Cassazione civile, SEZIONI UNITE, 17 ottobre 1988, n. 5636
SEZIONE UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati
Dott. Renato GRANATA Pres. di Sez.
ff. di Primo Presidente
Dott. Franco BILE Pres. di Sez.
" Gaetano LO COCO "
" Giorgio ONNIS Consigliere
" Domenico MALTESE "
" Giuseppe CATURANI "
" Gentile RAPONE "
" Girolamo GIRONE "
" Renato SGROI Rel. "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso iscritto il primo al n. 6160-87 del R.G. AA.CC., proposto
da
da
S.P.A. SUPERTRAVET COSTRUZIONI, in persona del legale rappresentante
in carica, elettivamente domiciliata in Roma, Largo del Teatro Velle
n. 6 presso lo studio dell'Avv. Leonardo Di Brina, rappresentata e
difesa dall'avv. Gustavo Minervini, giusta procura speciale per
Notaio Consiglia Anna Grilletti di Serramanna dell'8 giugno 1987 n.
4127 di repertorio;
Ricorrente
contro
MELONE ANTONIO e MELONE VINCENZO, entrambi elettivamente domiciliati
in Roma, Via Monte Zebio n. 37 presso lo studio dell'Avv. Elio
Fazzalari, che li rappresenta e difende unitamente all'Avv. Antonio
Venditti, giusta delega a margine del controricorso;
Controricorrenti
e contro
SOC. in acc. sempl. FRATELLI MARIO E ANTONIO MELONE, in persona del
legale rappresentante in carica,
Intimata
E sul secondo ricorso, iscritto al n. 6316-87 del R.G.AA.CC.,
proposto
da
MELONE ANTONIO e MELONE VINCENZO, entrambi elettivamente domiciliati
in Roma, Via Monte Zebio n. 37 presso lo studio dell'Avv. Elio
Fazzalari, che li rappresenta e difende unitamente all'Avv. Antonio
Venditti, giusta delega in calce al ricorso;
Ricorrenti
contro
S.P.A. SUPERTRAVET COSTRUZIONI, in persona del legale rappresentante
in carica, elettivamente domiciliata in Roma, Lardo del Teatro Valle
n. 6 presso lo studio dell'Avv. Leonardo Di Brina, rappresentata e
difesa dall'Avv. Gustavo Minervini, giusta procura speciale per
Notaio Consiglia Anna Grilletti di Serramanna dell'8 Giugno 1987 n.
4127 di repertorio;
Controricorrente
E sul terzo ricorso, iscritto al n. 6362-87 del R.G.AA.CC., proposto
da
MELONE ANTONIO E MELONE VINCENZO, entrambi elettivamente domiciliati
in Roma, Via Monte Zebio n. 37 presso lo studio dell'Avv. Elio
Fazzalari, che li rappresenta e difende unitamente all'Avv. Antonio
Venditti, giusta delega in calce al ricorso;
Ricorrenti
contro
S.a.s. F.LLI MARIO E ANTONIO MELONE, in persona dei soci
accomandatari Antonio e Vincenzo Melone;
Intimata
Avverso la sentenza della Corte d'appello di Napoli - depositata il
31.3.1987;
Udita nella pubblica udienza, tenutasi il giorno 23 giugno 1988, la
relazione delle cause svolte dal Cons. Rel. Sgroi;
Uditi gli avvocati Minervini, Fazzalari-Venditti;
Udito il Pubblico Ministero, nella persona del Dr. evandro Minetti,
Sostituto Procuratore Generale presso
che ha concluso chiedendo: l'assorbimento del ricorso n.ro 6160-87, e
per i ricorsi nn. 6316-87 e 6362-87: il rigetto del secondo motivo
del ricorso, l'accoglimento del primo nonché l'assorbimento degli
altri.
Con citazione notificata il 5 giugno 1981
I Melone, costituendosi in giudizio, chiedevano il rigetto delle domande e spiegavano,
in via riconvenzionale, le seguenti domande (precedute dall'esposizione delle
ragioni in fatto e diritto): a) dichiararsi la nullità dell'atto per notar Anni
30 novembre 1977, costitutivo della Soc. acc. sempl. "Fratelli Antonio
e Mario Melone - Industria Laterizi e Calce" e della scrittura privata
di pari data per l'illiceità dell'intero negozio, in particolare sotto il profilo
della causa e dell'oggetto; b) in subordine, annullare detti atti per dolo;
c) emettersi i conseguenziali provvedimenti di legge; d) in subordine dichiararsi
esclusa l'accomandante della società ex art. 2320 c.c.; e) condannarsi
Il Tribunale
La Supertravet Costruzioni proponeva appello, a cui resistevano i Melone, proponendo
appello incidentale subordinato, in relazione ai punti in cui i primi giudici
avevano pronunciato in modo difforme dalle loro richieste.
