Cassazione civile, SEZIONE I, 19 gennaio 1995, n. 565


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott.    Vincenzo          SALAFIA                     Presidente
"       Salvatore         NARDINO                     Consigliere
"       Antonio           CATALANO                         "
"       Vincenzo          PROTO                            "
"       Luigi             ROVELLI                     Rel. "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
BONACCORSI GIOACCHINO, elettivamente domiciliato in Roma, Lungotevere
dei Mellini n. 24, presso l'avv. Giovanni Giacobbe che lo rappresenta
e difende con l'avv.  Antonino  Ruggeri  per  delega  a  margine  del
ricorso;
Ricorrente
contro
LA ROCCA CARMELA ved. Muscianisi,  MUSCIANISI  SILVANA  e  MUSCIANISI
GIOVANNI FILIPPO, elettivamente domiciliati in Roma,  via  Latina  n.
57-i, presso l'avv. Carmelo Raimondo che li rappresenta e difende con
l'avv. Luigi Celi per delega margine del controricorso:
Controricorrenti
avverso la sentenza n. 174-92 della Corte di Appello di Messina  dep.
il 17.4.1992;
udita la relazione della causa  svolta  nella  Pubblica  Udienza  del
20.6.1994 dal Cons. Rel. Dott. Rovelli;
uditi per il ricorrente gli  avv.ti  Giacobbe  e  Ruggeri  che  hanno
chiesto l'accoglimento del ricorso;
udito per i resistenti l'avv. Raimondo che ha chiesto il rigetto  del
ricorso;
udito il P.M. in persona del Sost. Proc. Gen.le dott. Francesco Paolo
Nicita che ha concluso per  il  rigetto  del  1 ,  2   e  3   motivo,
accoglimento del 4.

Fatto

Con citazione notificata il 18.3.1961, Filippo Muscianisi conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Messina, Gioacchino Bonaccorsi, esponendo che esse parti, nel 1956, si erano costituite in società, allo scopo di creare e gestire un "camping" in Milazzo, convenendo verbalmente: 1) che il Muscianisi avrebbe conferito il terreno su cui sarebbe stato creato il "camping" che le eventuali costruzioni, allo scioglimento della società, sarebbero rimaste di sua proprietà, senza corrispettivo; 2) che, alle spese di impianto, avrebbero provveduto, nella misura del 60% il Muscianisi e del 40% il Bonaccorsi; 3) che nella stessa proporzione sarebbero stati ripartiti utili e perdite; 4) che Bonaccorsi avrebbe curato la contabilità; 5) che la società avrebbe avuto durata ventennale.
Senonché, dopo che erano stati effettuati conferimenti ed avviata la costruzione del camping, il Bonaccorsi, il 12.5.1959, dichiarava di recedere dalla società, per cui esso istante, accettando il recesso, si dichiarava pronto a procedere alla liquidazione della quota; con atto stragiudiziale, lo aveva invitato a presentarsi davanti a notaio onde stabilire quale fosse la situazione patrimoniale della società, alla data del recesso, al fine di liquidargli la quota spettantegli. Non avendo il Bonaccorsi fornito i necessari elementi contabili, egli aveva proceduto a chiudere la contabilità con i dati in suo possesso, calcolando la quota del Bonaccorsi alla data del 12.5.1959 in Lit. 1.548.833 di cui aveva fatto offerta reale il 30.1.1967.
La somma, rifiutata, era stata depositata presso il Banco di Sicilia. Concludeva chiedendo che l'adito Tribunale, dando atto del recesso del Bonaccorsi, convalidasse l'offerta reale di cui sopra dichiarando che il convenuto null'altro ha da pretendere.
