla Corte ignorate.
Infine, secondo i ricorrenti, non è decisivo riferirsi alla limitazione di responsabilità dell'accomandante perché essa è e resta una responsabilità personale del socio; essa è poi idonea a diventare una responsabilità illimitata ex art. 2320 c.c. La nullità della partecipazione della società di capitali resta, in questo come negli altri casi (socio di società in nome collettivo; accomandatario) immodificata, come resta identica l'esigenza di tutela e la soluzione del problema mediante la sanzione di nullità (per non premiare la frode), senza introdurre "distinguo" che consentirebbero di evadere la sanzione.
Il motivo è sostanzialmente fondato, anche se non tutte le prospettazioni da esso svolte possono condividersi.
È noto che il problema non è nuovo, ma nei termini in cui si pone nella presente controversia non è stato mai espressamente affrontato da questa Corte, la quale (a prescindere dai casi nei quali ha considerato il fenomeno come mero dato fattuale nell'ambito di una fattispecie imponibile: cfr. Cass. 21 giugno 1984 n. 3667, fra le altre) ha sempre esaminato ipotesi si partecipazione di una società di capitali ad una società di fatto. Il problema va pertanto riconsiderato, sia per verificare se (tutti) i principi già più volte affermati da questa Corte per quelle ipotesi siano estensibili al caso di partecipazione ad una società in accomandita semplice, e ciò anche alla luce della recente legislazione sull'editoria, nonché delle modifiche (già introdotte o in fieri) dell'ordinamento interno alla stregua delle direttive comunitarie.
Va fatto un avvertimento preliminare di carattere terminologico: l'espressione "ammissibilità" (con riguardo alla partecipazione di cui si tratta, nelle varie possibili ipotesi) e quella contrapposta "inammissibilità", non hanno un significato tecnico preciso, ma sono il semplice presupposto descrittivo al fine della ricerca del trattamento riservato dall'ordinamento a quella partecipazione; trattamento che potrà spaziare dall'irrilevanza della figura soggettiva del titolare della partecipazione, al fine di una valida configurazione della società partecipante e di quella partecipata, al riconoscimento dell'esistenza di semplici "clausole atipiche" non incidenti sul tipo societario, alla violazione di norme imperative ovvero, infine, alla frode alla legge, con conseguente nullità (di cui poi si dovranno delimitare i confini e le conseguenze). Raccolti i dati significativi nell'ambito della ricerca delle norme che dovrebbero applicarsi alla partecipazione di cui si discute, e stabilito se alcune norme siano o meno compatibili con quella partecipazione, il discorso dovrà passare dal livello della compatibilità (o ammissibilità) a quello del trattamento riservato dall'ordinamento al fenomeno. Per i fini che interessano il presente ricorso, dato che il suo accoglimento dipende esclusivamente da una conclusione nel senso della nullità, non sono rilevanti quei dati in forza dei quali alcune norme proprie della disciplina dei diversi tipi di società siano inapplicabili (per semplice incompatibilità), se non possa contemporaneamente affermarsi una nullità dell'intera fattispecie (o di alcuni suoi aspetti).
In base a tale premessa, deve condividersi l'ampia motivazione della Corte d'appello secondo cui gli argomento basati sul c.d. "intuitus personae" e sull'affectio societatis sono irrilevanti, per una ragione assorbente: che, cioè, anche ammessa l'esistenza di una varietà di atteggiamenti dei suddetti principi nell'ambito delle discipline rispettivamente delle società di capitali e della società di persone, si tratterebbe di una varietà che non è correlata con norme inderogabili ed imperative ovvero contenenti requisiti di validità di quei tipi, stante il carattere meramente generico e descrittivo degli stessi principi, per cui si manifesta l'assoluta irrilevanza di essi, ai fini dell'affermazione della pretesa nullità (cfr. gli argomenti riassunti in narrativa sub A), B), C), D), E, F)).
La medesima conclusione deve adottarsi in ordine all'argomento sub P): la circostanza che alcune norme della disciplina delle società di persone non possano applicarsi quando ad essa partecipi una società di capitali, si esaurirebbe - appunto - nella loro inapplicazione, ma è irrilevante al fine di sancire una nullità, che comporta una contrarietà alla legge, al di là della sua inapplicabilità (il riferimento è agli artt. 2257-2258, 2285, seconda ipotesi; 2284;
2286, in alcune ipotesi).