Con sentenza 31 marzo 1987
I)
A) è dubbio che il contratto di società di persone sia caratterizzato da intuitus
personae (inteso nel significato di fiducia esclusiva in una determinata persona);
ciò aveva senso quando dalla morte di uno dei soci seguiva lo scioglimento della
società, salvo il patto contrario (giusta gli abrogati codici) e non è giustificabile
nella vigente legislazione che all'art. 2284 c.c. prevede come regola lo scioglimento
del rapporto sociale limitatamente ad un socio, a meno che i soci superstiti
intendano sciogliere la società (e salvo che non intendano, invece, continuarla
con gli eredi del defunto);
B) l'intuitus (se esiste) non è caratteristica essenziale ed inderogabile, per
cui le parti potrebbero anche prescinderne;
C) di intuitus si può parlare anche con riguarda ad enti (perchè vi sono molti
contratti caratterizzati da intuitus personae, come l'appalto, che possono esser
stipulati da una persona giuridica);
D) l'ipotizzata esistenza dell'intuitus verrebbe a coincidere con un rapporto
fiduciario con gli altri soci (per la loro affidabilità, solvibilità, etc.)
e non v'è ragione per negare che tale fiducia possa essere risposta anche nei
confronti di una società di capitali che fornisca affidamento di serietà, di
organizzazione, di buona amministrazione e solidità patrimoniale: caratteristiche,
queste, che attraverso la constatazione di tradizioni di correttezza ed integrità
possono rimanere costanti nel tempo, sì da consentire una loro individuazione
nell'esame di un abituale modo di operare dei loro organi sociali (i quali,
in quanto persone fisiche, possono render possibile quella collaborazione personale
ritenuta essenziale nell'organizzazione della collettiva);
E) la supposta necessità dell'intuitus non può sovrapporsi alle scelte operate
dai contraenti in piena autonomia, con un apprezzamento che investe se risponda
o non alle esigenze dell'attività comune, su base personale, l'evenienza di
possibili mutamenti dei soci nelle società di capitali o delle persone impegnate
nella gestione sociale;
F) l'affectio societatis è una formula vuota di contenuto. Nei casi fisiologici
può esserne destinataria anche una società di capitali con una reputazione acquisita
(specie se trattasi di una società a carattere prevalentemente familiare o su
ristretta base azionaria). Nei casi patologici - per disarmonia originata da
discordie anche fra soci persone fisiche - all'affectio viene a sostituirsi
una disaffezione, senza alcuna conseguenza sullo scioglimento del rapporto.
G) L'affermazione dei primi giudici che non può ammettersi elusione della responsabilità
personale ed illimitata del socio sotto il profilo della finalità (supposta
con la remora dell'estensione di quella responsabilità) di garantire con la
condotta personale del socio (che rischia nell'impresa i suoi beni) sia adeguata
agli interessi coinvolti nell'azione sociale, viene superata considerando che
a) la limitazione della responsabilità che caratterizza la società di capitali
è relativa al rapporto interno fra i soci e la società la quale, invece, nei
rapporti esterni è illimitatamente responsabile verso i terzi con tutto il suo
patrimonio; b) non può compiersi un'apprezzabile distinzione fra operato della
persona fisica socio e delle persona giuridica socio, tanto più che sull'attività
spesa dagli amministratori di quest'ultima grava la remora della responsabilità
personale per i danni nei confronti della società, dei creditori sociali, dei
soci e dei terzi; c) il nesso fra responsabilità illimitata e potere di amministrazione
nelle società personali non è necessario, come è dimostrato dal caso dell'accomandante
che è un socio a responsabilità limitata privo di poteri di gestione; d) nè
sul piano delle responsabilità, nè sul piano dell'intuitus personae esistono
ragioni per negare la partecipazione di società di capitali a società personali
in veste di socio limitatamente responsabile e di accomandante in specie; e)
resta precluso un coinvolgimento organico e permanente del patrimonio della
società di capitali che abbia assunto la veste di accomandante, poiché anche
la violazione del divieto di immistione costituisce un evento eccezionale, in
relazione al quale gli amministratori assumono le responsabilità previste dagli
artt. 2392-2395 c.c.
H) Sul punto concernente i pretesi impedimenti derivanti dalla disciplina inderogabile
delle società di capitali con riguardo all'impossibilità di sottrarre ai controlli
cui è sottoposta l'amministrazione di tali società quella parte di patrimonio
investito nella società personale (o addirittura l'intero patrimonio della società
di capitali), in presenza dell'art. 2361 c.c. e degli artt. 2424 e 2425 c.c.,
è da escludere che possa aversi perdita, per la società di capitali, delle garanzie
organizzative e funzionali proprie del suo ordinamento, sia nell'ipotesi di
partecipazione ad altra società di capitali, sia in quella di partecipazione
ad una società di persone.
I) La possibilità - riconosciuta dalle S.U. con sentenza n. 6594-81 - che sia
applicato l'art. 2362 anche nell'ipotesi in cui una società di capitali detenga
l'intero pacchetto azionario di altra società stronca - ad avviso della Corte
d'appello - ogni discussione in proposito, data la similitudine dei rischi incidenti
direttamente sul patrimonio sociale e, indirettamente, sul sistema dei controlli
previsti dall'ordinamento (anche statutario), sia nel caso di partecipazione
di società di capitali a società di persone, sia in quello in cui la prima sia
unico azionista o unico quotista di altra società di capitali.
L) Il rischio della partecipazione assunto con delibera degli organi statuari
non sarebbe diverso da quello assunto in qualsiasi altro affare in cui la società
di capitali venga esposta alle vicende di altra società (per es., in caso di
prestata fideiussione); e la questione della delegazione ad altri (che non sia
l'amministratore della S.p.A.) del potere di gestire indirettamente l'intero
patrimonio della stessa non può sostanzialmente dirsi diversa (nelle conseguenze)
da quella risolta dalle SS.UU. con la sentenza citata.