Il convenuto, costituendosi, assumeva che, all'atto dello scioglimento della società, tutte le costruzioni dovevano restare in proprietà del Muscianisi, ma previa liquidazione all'altro socio, del 40% del loro valore, e che la società avrebbe dovuto altresì costruire un albergo; precisava inoltre che la contabilità non aveva potuto essere chiusa per colpa esclusiva dell'attore e che, per tale motivo, egli si era allontanato dal "camping", senza peraltro voler recedere dalla società. Non intendendo, comunque, proseguire nel rapporto societario, chiedeva, in via riconvenzionale, che, in relazione alle inadempienze dell'attore, venisse pronunziato l'anticipato scioglimento della società e fosse ordinato al Muscianisi di rendere il conto della gestione, con ogni conseguenziale condanna. Il Muscianisi, a sua volta, rilevato che la società, pur prevedendo il conferimento di un immobile per durata ventennale, non era stata stipulata per iscritto, mutava l'originaria domanda, chiedendo la declaratoria di nullità del contratto societario, e la convalida dell'offerta reale siccome adeguata alle spettanze del convenuto.
Il Bonaccorsi contestava, nel merito, la fondatezza della nuova domanda.
Con sentenza non definitiva del 12.11. 1963, il Tribunale, dato atto dell'accettazione del contraddittorio sulla nuova domanda (e della conseguente tardività della successiva eccezione di inammissibilità), dichiarava la nullità del contratto di società, in quanto stipulato in violazione dell'art. 1350 n.
9 C.C.; negava potersi discutersi di liquidazione della quota sociale, posto che la società non era mai venuta ad esistenza, ma affermava il diritto alle parti alla restituzione dei rispettivi conferimenti, colla ripartizione degli eventuali utili nella misura convenzionale, rimettendo la causa in istruttoria, affinché le parti rendessero in conto della gestione.
Il (solo) Bonaccorsi, faceva rituale riserva di appello.
Esperita prova testimoniale e consulenza tecnica, (e provvedutosi alla assunzione nel giudizio a seguito della morte del Muscianisi) il Tribunale (dopo avere esteso la consulenza alla valutazione commerciale dell'azienda all'epoca del recesso al fine della determinazione dell'avviamento commerciale) dichiarava che il valore dell'azienda al maggio del 1959 ammontava a Lit. 30.000.000 di cui il 60% spettava al Muscianisi e il 40% al Bonaccorsi, che dichiarava pertanto creditore della somma di Lit. 120.000.000 (in quanto rivalutata) per effetto dello scioglimento del rapporto societario.
Avverso la sentenza definitiva proponeva appello il Muscianisi, ribadendo la congruità della somma di cui all'offerta reale, mentre il Bonaccorsi impugnava sia la sentenza non definitiva che quella definitiva.
La Corte d'Appello di Messina, con sentenza depositata il 17.4.1992, rigettava l'appello del Bonaccorsi; non convalidava l'offerta reale e, in parziale accoglimento dell'appello Muscianisi limitava la loro condanna al pagamento, nei confronti di Bonaccorsi, della somma di Lit. 2.558.981, con gli interessi legali dal 1957 al soddisfo.
Confermava
la Corte la nullità del contratto di società con la conseguenza che non si ha liquidazione della quota sociale, conseguente allo scioglimento del rapporto societario, bensì semplice restituzione dei rispettivi conferimenti. E riteneva altresì che, nella fattispecie, non si verte in ipotesi di indennizzo per indebito arricchimento, mancando il presupposto del concorso simultaneo dell'arricchimento di un soggetto e del depauperamento dell'altro, senza alcuna causa giustificativa. In conseguenza della nullità del contratto societario, infatti, ciascuna parte ha il diritto di conseguire in restituzione i conferimenti eseguiti e gli utili tratti dalla gestione di fatto dell'attività economica, in conclusione di parità fra le parti.
Ha quindi riformato la sentenza definitiva, laddove essa, in presenza della sentenza non definitiva che dichiarava la nullità del contratto societario (e il conseguente diritto di ciascuna delle parti alla restituzione dei conferimenti ed alla ripartizione degli utili), ha ritenuto che ciò equivalesse a liquidazione della quota societaria, ed ha così attribuito al Bonaccorsi una quota societaria "ed il relativo avviamento commerciale di una società che non è mai esistita.