Nell'esame degli altri argomenti (che sono, in verità, quelli fondamentali addotti dall'uno o dall'altro orientamento) deve premettersi che le sentenze in cui questa Corte ha da ultimo riaffermato in maniera più diffusa (perché in altre si tratta di un semplice richiamo al principio, come in Cass. 19 novembre 1981 n. 6151) l'inammissibilità della partecipazione (Cass. 9 dicembre 1976 n. 4577 e 28 gennaio 1985 n. 464) espongono le seguenti ragioni: a) impossibilità di configurare, nei confronti della società di capitali, quell'intuitus personae e affectio societatis su cui si regge il vincolo associativo nelle società di persone; b) differente regime della responsabilità in ordine all'adempimento delle obbligazioni sociali; c) contrasto che, nell'amministrazione del nuovo ed abnorme ente sociale verrebbe a determinarsi con la normativa dettata per la società azionaria, dove la legge riserva inderogabilmente agli amministratori la gestione del patrimonio sociale, mentre - ammettendosi la partecipazione ad una società di persone e a fortiori di fatto, priva di ogni garanzia di pubblicità, il patrimonio verrebbe fatalmente gestito, almeno in parte, da soggetti diversi, e, quindi, sottratto ai controlli predisposti per l'amministrazione della società di capitali.
Alla stregua della premessa qui esposta, è evidente che soltanto l'argomento sub c) può essere ritenuto decisivo, perché soltanto in base ad esso si configura un contrasto con una normativa e cioè una violazione di legge che può produrre una nullità.
Dell'irrilevanza sub a) si è già detto supra. Quanto all'argomento sub b), da tempo è stato fondatamente obiettato che anche le società di capitali, per le obbligazioni contratte, rispondono con l'intero loro patrimonio, per cui non vi è alcuna differenza di trattamento fra la persona fisica titolare di una partecipazione (quota) in una società di persone e la società di capitali titolare di un'altra partecipazione.
Con particolare riguardo - poi - all'ipotesi dell'accomandante, è evidente che la limitazione di responsabilità "limitatamente alla quota conferita (art. 2313 c.c.)" riguarderebbe l'accomandante persona fisica e l'accomandante società per azioni, in egual modo.
Merita, invece, di essere seguito o sviluppato l'argomento sub c). Superate le dottrine formatesi nel vigore del codice di commercio abrogato in tema di "sovranità" dell'assemblea della società per azioni, è comunemente recepito ora l'orientamento secondo cui l'assemblea e gli amministratori sono organi con competenze proprie e che, mentre l'assemblea ha una competenza "speciale" in base a norme di legge e di statuto, gli amministratori hanno una competenza generale e sono organi necessari, che non possono delegare permanentemente ad altri tutte le proprie attribuzioni, così come l'assemblea non potrebbe nominare propri mandatari, per scavalcare gli amministratori.
Correlativamente alle suddette attribuzioni proprie, gli amministratori sono soggetti ai controlli del collegio sindacale (art. 2403) e dell'Autorità giudiziaria (art. 2409 c.c.), nonchè alle responsabilità ex artt. 2392-2395 c.c. Il sistema è strutturato in modo che gli amministratori, che detengono i poteri di gestione (e, sostanzialmente, il "comando") della società siano soggetti a regole che mirano ad assicurare la tutela dell'integrità del patrimonio sociale, nell'interesse dei soci e dei creditori, per cui non appare dubbio che le regole sull'amministrazione delle società per azioni costituiscono, nel loro complesso, norme imperative. Ammettendo la partecipazione della società per azioni in una società di persone, si avrebbe la conseguenza che la parte di patrimonio investita in quella partecipazione verrebbe sottratta a quelle regole, per essere amministrata degli amministratori delle società di persone, non soggetti a quei controlli. L'obiezione secondo cui anche nel caso di partecipazione in altra società per azione (o società di capitali, comunque, che è espressamente prevista dalla legge) si avrebbe quel "trasferimento di potere gestorio" riguardo al patrimonio investito nella partecipazione, non tiene conto della circostanza che le regole applicabili a tale amministrazione sarebbero identiche a quelle che si applicano nella società partecipante, che di riflesso verrebbe così tutelata; e ciò anche quando la società partecipata fosse una società a responsabilità limitata, per effetto degli artt. 2487 e 2488 c.c. che quelle regole recepiscono quasi completamente. L'identità di disciplina è la base razionale dell'espressa previsione di legge, la quale va interpretata su tale presupposto.