M) In ordine all'osservazione dei primi giudici che "per eliminare la possibilità
che il patrimonio dell'anonima sia completamente coinvolto in conseguenza della
gestione con le regole delle società personali bisognerebbe escludere senza
una concreta base logico-giuridica che la società di capitali possa esser socio
con poteri di amministrazione", la sentenza impugnata ha rilevato che la
compressione dell'autonomia degli interessati può giustificarsi fin tanto che
sussista un'incompatibilità o inconciliabilità delle normative delle società
di persone con quella che ivi si innesterebbe attraverso la partecipazione di
altra società. Escluso che ciò si verifichi (solitamente) sul piano della responsabilità
nell'ipotesi di assunzione delle veste di accomandante (dato che la violazione
del divieto di immistione è un evento anomalo), l'inconciliabilità non è più
configurabile. Secondo
N)
O) Manca nel nostro ordinamento una norma che vieti la suddetta partecipazione;
l'art. 2247 c.c. indica gli stipulanti col termine "persone" che è
idoneo a designare anche le persone giuridiche, essendo prevista dall'art. 2532
c.c. la partecipazione di persone giuridiche alle società cooperative (che per
il loro carattere mutualistico dovrebbero riguardare solo persone fisiche),
a maggior ragione non è preclusa la partecipazione di una persona giuridica
ad altra svolgente attività lucrativa.
P) Quanto all'argomento secondo cui la legge detta per le società di persone
norme non applicabili alle società di capitali che di quelle siano socie (artt.
2257 - 2258; art. 2285), esso prova troppo in quanto anche per i soci di società
di capitali la legge detta talora norme che non sono applicabili a società di
capitali che siano partecipi, a loro volta, come socie, di altre società di
capitali, mentre quella partecipazione è pacificamente consentita. Inoltre,
quand'anche vi possano essere norme applicabili alle persone giuridiche socie,
non sono norme essenziali.
Q) Nè ha consistenza - secondo
Alla stregua delle suesposte considerazioni,
II )
III )
IV )
V ) Infine,
Avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso la soc. Supertravet ed Antonio
e Vincenzo Melone. I ricorsi sono stati notificati alla società in acc. sempl.
Fratelli Melone, che non ha svolto attività difensiva. Le parti hanno depositato
memorie.
I ricorsi devono essere riuniti, ai sensi dell'art. 335 c.p.c. È
logicamente preliminare l'esame del primo motivo del ricorso dei Melone, con
il quale essi denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1343,
1344, 1418, 2249, 2313 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c. (anche
per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione) per avere la sentenza
impugnata ritenuta valida la partecipazione della soc. per az. Supertravet quale
socia accomandante della soc. in a.s. F.lli Melone, senza osservare il principio
costantemente affermato dal S.C. secondo cui tra le società di capitali e le
società di persone sussiste una tale incompatibilità ontologica e di struttura
da escludere in radice la possibilità che una società a base capitalistica possa
far parte di una società a base personale.
Risulterebbe, infatti, una figura ibrida di una società allo stesso tempo di
capitali e di persone con un'inammissibile commistione fra due regimi in relazione
sia all'adempimento delle obbligazioni sociali sia in generale all'amministrazione
dell'ipotizzata società.
Ad avviso dei ricorrenti, la suddetta giurisprudenza è rivolta a reprimere contratti
in frode alla legge (illiceità della causa: art.
Secondo i ricorrenti, nella motivazione esiste contraddittorietà, dato che
Infine, secondo i ricorrenti, non è decisivo riferirsi alla limitazione di responsabilità
dell'accomandante perché essa è e resta una responsabilità personale del socio;
essa è poi idonea a diventare una responsabilità illimitata ex art. 2320 c.c.
La nullità della partecipazione della società di capitali resta, in questo come
negli altri casi (socio di società in nome collettivo; accomandatario) immodificata,
come resta identica l'esigenza di tutela e la soluzione del problema mediante
la sanzione di nullità (per non premiare la frode), senza introdurre "distinguo"
che consentirebbero di evadere la sanzione.
Il motivo è sostanzialmente fondato, anche se non tutte le prospettazioni da
esso svolte possono condividersi.
È noto che il problema non è nuovo, ma nei termini in cui si pone nella presente
controversia non è stato mai espressamente affrontato da questa Corte, la quale
(a prescindere dai casi nei quali ha considerato il fenomeno come mero dato
fattuale nell'ambito di una fattispecie imponibile: cfr. Cass. 21 giugno 1984
n. 3667, fra le altre) ha sempre esaminato ipotesi si partecipazione di una
società di capitali ad una società di fatto. Il problema va pertanto riconsiderato,
sia per verificare se (tutti) i principi già più volte affermati da questa Corte
per quelle ipotesi siano estensibili al caso di partecipazione ad una società
in accomandita semplice, e ciò anche alla luce della recente legislazione sull'editoria,
nonché delle modifiche (già introdotte o in fieri) dell'ordinamento interno
alla stregua delle direttive comunitarie.