Ha quindi provveduto alla quantificazione dei rispettivi conferimenti - determinando ln Lit. 2.558.981 quelli del Bonaccorsi - e negato la prova dell'esistenza di utili. Ne ha quindi dedotto che l'offerta reale, eseguita in violazione dell'art. 1208 n. 3, non poteva essere convalidata. Ha, infine, negato la rivalutazione delle somme dovute al Bonaccorsi, rilevando, da un punto di vista processuale che il maggior danno è stato richiesto, per la prima volta, in sede di precisazione delle conclusioni, e, che comunque, è stata omessa la deduzione di un qualsiasi mezzo istruttorio per la dimostrazione del "maggior danno".
Avverso detta sentenza il Bonaccorsi proponeva ricorso per cassazione, affidato a quattro mezzi di annullamento.
Resistevano le parti intimate notificando controricorso. Il Bonaccorsi depositava memoria.

Diritto

Con il primo motivo, deducendo violazione degli artt. 1350, 1367, nn. 899 e 2247 C.C., ll ricorrente lamentava che erroneamente la Corte ha affermato la nullità del contratto societario. In particolare, assume essere erronea la qualificazione del negozio relativo all'immobile come conferimento, trattandosi piuttosto di locazione; che comunque, nella specie, ultranovennale è il contratto di società, non la durata del godimento del terreno; e che, comunque, in applicazione del canone di cui all'art. 1367 C.C., avrebbe dovuto ritenersi validamente stipulato il contratto orale nel limite temporale dei nove anni. Rileva infine che la notifica, da parte del Muscianisi, dell'atto stragiudiziale e della citazione, personalmente sottoscritti, rendeva applicabile il principio della equivalenza della produzione in giudizio con il perfezionamento formale dell'atto.
Tale motivo non appare fondato e deve essere respinto.
Deve premettersi che ai sensi dell'art.
2551 C.C., il contratto costitutivo di società di persone) "non è soggetto a forme speciali, salve quelle richieste dalla natura dei beni conferiti". A sua volta, l'art. 1350 n. 9 prevede che devono farsi in forma scritta, a pena di nullità, "i contratti di società... con i quali si conferisce il godimento di beni o di altri diritti reale immobiliari per un tempo eccedente i nove anni".
Ora, che il godimento dell'immobile fosse da giustificare in termini conferimento è stato affermato dai primi giudici e non risulta che questa parte di sentenza abbia formato oggetto di gravame davanti ai giudici di appello. Da tale sentenza non emerge, dunque, alcun accertamento di fatto, in base al quale la fattispecie dedotta in giudizio potrebbe essere ricondotta all'ipotesi di cui al n. 8 dell'art.
1350 C.C., anziché a quello di cui al n. 9.
D'altra parte è incontestato in causa che, in base all'accordo orale, la società doveva durare venti anni e per venti anni doveva essere assicurato il godimento dell'immobile, dato che, per realizzare l'oggetto sociale (la creazione o gestione di un camping in quella località) il terreno rappresentava un elemento essenziale.
Nell'ipotesi in cui pure fosse stato previsto un corrispettivo per il godimento (di cui peraltro non si parla nella sentenza impugnata, senza che, su tale punto, sia dedotto un vizio di motivazione) del terreno, oggetto di conferimento dovrebbe intendersi l'obbligazione assunta da uno dei soci di dare in locazione lo stesso per durata coincidente a quella della società.
Con conseguente necessità di forma scritta ad substantiam, alla stregua della regola posta dall'art.
1351 C.C.
Il contratto verbale, costitutivo di società irregolare, con il conferimento di godimento ultranovennale di beni immobili, essenziali al raggiungimento dello scopo sociale, è dunque affetto da nullità, ai sensi dell'art.
2252 in relazione all'art. 1350 n. 9, il quale appunto contempla la forma scritta ad substantiam per detti conferimenti immobiliari, ove siano ultranovennali o a tempo indeterminato. In tal caso, secondo un costante principio giurisprudenziale (V. Cass. 6.3.1990 n. 1757; Cass. 4.7.1987 n. 5862), per escludere detta nullità, non è invocabile il principio della conservazione del negozio giuridico, di cui all'art. 1367 C.C., al fine di circoscrivere nel novennio il patto societario, in quanto ciò esulerebbe, dalla mera interpretazione della volontà delle parti, traducendosi in una arbitraria sostituzione del loro effettivo intento.