Non decisiva è l'altra obiezione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui la delega dell'amministrazione della partecipazione (ed il rischio che ne consegue) non sarebbero diversi da quelli relativi a qualsiasi negozio impegnativo di tutto il patrimonio (per esempio, una fideiussione a favore di una società di persone): invero, il singolo negozio è deciso e gestito dagli organi sociali competenti, per cui soltanto dal punto di vista economico la situazione può considerarsi identica; è invece netta la differenza di disciplina giuridica, in quanto la decisione di impegnare il patrimonio sociale in una fideiussione è soggetta ai già richiamati controlli sull'amministrazione delle società di capitali, mentre i suddetti controlli sarebbero vanificati nell'altro caso. In proposito si possono fare due ipotesi.
La prima è che la società partecipante e gli amministratori della società partecipata (come è accaduto nel presente caso) si trovino in conflitto fra di loro, perché facenti capo a centri di interesse che non intendono collaborare. In tal caso, le eventuali irregolarità commesse dagli amministratori della partecipata non sarebbero soggette a quei controlli nè direttamente (perché alle società personali essi non si applicano) nè indirettamente (perchè non si può far carico agli amministratori della partecipante di una culpa in vigilando di cui non sussisterebbero il fondamento, stante l'autonomia fra le due compagini sociali). La conseguenza sarebbe quella dell'impossibilità di controllare la retta gestione della partecipazione sociale, ex art. 2403-2409.
L'altra ipotesi è quella nella quale gli amministratori della società personale partecipata siano persone di fiducia degli amministratori della azionaria partecipante, i quali, per le ragioni già esposte, si sottrarrebbe per la loro volontà a qualsiasi controllo e responsabilità, stante l'esclusiva riferibilità degli atti di amministrazione ai primi.
Una delega permanente delle funzioni di amministrazione della partecipazione sociale è accentuata proprio nel presente caso che (secondo la sentenza impugnata, che richiama una nota dottrina) invece si sottrarrebbe alle obiezioni fondate sulla incompatibilità di disciplina fra società personali e società di capitali. Invero, la partecipazione della società per azioni in qualità di accomandante comporta che la prima non amministra (art. 2318 secondo comma) e, in via normale, non deve ingerirsi nell'amministrazione (art. 2320 c.c.). Tale situazione comporta il superamento dell'argomento tradizionale della diversità di regime di responsabilità (sub b), e cioè di un argomento irrilevante, mentre fa risaltare l'argomento sub c) e cioè la dissociazione fra i poteri di amministrazione e l'impegno del capitale sociale nell'esercizio dell'impresa, che nella società per azioni non è ammessa. Non si ritiene corretta una distinzione basata sulla totalità o parzialità dell'impegno del capitale della società per azioni nella partecipazione di cui si tratta, allo scopo di sostenere che soltanto nel primo caso si avrebbe un assoggettamento (vietato) del capitale dell'azionaria alle regole gestorie della società personale. Invero, la distinzione non potrebbe mai essere netta: come si dovrebbe trattare, infatti, una partecipazione quasi totalitaria? L'impegno del 99 per cento del capitale nella veste di accomandante non si vede perché dovrebbe trattarsi in modo diverso dall'impegno del 100 per cento, nell'ambito della violazione delle regole inerenti alla sua amministrazione.
Un secondo - e non meno rilevante - argomento che dimostra che la partecipazione di cui si tratta è contraria a norme imperative, perché pone in essere un negozio costitutivo di una organizzazione dell'esercizio dell'impresa in modo non conforme a norme imperative di legge, è dato dalla disciplina dei bilanci, ex artt. 2423 e ss. c.c. (artt. 2491 - 2493 per le società a resp. lim.).