Va fatto un avvertimento preliminare di carattere terminologico: l'espressione
"ammissibilità" (con riguardo alla partecipazione di cui si tratta,
nelle varie possibili ipotesi) e quella contrapposta "inammissibilità",
non hanno un significato tecnico preciso, ma sono il semplice presupposto descrittivo
al fine della ricerca del trattamento riservato dall'ordinamento a quella partecipazione;
trattamento che potrà spaziare dall'irrilevanza della figura soggettiva del
titolare della partecipazione, al fine di una valida configurazione della società
partecipante e di quella partecipata, al riconoscimento dell'esistenza di semplici
"clausole atipiche" non incidenti sul tipo societario, alla violazione
di norme imperative ovvero, infine, alla frode alla legge, con conseguente nullità
(di cui poi si dovranno delimitare i confini e le conseguenze). Raccolti i dati
significativi nell'ambito della ricerca delle norme che dovrebbero applicarsi
alla partecipazione di cui si discute, e stabilito se alcune norme siano o meno
compatibili con quella partecipazione, il discorso dovrà passare dal livello
della compatibilità (o ammissibilità) a quello del trattamento riservato dall'ordinamento
al fenomeno. Per i fini che interessano il presente ricorso, dato che il suo
accoglimento dipende esclusivamente da una conclusione nel senso della nullità,
non sono rilevanti quei dati in forza dei quali alcune norme proprie della disciplina
dei diversi tipi di società siano inapplicabili (per semplice incompatibilità),
se non possa contemporaneamente affermarsi una nullità dell'intera fattispecie
(o di alcuni suoi aspetti).
In base a tale premessa, deve condividersi l'ampia motivazione della Corte d'appello
secondo cui gli argomento basati sul c.d. "intuitus personae" e sull'affectio
societatis sono irrilevanti, per una ragione assorbente: che, cioè, anche ammessa
l'esistenza di una varietà di atteggiamenti dei suddetti principi nell'ambito
delle discipline rispettivamente delle società di capitali e della società di
persone, si tratterebbe di una varietà che non è correlata con norme inderogabili
ed imperative ovvero contenenti requisiti di validità di quei tipi, stante il
carattere meramente generico e descrittivo degli stessi principi, per cui si
manifesta l'assoluta irrilevanza di essi, ai fini dell'affermazione della pretesa
nullità (cfr. gli argomenti riassunti in narrativa sub A), B), C), D), E, F)).
La medesima conclusione deve adottarsi in ordine all'argomento sub P): la circostanza
che alcune norme della disciplina delle società di persone non possano applicarsi
quando ad essa partecipi una società di capitali, si esaurirebbe - appunto -
nella loro inapplicazione, ma è irrilevante al fine di sancire una nullità,
che comporta una contrarietà alla legge, al di là della sua inapplicabilità
(il riferimento è agli artt. 2257-2258, 2285, seconda ipotesi; 2284;
Nell'esame degli altri argomenti (che sono, in verità, quelli fondamentali addotti
dall'uno o dall'altro orientamento) deve premettersi che le sentenze in cui
questa Corte ha da ultimo riaffermato in maniera più diffusa (perché in altre
si tratta di un semplice richiamo al principio, come in Cass. 19 novembre 1981
n. 6151) l'inammissibilità della partecipazione (Cass. 9 dicembre 1976 n. 4577
e 28 gennaio 1985 n. 464) espongono le seguenti ragioni: a) impossibilità di
configurare, nei confronti della società di capitali, quell'intuitus personae
e affectio societatis su cui si regge il vincolo associativo nelle società di
persone; b) differente regime della responsabilità in ordine all'adempimento
delle obbligazioni sociali; c) contrasto che, nell'amministrazione del nuovo
ed abnorme ente sociale verrebbe a determinarsi con la normativa dettata per
la società azionaria, dove la legge riserva inderogabilmente agli amministratori
la gestione del patrimonio sociale, mentre - ammettendosi la partecipazione
ad una società di persone e a fortiori di fatto, priva di ogni garanzia di pubblicità,
il patrimonio verrebbe fatalmente gestito, almeno in parte, da soggetti diversi,
e, quindi, sottratto ai controlli predisposti per l'amministrazione della società
di capitali.
Alla stregua della premessa qui esposta, è evidente che soltanto l'argomento
sub c) può essere ritenuto decisivo, perché soltanto in base ad esso si configura
un contrasto con una normativa e cioè una violazione di legge che può produrre
una nullità.
Dell'irrilevanza sub a) si è già detto supra. Quanto all'argomento sub b), da
tempo è stato fondatamente obiettato che anche le società di capitali, per le
obbligazioni contratte, rispondono con l'intero loro patrimonio, per cui non
vi è alcuna differenza di trattamento fra la persona fisica titolare di una
partecipazione (quota) in una società di persone e la società di capitali titolare
di un'altra partecipazione.
Con particolare riguardo - poi - all'ipotesi dell'accomandante, è evidente che
la limitazione di responsabilità "limitatamente alla quota conferita (art.
2313 c.c.)" riguarderebbe l'accomandante persona fisica e l'accomandante
società per azioni, in egual modo.
Merita, invece, di essere seguito o sviluppato l'argomento sub c). Superate
le dottrine formatesi nel vigore del codice di commercio abrogato in tema di
"sovranità" dell'assemblea della società per azioni, è comunemente
recepito ora l'orientamento secondo cui l'assemblea e gli amministratori sono
organi con competenze proprie e che, mentre l'assemblea ha una competenza "speciale"
in base a norme di legge e di statuto, gli amministratori hanno una competenza
generale e sono organi necessari, che non possono delegare permanentemente ad
altri tutte le proprie attribuzioni, così come l'assemblea non potrebbe nominare
propri mandatari, per scavalcare gli amministratori.