Nè, d'altra parte, è stata dedotta (davanti al giudice di merito, nè in questa sede di legittimità) l'applicabilità dell'art.
1424 C C., che collega la conversione del contratto nullo in un diverso contratto, del quale il primo contenga i requisiti di sostanza e di forma alla conformità di tale diverso contratto alla volontà delle parti, sia pure ipotetica ma sicuramente accettabile con riferimento al momento di conclusione del contratto. La conversione intende non già sostituire alla volontà delle parti quella dell'organo giudicando, ma, al contrario, tutelare - anche se in forma diversa da quella ab initio divisata - l'intento comune dei paciscenti. A tal fine occorre il positivo accertamento della perdurante utilità del contratto risultante dalla conversione, rispetto agli interessi da essi perseguiti, quali risultano individuati dall'interpretazione del negozio. Un siffatto accertamento difatti, non richiesto al giudice di merito, manca del tutto nella fattispecie negoziale di cui è causa.
Nè maggior pregio ha la tesi dell'ipotizzata equiparazione ad atto scritto, dell'atto stragiudiziale notificato al Muscianisi e della successiva citazione. Infatti l'atto scritto richiesto dalla legge a pena di nullità, deve essere rappresentato non da un qualsiasi documento da cui il contratto risulti in precedenza concluso ma da uno scritto che costituisce l'estrinsecazione formale o diretta della volontà delle parti. È vero che la produzione in giudizio di una scrittura da parte del contraente che non l'ha sottoscritta (essendo sottoscritta dall'altra parte) è ritenuta avere l'effetto di una manifestazione di volontà idonea ad integrare la prova dell'elemento mancante. Ma, come ha osservato la corte di merito, nella specie non si versa nell'ipotesi di mancata sottoscrizione di un contratto, ad opera di una delle parti, bensì di inosservanza della forma scritta richiesta ad substantiam "per cui il problema non è rappresentato dalla prova in ordine alla sussistenza della volontà del Muscianisi di eseguire il contratto", bensì dalla conseguenza dell'inosservanza della forma scritta richiesta a pena di nullità. Al quale riguardo, devesi ribadire l'orientamento di questa Corte (V. Cass. 74-1990 n. 2919) per cui "poiché i negozi giuridici per i quali la legge prescrive la legge scritta ad substantiam sono nulli... se non rivestono tale forma, la prova della loro giuridica esistenza e dei diritti che ne formano oggetto, richiede necessariamente la produzione della relativa scrittura, che non può essere sostituita da altri mezzi, e neanche dal comportamento processuale delle parti che abbiano concordemente ammesso... l'esistenza del diritto costituito" con il negozio formale.
Con il secondo motivo si deduce violazione degli artt. 2033 e
2041 C.C.
In particolare si rileva che
la Corte di merito ha ritenuto di poter regolare i diritti delle parti conseguenti alla dichiarazione di nullità del contratto societario ricorrendo all'applicazione delle norme sull'indebito oggettivo, ed escludendo quelle sull'arricchimento senza causa, perché entrambe le parti avrebbero subito una diminuzione patrimoniale, rappresentata dai beni individualmente conferiti, e un proporzionale vantaggio, concretantesi negli utili derivati dall'esercizio di fatto dell'azienda. Si assume però, dal ricorrente, che le prestazione compiute dal Bonaccorsi non sono riconducibili alla mera effettuazione di conferimenti in denaro, concretandosi in una complessa attività anche lavorativa.
Se l'opera realizzata in comune dai soci è passata nella proprietà esclusiva di uno di essi, allora il riequilibrio si attua con l'applicazione delle norme sull'indebito arricchimento.