L'art. 2424 comma 1 n. 10, mod. dall'art. 17 d.p.r. n. 30 del 1986, elenca, come voce dell'attivo, le partecipazioni; l'art. 2425 al n. 4 detta i criteri di valutazione delle azioni; l'art. 2425 al n. 5 dispone: "le partecipazioni non azionarie devono essere valutate per un importo non superiore a quello risultante dalle imprese alle quali si riferiscono". L'art. 2425-bis (aggiunto dalla l. 216-74) al n. 3 e 4 indica i dividendi delle partecipazioni.
Non si è mancato di osservare (come ha statuito la sentenza impugnata) che le suddette norme sarebbero la conferma positiva e letterale dell'ammissibilità della partecipazione in società personali (fatta salva l'incompatibilità di alcune norme non essenziali: vedi supra, sub p), dal momento che la legge non solo non limita (nell'art. 2424) le partecipazioni a quelle di altre società di capitali, ma all'art. 2425 elenca addirittura le "partecipazioni non azionarie" (fra le quali agevolmente potrebbero comprendersi quelle in società personali) ed all'art. 2425 bis distingue, nel conto dei profitti, i dividendi a seconda che derivino in partecipazioni in società controllate e collegate ovvero in altre società, e cioè utilizza un criterio discriminante che (di nuovo) non appare letteralmente limitativo sotto il profilo del "tipo" della società partecipata, potendo nella dizione usata comprendersi qualsiasi tipo di cui all'art. 2249 e norme da esso richiamate. Anche il limite, posto dall'art. 2361 alle partecipazioni, non fa alcun riferimento al "tipo" di società.
La conclusione suddetta, ad avviso del Collegio, sarebbe affrettata già per la buona ragione che, se la questione fosse risolta espressamente dalla legge delle norme citate, non si capirebbe perché ha diviso la dottrina e la giurisprudenza da molti decenni: la verità è che quelle norme non offrono un sicuro indice testuale per la soluzione del problema, perché vanno a loro volta interpretate nel loro significato e nella loro portata, inserendole nel sistema del quale fanno parte.
Ammettendo la partecipazione in società personali, proprio nell'ambito della disciplina del bilancio (che indubbiamente è imperativa e che costituisce un momento essenziale e caratterizzante del "tipo" di società di capitali) si aprirebbe un contrasto interno di regole, tali da porre in serio pericolo l'osservanza del principio fondamentale della chiarezza e precisione (art. 2423 c.c.).
I soggetti (soci e creditori) a tutela del quale quel principio è posto non potrebbero conoscere il bilancio ed il conto profitti e perdite della società di persone, la cui attività influisce in maniera determinante sul patrimonio della società di capitali, che subisce gli incrementi o decrementi derivanti dall'attività d'impresa della società di persone. Infatti, il bilancio ed il conto profitti e perdite di quest'ultima non sarebbe depositato in Tribunale nè pubblicato nel B.U.S.A. R.L.
I criteri prudenziali di cui ai numeri 4 e 5 dell'art. 2425 c.c. si esaurirebbero nell'indicazione di una mera posta riassuntiva, e cioè di un risultato finale del quale sarebbero ignote le varie poste ed il loro svolgimento; verrebbero a mancare totalmente le indicazioni, ben più analitiche, che sarebbero risultate se il bilancio della società partecipata fosse soggetto alle medesime norme di quello della partecipante società di capitali. In questo secondo caso, infatti, il bilancio ed il conto profitti e perdite della partecipata sarebbero conoscibili nel loro svolgimento analitico, ed integrerebbe la conoscenza di quelli della partecipante.