Correlativamente alle suddette attribuzioni proprie, gli amministratori sono
soggetti ai controlli del collegio sindacale (art. 2403) e dell'Autorità giudiziaria
(art. 2409 c.c.), nonchè alle responsabilità ex artt. 2392-2395 c.c. Il sistema
è strutturato in modo che gli amministratori, che detengono i poteri di gestione
(e, sostanzialmente, il "comando") della società siano soggetti a
regole che mirano ad assicurare la tutela dell'integrità del patrimonio sociale,
nell'interesse dei soci e dei creditori, per cui non appare dubbio che le regole
sull'amministrazione delle società per azioni costituiscono, nel loro complesso,
norme imperative. Ammettendo la partecipazione della società per azioni in una
società di persone, si avrebbe la conseguenza che la parte di patrimonio investita
in quella partecipazione verrebbe sottratta a quelle regole, per essere amministrata
degli amministratori delle società di persone, non soggetti a quei controlli.
L'obiezione secondo cui anche nel caso di partecipazione in altra società per
azione (o società di capitali, comunque, che è espressamente prevista dalla
legge) si avrebbe quel "trasferimento di potere gestorio" riguardo
al patrimonio investito nella partecipazione, non tiene conto della circostanza
che le regole applicabili a tale amministrazione sarebbero identiche a quelle
che si applicano nella società partecipante, che di riflesso verrebbe così tutelata;
e ciò anche quando la società partecipata fosse una società a responsabilità
limitata, per effetto degli artt. 2487 e 2488 c.c. che quelle regole recepiscono
quasi completamente. L'identità di disciplina è la base razionale dell'espressa
previsione di legge, la quale va interpretata su tale presupposto.
Non decisiva è l'altra obiezione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo
cui la delega dell'amministrazione della partecipazione (ed il rischio che ne
consegue) non sarebbero diversi da quelli relativi a qualsiasi negozio impegnativo
di tutto il patrimonio (per esempio, una fideiussione a favore di una società
di persone): invero, il singolo negozio è deciso e gestito dagli organi sociali
competenti, per cui soltanto dal punto di vista economico la situazione può
considerarsi identica; è invece netta la differenza di disciplina giuridica,
in quanto la decisione di impegnare il patrimonio sociale in una fideiussione
è soggetta ai già richiamati controlli sull'amministrazione delle società di
capitali, mentre i suddetti controlli sarebbero vanificati nell'altro caso.
In proposito si possono fare due ipotesi.
La prima è che la società partecipante e gli amministratori della società partecipata
(come è accaduto nel presente caso) si trovino in conflitto fra di loro, perché
facenti capo a centri di interesse che non intendono collaborare. In tal caso,
le eventuali irregolarità commesse dagli amministratori della partecipata non
sarebbero soggette a quei controlli nè direttamente (perché alle società personali
essi non si applicano) nè indirettamente (perchè non si può far carico agli
amministratori della partecipante di una culpa in vigilando di cui non sussisterebbero
il fondamento, stante l'autonomia fra le due compagini sociali). La conseguenza
sarebbe quella dell'impossibilità di controllare la retta gestione della partecipazione
sociale, ex art. 2403-2409.
L'altra ipotesi è quella nella quale gli amministratori della società personale
partecipata siano persone di fiducia degli amministratori della azionaria partecipante,
i quali, per le ragioni già esposte, si sottrarrebbe per la loro volontà a qualsiasi
controllo e responsabilità, stante l'esclusiva riferibilità degli atti di amministrazione
ai primi.
Una delega permanente delle funzioni di amministrazione della partecipazione
sociale è accentuata proprio nel presente caso che (secondo la sentenza impugnata,
che richiama una nota dottrina) invece si sottrarrebbe alle obiezioni fondate
sulla incompatibilità di disciplina fra società personali e società di capitali.
Invero, la partecipazione della società per azioni in qualità di accomandante
comporta che la prima non amministra (art. 2318 secondo comma) e, in via normale,
non deve ingerirsi nell'amministrazione (art. 2320 c.c.). Tale situazione comporta
il superamento dell'argomento tradizionale della diversità di regime di responsabilità
(sub b), e cioè di un argomento irrilevante, mentre fa risaltare l'argomento
sub c) e cioè la dissociazione fra i poteri di amministrazione e l'impegno del
capitale sociale nell'esercizio dell'impresa, che nella società per azioni non
è ammessa. Non si ritiene corretta una distinzione basata sulla totalità o parzialità
dell'impegno del capitale della società per azioni nella partecipazione di cui
si tratta, allo scopo di sostenere che soltanto nel primo caso si avrebbe un
assoggettamento (vietato) del capitale dell'azionaria alle regole gestorie della
società personale. Invero, la distinzione non potrebbe mai essere netta: come
si dovrebbe trattare, infatti, una partecipazione quasi totalitaria? L'impegno
del 99 per cento del capitale nella veste di accomandante non si vede perché
dovrebbe trattarsi in modo diverso dall'impegno del 100 per cento, nell'ambito
della violazione delle regole inerenti alla sua amministrazione.
Un secondo - e non meno rilevante - argomento che dimostra che la partecipazione
di cui si tratta è contraria a norme imperative, perché pone in essere un negozio
costitutivo di una organizzazione dell'esercizio dell'impresa in modo non conforme
a norme imperative di legge, è dato dalla disciplina dei bilanci, ex artt. 2423
e ss. c.c. (artt. 2491 - 2493 per le società a resp. lim.).