Con il terzo motivo, deducendosi violazione dell'art. 2253 c.c. 115 e 117 c.p.c., nonché il vizio di motivazione su punto decisivo della controversia, i ricorrenti rilevano che, erroneamente
la Corte di merito ha limitato ogni questione alla quantificazione dei conferimenti effettuati e degli utili realizzati, confondendo l'accertamento effettivo dei conferimenti dei soci con l'accertamento contabile del denaro da essi soci versato.
Essi assumono, così, che, in esatto contesto, il valore dei conferimenti viene a coincidere con il valore dell'azienda (che prima non esisteva); e che
la Corte di merito non ha tenuto alcun conto - omettendo qualsiasi motivazione degli elementi, acquisiti in causa, che tale valore permettevano di quantificare.
Tali motivi, per la loro connessione debbono essere congiuntamente esaminati, apparendo fondato soltanto il secondo di essi, alla stregua, delle osservazione che seguono.
Ancorché nei limiti dei motivi di ricorso, si pone il problema, di carattere generale, degli effetti che conseguono alla dichiarazione di nullità del contratto di società. La questione, in verità, origina per la mancanza, in sede di disciplina della società di persone, di una esplicita norma che regoli la materia, come avviene, per le società di capitali, dove l'art. 2332 pone una regula iuris fortemente derogativa ai principi generali in tema di effetti conseguenti alla dichiarazione di nullità dei contratti. In particolare il 4 comma di detta disposizione equipara, quoad effectum la nullità ad una causa di scioglimento disponendo che "la sentenza che dichiara la nullità nomina i liquidatori", con la conseguenza che la declaratoria di nullità darà vita ad una vera e propria procedura di liquidazione, con la normale ripartizione del patrimonio sociale fra i soci (dopo la soddisfazione dei creditori sociali).
Un'autorevole corrente dottrinale risolve il problema degli effetti, sia esterni che interni, della dichiarazione di nullità della società di persone, con l'estensione della norma dell'art. 2332, intesa come espressione di un principio generale proprio di tutti i contratti che comportano lo svolgimento prevalente di attività esterna; con l'effetto di far seguire alla dichiarazione di nullità una procedura di liquidazione con la normale ripartizione del patrimonio sociale. Un altrettanto autorevole opinione dottrinale ritiene invece che l'estensione sia impedita dalla "reciproca autonomia del sistema delle società di persone e del sistema delle societa di capitali": ritenendosi, comunque, che la disposizione contenuta nell'art. 2332, fondata sulla particolare efficacia costitutiva dell'iscrizione dell'atto costitutivo nel registro delle imprese, sia inapplicabile alle società personali, per le quali l'iscrizione rileva ai soli fini della regolarità. Con la conseguenza, secondo alcuni, che il contratto nullo non produce "effetto alcuno, nè obbligatorio, nè reale, nè inter partes, nè rispetto ai terzi"; secondo altri, che, per salvare la fitta intelaiatura di rapporti (esterni ed interni) che l'attuazione del contratto sociale nullo ha, comunque, posto in essere, soccorre il parallelismo tra società invalida, ma che ha in concreto operato, e società di fatto. Nel primo senso dell'alternativa si era espressa una lontana giurisprudenza di questa Corte (Cass. 317-1954 n. 2816) secondo la quale il contratto di società nullo - in base alle regole generali sulla nullita dei contratti - non produce effetto alcuno: con la conseguenza che "nessuno dei contraenti potrà rivolgersi al magistrato per la tutela dei suoi diritti, ed il contratto sociale non potrà produrre; alcun effetto giuridico a vantaggio dei soci".
Un più recente indirizzo giurisprudenziale (vedi Cass. 14.5.1963 n. 1190; Cass. 15.12.1972 n.