La conseguenza pratica di quanto si è osservato (a parte un altro profilo che si esaminerà quando sarà discusso l'argomento tratto dall'art. 2362 c.c.) è che, mediante la partecipazione di cui si discute, la società azionaria sottrarrebbe tutta, ovvero una frazione della propria impresa (a seconda che tutto, ovvero una parte del suo capitale sia investita in quella partecipazione) ai controlli apprestati dalla legge in tema di bilanci. Dal punto di vista giuridico, quella partecipazione si convertirebbe nella possibilità di non osservare (totalmente o parzialmente) quei controlli, quella pubblicità e gli stessi criteri di cui agli artt. 2423 e ss. c.c. Poiché la legge non può "autorizzare" una violazione di se stessa (può soltanto apportare deroghe ai suoi comandi), si deve concludere per un'altra soluzione: per non rendere istituzionale la violazione dei principi sui bilanci sulle società per azioni, è da ritenere esistente il divieto della sua partecipazione ad una società di persone. È evidente che il problema andrebbe rimeditato alle luce di eventuali modifiche (in aderenza direttive o proposte di direttive della C.E.E., in G.U.C.E. n. 144 dell'11 giugno 1986) volte a stabilire sui bilanci il principio dell'estensione delle norme sui bilanci concernenti le società sui capitali alle società personali partecipate dalla prime. Allo stato della legislazione, pare al Collegio, invece, che la soluzione indicata sia quella obbligata, non senza rimarcare il collegamento col precedente argomento, posto che il bilancio (pur acquistando rilevanza giuridica solo con l'approvazione da parte dell'assemblea) è redatto dagli amministratori (art. 2423 primo comma), per cui anche sotto questo profilo la partecipazione di cui si discute svuoterebbe le loro competenze, sottraendo loro, sostanzialmente, ogni possibilità di controllo della gestione contabile del capitale investito nella partecipazione, al di fuori di quello che è il "risultato riassuntivo finale" di una gestione svolta in altra sede.
Le suddette conclusioni permettono di leggere gli articoli già citati senza forzare la loro lettera. L'art. 2424 prima parte n. 10 usa la parola "partecipazione" e niente esclude che essa possa intendersi nel senso limitativo anzidetto. L'art. 2425 n.
5, a proposito delle partecipazioni "non azionarie" può riferirsi a società per azioni che hanno deliberato di non emettere azioni (art. 5 r.f. 29 marzo 1942 n. 239) ovvero a società a responsabilità limitata. L'art. 2425 bis, con la parola "dividendi", si attaglia perfettamente agli utili delle società di capitali. Infine, l'apparente vastità della dizione "partecipazione in altre imprese" (art. 2361 c.c.) non esclude che a - parte il limite ivi espresso, rivolto ad evitare modificazioni tacite e informali dell'oggetto sociale - esistano, in base al sistema, altri limiti.
Si può anche citare la norma (espressamente ammissiva della partecipazione alle società cooperative) dell'art. 2532 c.c. non come conferma di un implicito principio generale conforme, ma come disposizione speciale, coerente con la norma estensiva a quelle società della disciplina delle società per azioni (art. 2516 c.c.) secondo la prospettazione della partecipazione postula una tendenziale uniformità di disciplina della partecipante e della partecipata, per quanto riguarda in special modo la figura degli amministratori e la normativa inerente ai bilanci.
Nella sentenza impugnata viene citata la recente giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. un., 14 dicembre 1981 n. 6594 e 24 febbraio 1986 n. 1088) che ammette l'applicabilità della responsabilità illimitata ex art. 2362 c.c. anche quando tutte le azioni di una società appartengono ad un'altra società per azioni; ma non pare che quell'orientamento abbia riflessi sul problema che si sta qui esaminando. In primo luogo, con riguardo alle normative che qui sono state ritenute risolutive, si avrebbe un'applicazione delle stesse ed entrambe le società (la partecipante e la partecipata). In secondo luogo, l'argomento basato sul preteso "diverso regime di responsabilità" è stato abbandonato. Inoltre, mentre si vorrebbe istituzionalizzare la possibilità della partecipazione alla società di persone, la norma dell'art. 2362 è invece eccezionale.
Infine, l'art. 2362 c.c., oltre che ispirato al fine di evitare l'utilizzazione della società di capitali da parte di un unico soggetto come mezzo per sottrarre il proprio patrimonio alla responsabilità illimitata ex art. 2740 c.c., o (come altri ha detto) di evitare l'esercizio dell'impresa unipersonale sotto forme sociali, risolve il problema della tutela dell'affidamento dei creditori sociali che abbiano fatto credito alla società, sapendo (o potendo sapere) che la compagine sociale era composta da un unico socio, che poteva quindi disporre del patrimonio sociale. Ciò risulta dal testo della norma, che non offre tutela ai creditori che hanno stretto rapporti con la società prima che le sue azioni confluissero in unica mano, ma solo quelli che li hanno stretti durante quel periodo. La ratio della tutela dei creditori sociali non si ritroverebbe nel caso in cui si ammettesse la partecipazione alla società di persone. Invero, i creditori di quest'ultima verrebbero anzi preferiti a quelli della società di capitali (titolare di una sua quota), perché il valore di quella quota è quella risultante "al netto" dei debiti verso i creditori della società di persone. In altri termini, i creditori della società di capitali subirebbero il concorso dei creditori della società di persone, sul patrimonio della prima.