L'art. 2424 comma 1 n. 10, mod. dall'art. 17 d.p.r. n. 30 del 1986, elenca,
come voce dell'attivo, le partecipazioni; l'art. 2425 al n. 4 detta i criteri
di valutazione delle azioni; l'art. 2425 al n. 5 dispone: "le partecipazioni
non azionarie devono essere valutate per un importo non superiore a quello risultante
dalle imprese alle quali si riferiscono". L'art. 2425-bis (aggiunto dalla
l. 216-74) al n. 3 e 4 indica i dividendi delle partecipazioni.
Non si è mancato di osservare (come ha statuito la sentenza impugnata) che le
suddette norme sarebbero la conferma positiva e letterale dell'ammissibilità
della partecipazione in società personali (fatta salva l'incompatibilità di
alcune norme non essenziali: vedi supra, sub p), dal momento che la legge non
solo non limita (nell'art. 2424) le partecipazioni a quelle di altre società
di capitali, ma all'art. 2425 elenca addirittura le "partecipazioni non
azionarie" (fra le quali agevolmente potrebbero comprendersi quelle in
società personali) ed all'art. 2425 bis distingue, nel conto dei profitti, i
dividendi a seconda che derivino in partecipazioni in società controllate e
collegate ovvero in altre società, e cioè utilizza un criterio discriminante
che (di nuovo) non appare letteralmente limitativo sotto il profilo del "tipo"
della società partecipata, potendo nella dizione usata comprendersi qualsiasi
tipo di cui all'art. 2249 e norme da esso richiamate. Anche il limite, posto
dall'art. 2361 alle partecipazioni, non fa alcun riferimento al "tipo"
di società.
La conclusione suddetta, ad avviso del Collegio, sarebbe affrettata già per
la buona ragione che, se la questione fosse risolta espressamente dalla legge
delle norme citate, non si capirebbe perché ha diviso la dottrina e la giurisprudenza
da molti decenni: la verità è che quelle norme non offrono un sicuro indice
testuale per la soluzione del problema, perché vanno a loro volta interpretate
nel loro significato e nella loro portata, inserendole nel sistema del quale
fanno parte.
Ammettendo la partecipazione in società personali, proprio nell'ambito della
disciplina del bilancio (che indubbiamente è imperativa e che costituisce un
momento essenziale e caratterizzante del "tipo" di società di capitali)
si aprirebbe un contrasto interno di regole, tali da porre in serio pericolo
l'osservanza del principio fondamentale della chiarezza e precisione (art. 2423
c.c.).
I soggetti (soci e creditori) a tutela del quale quel principio è posto non
potrebbero conoscere il bilancio ed il conto profitti e perdite della società
di persone, la cui attività influisce in maniera determinante sul patrimonio
della società di capitali, che subisce gli incrementi o decrementi derivanti
dall'attività d'impresa della società di persone. Infatti, il bilancio ed il
conto profitti e perdite di quest'ultima non sarebbe depositato in Tribunale
nè pubblicato nel B.U.S.A. R.L.
I criteri prudenziali di cui ai numeri 4 e 5 dell'art. 2425 c.c. si esaurirebbero
nell'indicazione di una mera posta riassuntiva, e cioè di un risultato finale
del quale sarebbero ignote le varie poste ed il loro svolgimento; verrebbero
a mancare totalmente le indicazioni, ben più analitiche, che sarebbero risultate
se il bilancio della società partecipata fosse soggetto alle medesime norme
di quello della partecipante società di capitali. In questo secondo caso, infatti,
il bilancio ed il conto profitti e perdite della partecipata sarebbero conoscibili
nel loro svolgimento analitico, ed integrerebbe la conoscenza di quelli della
partecipante.
La conseguenza pratica di quanto si è osservato (a parte un altro profilo che
si esaminerà quando sarà discusso l'argomento tratto dall'art. 2362 c.c.) è
che, mediante la partecipazione di cui si discute, la società azionaria sottrarrebbe
tutta, ovvero una frazione della propria impresa (a seconda che tutto, ovvero
una parte del suo capitale sia investita in quella partecipazione) ai controlli
apprestati dalla legge in tema di bilanci. Dal punto di vista giuridico, quella
partecipazione si convertirebbe nella possibilità di non osservare (totalmente
o parzialmente) quei controlli, quella pubblicità e gli stessi criteri di cui
agli artt. 2423 e ss. c.c. Poiché la legge non può "autorizzare" una
violazione di se stessa (può soltanto apportare deroghe ai suoi comandi), si
deve concludere per un'altra soluzione: per non rendere istituzionale la violazione
dei principi sui bilanci sulle società per azioni, è da ritenere esistente il
divieto della sua partecipazione ad una società di persone. È evidente che il
problema andrebbe rimeditato alle luce di eventuali modifiche (in aderenza direttive
o proposte di direttive della C.E.E., in G.U.C.E. n. 144 dell'11 giugno 1986)
volte a stabilire sui bilanci il principio dell'estensione delle norme sui bilanci
concernenti le società sui capitali alle società personali partecipate dalla
prime. Allo stato della legislazione, pare al Collegio, invece, che la soluzione
indicata sia quella obbligata, non senza rimarcare il collegamento col precedente
argomento, posto che il bilancio (pur acquistando rilevanza giuridica solo con
l'approvazione da parte dell'assemblea) è redatto dagli amministratori (art.