3612 in motiv.) sembra invece orientato a risolvere il problema degli effetti della declaratoria di nullità, con il ripristino della situazione patrimoniale delle parti contraenti, secondo i principi dell'art. 2033, attraverso la determinazione degli opposti conferimenti, oltre che degli utili e delle perdite degli atti di gestione, sia pure senza titolo, nell'interesse della società. Nella presente controversia, nell'attuale fase processuale, la sola alternativa che si pone è appunto quella fra l'applicazione dell'art. 2033 ovvero della normativa sull'indebito arricchimento. Ed è alternativa che, anche alla stregua del citato indirizzo giurisprudenziale si risolve nel primo senso, non potendo residuare, dalla corretta applicazione della normativa di cui all'art. 2033, che conduca al "ripristino" della situazione patrimoniale delle parti contraenti, spazio per un arricchimento senza causa di una parte a favore dell'altra, cioè di uno spostamento patrimoniale non costituito da titolo proveniente da colui a danno del quale lo spostamento patrimoniale si compie. Ciò sta a significare che, poiché il contratto di società nullo ha comunque avuto, per un certo tempo pratica attuazione, e ha prodotto effetti, la conservazione degli effetti (giuridici ed economici) degli atti medio tempore compiuti, ancorché senza titolo, non può che farsi nell'ambito della figura giuridica nella cui veste tali atti sono stati posti in essere e gli effetti si sono compiuti.
A tale stregua, non vi è dubbio che, fra i conferimenti dei soci, vadano compresi, oltre agli apporti di denaro o di beni, anche l'attività lavorativa svolta per la gestione sociale; e che fra gli utili, vada ricompreso anche l'eventuale utile patrimonializzato che consiste nell'aumento di valore acquisito dall'azienda, quando questa, insistendo su un immobile di proprietà esclusiva di uno dei soci, ritorna interamente, per effetto dello scioglimento, nella piena titolarità di uno solo fra essi. In questo senso, è esatto affermare che il plusvalore che sia stato acquisito dai beni organizzati in azienda, per effetto dell'attività comune, è per intero, effetto del complessivo conferimento dei soci: dovendosi stabilire in quale proporzione (sulla base dei conferimenti effettuati, nel lato significato comprensivo dell'attività lavorativa svolta) ciascuno di essi vi ha concorso. La sentenza impugnata, ha, invece, ristretto l'indagine sui conferimenti ai soli conferimenti in danaro (escludendo la rilevanza di ogni altro apporto); e ha negato la prova di utili, senza tener alcun conto del plusvalore che i beni organizzati in azienda, che ritornano, per effetto di scioglimento nella piena totalità e nella libera disponibilità di uno solo fra i soci, abbiano acquisito.
Ma ciò sta anche a significare la piena equiparazione, quoad effectum, della declaratoria di nullità della società di persone che ha agito come tale, allo scioglimento. Vuoi che ciò avvenga per il tramite di un'interpretazione analogica dell'art. 2332 4 comma, in quanto espressivo di una regola estensibile alla totalità dei rapporti sociali di fatto, vuoi che, in alternativa (ma, più propriamente, a giustificazione del ricorso. al magistero dell'analogia, in parte qua), si faccia ricorso alla categoria concettuale della fattispecie contrattuale di fatto (arg. ex artt. 2126, 1754 e 1755, 1591 c.c.) ed al rilievo che la dichiarazione di nullità lascia sopravvivere fino al momento della sua pronuncia, (o, come nella specie, a quello anteriore della sua cessazione) una compagine sociale che ha agito, all'esterno e nei rapporti interni, alla stessa guisa di una società di fatto. Per conseguenza, la ripartizione, fra coloro che hanno agito come soci delle rispettive spettanze sul patrimonio comune (una volta adempiute le obbligazione verso i terzi) si configura alla stregua di liquidazione della quota, e costituisce debito di valore.
Resta pertanto assorbito il quarto motivo, con cui si lamenta la mancata liquidazione del maggior danno, del debito di restituzione del Muscianisi (e dei suoi eredi) inteso quale debito di valuta.
La sentenza impugnata, pertanto alla stregua del motivo accolto e delle complessive ragioni sopra esposte, deve essere cassata e la causa rimessa, anche per le spese del presente grado, ad altra Sezione della Corte d'Appello di Messina.

P.Q.M

La Corte, rigetta il primo ed il secondo motivo, alla stregua di cui in motivazione, assorbito il quarto, accoglie il terzo motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese ad altra Sezione della Corte d'Appello di Messina.
Roma lì 20.6.1994.