Per soddisfare le loro ragioni sul patrimonio della società di persone, i creditori della società di capitali non avrebbero altra via che quella di "aggredire" soltanto gli utili versati alla partecipante, determinati dopo il soddisfacimento dei creditori della società di persone. Sembra, quindi, che la ratio dell'art. 2362 c.c., anche nella sua elaborazione giurisprudenziale più recente, non abbia nulla a che vedere con la soluzione del problema in esame.
Per completare l'esposizione dei dati testuali, deve esaminarsi l'art. 1 legge 5 agosto 1981 n. 416, sull'editoria, che - dopo aver elencato i soggetti che possono essere titolari di imprese editoriali, dispone: "Agli effetti della presente legge le società in accomandita semplice debbono in ogni caso essere costituite soltanto da persone fisiche". È evidente che la lettura della norma (sotto il profilo qui esaminato) può essere duplice: a) conferma di un principio generale; b) eccezione ad una normativa generale per le sole società in accomandita. Si ritiene più esatta la prima interpretazione.
In base alla seconda tesi, poiché la società in nome collettivo (che possono essere titolari di imprese creditrici, a norma del comma precedente) non sono espressamente menzionate, esse dovrebbero essere regolate da una norma generale già esistente nell'ordinamento la quale dovrebbe essere conforme a quella espressa dalla legge del 1981, e cioè dovrebbe essere nel senso dell'inammissibilità della partecipazione. Invero, poiché (sempre ai fini dell'esigenza di trasparenza nell'assetto proprietario che è proprio della legge sull'editoria) sarebbe assurdo trattare in modo diverso le partecipazioni in società in nome collettivo ed in società in accomandita semplice, se la regola generale espressa dal sistema fosse quella della ammissibilità della partecipazione di società di capitali a società in nome collettivo, la legge sull'editoria non avrebbe mancato di derogare a quella pretesa regola generale, elencando nel divieto anche le società in nome collettivo.
Poiché infatti la medesima esigenza che sta alla base della norma posta dalla legge del 1981 per le società in accomandita semplice sussiste per le società in nome collettivo, dovrebbe postularsi che la legge abbia ritenuto già esistente la regola generale (creata dalla giurisprudenza e convalidata dal legislatore) che statuisce l'inammissibilità della partecipazione di società di capitali in società (di fatto, irregolari e) in nome collettivo, tanto da non ritenere necessario di ripeterla espressamente. Per la partecipazione in società in accomandita, invece, il principio generale preesistente e presupposto dal legislatore del 1981, sarebbe quello dell'ammissibilità, derogato per le speciali ragioni dell'editoria.
Il Collegio non ritiene di condividere detta macchinosa ricostruzione la quale conferirebbe la legislatore, al contempo, l'intenzione di fissare per legge il risultato di una interpretazione giurisprudenziale e di limitarlo all'ambito delle società in nome collettivo. Invero, in base alla ratio già enunciata dalla giurisprudenza e qui ribadita, quell'inammissibilità del primo caso poggia su ragioni che, per coerenza, si estendono anche alle società in accomandita semplice, sicché il legislatore avrebbe confermato solo in parte la regola giurisprudenziale. Nè vale l'argomento che il legislatore del 1981 abbia voluto soltanto fugare le perplessità in ordine all'applicazione della tesi dell'inammissibilità della partecipazione anche allorché la società di capitali assume la veste di socia a responsabilità limitata (accomandante), sposando cioè la tesi dell'ammissibilità (nella legge derogata per speciali ragioni). Infatti la dizione della legge del 1981 non distingue, vietando la partecipazione di persone giuridiche alla società in accomandita semplice, in tutte le vesti. Da questa regola risulta che - poiché gli accomandatari ed i soci della collettiva sono soggetti alla medesima disciplina, la conclusione secondo cui l'inammissibilità - sancita dalla legge del 1981 - vale anche per le collettive poggia - più pianamente - soltanto sull'identità della ratio interna alla norma e cioè su quell'identità di disciplina.