2423 primo comma), per cui anche sotto questo profilo la partecipazione di cui
si discute svuoterebbe le loro competenze, sottraendo loro, sostanzialmente,
ogni possibilità di controllo della gestione contabile del capitale investito
nella partecipazione, al di fuori di quello che è il "risultato riassuntivo
finale" di una gestione svolta in altra sede.
Le suddette conclusioni permettono di leggere gli articoli già citati senza
forzare la loro lettera. L'art. 2424 prima parte n. 10 usa la parola "partecipazione"
e niente esclude che essa possa intendersi nel senso limitativo anzidetto. L'art.
2425 n.
Si può anche citare la norma (espressamente ammissiva della partecipazione alle
società cooperative) dell'art. 2532 c.c. non come conferma di un implicito principio
generale conforme, ma come disposizione speciale, coerente con la norma estensiva
a quelle società della disciplina delle società per azioni (art. 2516 c.c.)
secondo la prospettazione della partecipazione postula una tendenziale uniformità
di disciplina della partecipante e della partecipata, per quanto riguarda in
special modo la figura degli amministratori e la normativa inerente ai bilanci.
Nella sentenza impugnata viene citata la recente giurisprudenza di questa Corte
(Cass., sez. un., 14 dicembre 1981 n. 6594 e 24 febbraio 1986 n. 1088) che ammette
l'applicabilità della responsabilità illimitata ex art. 2362 c.c. anche quando
tutte le azioni di una società appartengono ad un'altra società per azioni;
ma non pare che quell'orientamento abbia riflessi sul problema che si sta qui
esaminando. In primo luogo, con riguardo alle normative che qui sono state ritenute
risolutive, si avrebbe un'applicazione delle stesse ed entrambe le società (la
partecipante e la partecipata). In secondo luogo, l'argomento basato sul preteso
"diverso regime di responsabilità" è stato abbandonato. Inoltre, mentre
si vorrebbe istituzionalizzare la possibilità della partecipazione alla società
di persone, la norma dell'art. 2362 è invece eccezionale.
Infine, l'art. 2362 c.c., oltre che ispirato al fine di evitare l'utilizzazione
della società di capitali da parte di un unico soggetto come mezzo per sottrarre
il proprio patrimonio alla responsabilità illimitata ex art. 2740 c.c., o (come
altri ha detto) di evitare l'esercizio dell'impresa unipersonale sotto forme
sociali, risolve il problema della tutela dell'affidamento dei creditori sociali
che abbiano fatto credito alla società, sapendo (o potendo sapere) che la compagine
sociale era composta da un unico socio, che poteva quindi disporre del patrimonio
sociale. Ciò risulta dal testo della norma, che non offre tutela ai creditori
che hanno stretto rapporti con la società prima che le sue azioni confluissero
in unica mano, ma solo quelli che li hanno stretti durante quel periodo. La
ratio della tutela dei creditori sociali non si ritroverebbe nel caso in cui
si ammettesse la partecipazione alla società di persone. Invero, i creditori
di quest'ultima verrebbero anzi preferiti a quelli della società di capitali
(titolare di una sua quota), perché il valore di quella quota è quella risultante
"al netto" dei debiti verso i creditori della società di persone.
In altri termini, i creditori della società di capitali subirebbero il concorso
dei creditori della società di persone, sul patrimonio della prima.
Per soddisfare le loro ragioni sul patrimonio della società di persone, i creditori
della società di capitali non avrebbero altra via che quella di "aggredire"
soltanto gli utili versati alla partecipante, determinati dopo il soddisfacimento
dei creditori della società di persone. Sembra, quindi, che la ratio dell'art.
2362 c.c., anche nella sua elaborazione giurisprudenziale più recente, non abbia
nulla a che vedere con la soluzione del problema in esame.
Per completare l'esposizione dei dati testuali, deve esaminarsi l'art. 1 legge
5 agosto 1981 n. 416, sull'editoria, che - dopo aver elencato i soggetti che
possono essere titolari di imprese editoriali, dispone: "Agli effetti della
presente legge le società in accomandita semplice debbono in ogni caso essere
costituite soltanto da persone fisiche". È evidente che la lettura della
norma (sotto il profilo qui esaminato) può essere duplice: a) conferma di un
principio generale; b) eccezione ad una normativa generale per le sole società
in accomandita. Si ritiene più esatta la prima interpretazione.
In base alla seconda tesi, poiché la società in nome collettivo (che possono
essere titolari di imprese creditrici, a norma del comma precedente) non sono
espressamente menzionate, esse dovrebbero essere regolate da una norma generale
già esistente nell'ordinamento la quale dovrebbe essere conforme a quella espressa
dalla legge del 1981, e cioè dovrebbe essere nel senso dell'inammissibilità
della partecipazione. Invero, poiché (sempre ai fini dell'esigenza di trasparenza
nell'assetto proprietario che è proprio della legge sull'editoria) sarebbe assurdo
trattare in modo diverso le partecipazioni in società in nome collettivo ed
in società in accomandita semplice, se la regola generale espressa dal sistema
fosse quella della ammissibilità della partecipazione di società di capitali
a società in nome collettivo, la legge sull'editoria non avrebbe mancato di
derogare a quella pretesa regola generale, elencando nel divieto anche le società
in nome collettivo.