In sostanza, lungi dal conferire al legislatore "di settore" l'intento di risolvere, quasi occultamente, un problema di diritto generale delle società (intento singolare, considerato che questo ramo dell'ordinamento è soggetto alla armonizzazione in sede comunitaria), si deve affermare che la legge del 1981 non ha inteso scegliere fra le soluzioni generali che si dibattono da tempo, ma ha voluto soltanto risolvere un problema settoriale, come risulta anche dall'espressione "agli effetti della presente legge".
Esiste nella legge del 1981 una regola espressa per le accomandite che deve estendersi alle collettive (non per la tacita e diretta applicazione di una regola generale, ma) per l'estensione di quella norma espressa, ricorrendo l'eadem ratio del divieto.
Ai fini di questa causa, pertanto, la legge del 1981 non è decisiva, lasciando aperte le soluzioni che vanno ricercate autonomamente. Stabilita la soluzione qui accolta, la norma del 1981 si prospetta come un'applicazione specifica e confermativa di essa. Soluzione che è stata dettata dall'esigenza del rispetto delle norme inderogabili sull'amministrazione e sui bilanci della società di capitali, a tutela dei suoi soci e dei suoi creditori.
Concludendo, si deve accogliere il primo motivo del ricorso dei Melone, in termini di nullità, per contrarietà a norme imperative. Non appare, infatti, conforme all'esegesi svolta la tesi della frode alla legge o dell'illiceità della causa, svolta (sia pure in maniera non rigidamente esclusiva) dai ricorrenti.
Si premette che, a parte il fatto che la qualificazione giuridica dell'invalidità spetta al giudice, nella specie, poiché
la Supertravet chiede l'applicazione del contratto, la sua validità è elemento costitutivo della domanda e la sua nullità può essere rilevata d'ufficio dal giudice, per qualsiasi ragione risultante dai fatti accertati (Cass. 15 gennaio 1986 n. 196; 29 novembre 1985 n. 5958; 24 gennaio 1984 n. 596; 8 ottobre 1981 n. 5294, etc.).
Non si tratta di colpire di nullità un contratto in sè lecito, ma creativo di un organismo imprenditoriale adottato come strumento concreto di elusione di norme imperative (Cass. 7 luglio 1981 n. 4414). Il contratto è vietato direttamente (sebbene "virtualmente", come è ammesso in giurisprudenza: cfr. Cass. 4 dicembre 1982 n. 6601, purché il divieto, posto dalla norma imperativa, sia a tutela di un interesse di carattere pubblico e generale) per il contrasto con le norme imperative citate supra.
Tale contrasto riguarda, nella specie, non direttamente la trasformazione della società in nome collettivo in società in accomandita semplice, ma la sola partecipazione della Supertravet quale socia accomandante, salva l'applicazione dell'art. 1420 c.c., che sancisce la nullità del contratto plurilaterale se la nullità colpisce il vincolo di una sola parte la cui partecipazione debba considerarsi essenziale. Sono, questi, problemi ulteriori che non devono esser risolti in questa sede, in quanto coinvolgenti accertamenti di fatto sull'essenzialità della partecipazione non affrontati dalla sentenza di secondo grado, stante la sua statuizione; problemi che sono devoluti alla stregua delle domande delle parti al giudice di rinvio, il quale dovrà adeguarsi al seguente principio di diritto: "Poiché la partecipazione di una società per azioni in qualità di accomandante ad una società in accomandita semplice comporta la violazione di norme inderogabili concernenti l'amministrazione ed i bilanci della società per azioni, quella partecipazione è nulla per violazione di norme imperative".
L'accoglimento del suddetto motivo comporta l'assorbimento di tutti gli altri, nonché del ricorso della Supertravet.
Al giudice di rinvio, che si designa in altra sezione della Corte d'appello di Napoli, è riservata anche la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M

La Corte di cassazione a sez. un. riunisce i ricorsi n. 6160-87; n. 6316-87 e n. 6362-87. Accogli il primo motivo del ricorso dei fratelli Melone e dichiara assorbiti gli altri motivi dello stesso ricorso, nonché il ricorso della soc. Supertravet.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli.
Così deciso a Roma il 23 giugno 1988.