Poiché infatti la medesima esigenza che sta alla base della norma posta dalla
legge del 1981 per le società in accomandita semplice sussiste per le società
in nome collettivo, dovrebbe postularsi che la legge abbia ritenuto già esistente
la regola generale (creata dalla giurisprudenza e convalidata dal legislatore)
che statuisce l'inammissibilità della partecipazione di società di capitali
in società (di fatto, irregolari e) in nome collettivo, tanto da non ritenere
necessario di ripeterla espressamente. Per la partecipazione in società in accomandita,
invece, il principio generale preesistente e presupposto dal legislatore del
1981, sarebbe quello dell'ammissibilità, derogato per le speciali ragioni dell'editoria.
Il Collegio non ritiene di condividere detta macchinosa ricostruzione la quale
conferirebbe la legislatore, al contempo, l'intenzione di fissare per legge
il risultato di una interpretazione giurisprudenziale e di limitarlo all'ambito
delle società in nome collettivo. Invero, in base alla ratio già enunciata dalla
giurisprudenza e qui ribadita, quell'inammissibilità del primo caso poggia su
ragioni che, per coerenza, si estendono anche alle società in accomandita semplice,
sicché il legislatore avrebbe confermato solo in parte la regola giurisprudenziale.
Nè vale l'argomento che il legislatore del 1981 abbia voluto soltanto fugare
le perplessità in ordine all'applicazione della tesi dell'inammissibilità della
partecipazione anche allorché la società di capitali assume la veste di socia
a responsabilità limitata (accomandante), sposando cioè la tesi dell'ammissibilità
(nella legge derogata per speciali ragioni). Infatti la dizione della legge
del 1981 non distingue, vietando la partecipazione di persone giuridiche alla
società in accomandita semplice, in tutte le vesti. Da questa regola risulta
che - poiché gli accomandatari ed i soci della collettiva sono soggetti alla
medesima disciplina, la conclusione secondo cui l'inammissibilità - sancita
dalla legge del 1981 - vale anche per le collettive poggia - più pianamente
- soltanto sull'identità della ratio interna alla norma e cioè su quell'identità
di disciplina.
In sostanza, lungi dal conferire al legislatore "di settore" l'intento
di risolvere, quasi occultamente, un problema di diritto generale delle società
(intento singolare, considerato che questo ramo dell'ordinamento è soggetto
alla armonizzazione in sede comunitaria), si deve affermare che la legge del
1981 non ha inteso scegliere fra le soluzioni generali che si dibattono da tempo,
ma ha voluto soltanto risolvere un problema settoriale, come risulta anche dall'espressione
"agli effetti della presente legge".
Esiste nella legge del 1981 una regola espressa per le accomandite che deve
estendersi alle collettive (non per la tacita e diretta applicazione di una
regola generale, ma) per l'estensione di quella norma espressa, ricorrendo l'eadem
ratio del divieto.
Ai fini di questa causa, pertanto, la legge del 1981 non è decisiva, lasciando
aperte le soluzioni che vanno ricercate autonomamente. Stabilita la soluzione
qui accolta, la norma del 1981 si prospetta come un'applicazione specifica e
confermativa di essa. Soluzione che è stata dettata dall'esigenza del rispetto
delle norme inderogabili sull'amministrazione e sui bilanci della società di
capitali, a tutela dei suoi soci e dei suoi creditori.
Concludendo, si deve accogliere il primo motivo del ricorso dei Melone, in termini
di nullità, per contrarietà a norme imperative. Non appare, infatti, conforme
all'esegesi svolta la tesi della frode alla legge o dell'illiceità della causa,
svolta (sia pure in maniera non rigidamente esclusiva) dai ricorrenti.
Si premette che, a parte il fatto che la qualificazione giuridica dell'invalidità
spetta al giudice, nella specie, poiché
Non si tratta di colpire di nullità un contratto in sè lecito, ma creativo di
un organismo imprenditoriale adottato come strumento concreto di elusione di
norme imperative (Cass. 7 luglio 1981 n. 4414). Il contratto è vietato direttamente
(sebbene "virtualmente", come è ammesso in giurisprudenza: cfr. Cass.
4 dicembre 1982 n. 6601, purché il divieto, posto dalla norma imperativa, sia
a tutela di un interesse di carattere pubblico e generale) per il contrasto
con le norme imperative citate supra.
Tale contrasto riguarda, nella specie, non direttamente la trasformazione della
società in nome collettivo in società in accomandita semplice, ma la sola partecipazione
della Supertravet quale socia accomandante, salva l'applicazione dell'art. 1420
c.c., che sancisce la nullità del contratto plurilaterale se la nullità colpisce
il vincolo di una sola parte la cui partecipazione debba considerarsi essenziale.
Sono, questi, problemi ulteriori che non devono esser risolti in questa sede,
in quanto coinvolgenti accertamenti di fatto sull'essenzialità della partecipazione
non affrontati dalla sentenza di secondo grado, stante la sua statuizione; problemi
che sono devoluti alla stregua delle domande delle parti al giudice di rinvio,
il quale dovrà adeguarsi al seguente principio di diritto: "Poiché la partecipazione
di una società per azioni in qualità di accomandante ad una società in accomandita
semplice comporta la violazione di norme inderogabili concernenti l'amministrazione
ed i bilanci della società per azioni, quella partecipazione è nulla per violazione
di norme imperative".
L'accoglimento del suddetto motivo comporta l'assorbimento di tutti gli altri,
nonché del ricorso della Supertravet.
Al giudice di rinvio, che si designa in altra sezione della Corte d'appello
di Napoli, è riservata anche la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione,
ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli.
Così deciso a Roma il 23 giugno 1988.