Cassazione civile, SEZIONE I, 3 luglio 1998, n. 6519


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott.    Alfredo           ROCCHI                      Presidente
"       Giovanni          VERUCCI                Rel. Consigliere
"       Giuseppe          MARZIALE                         "
"       Massimo           BONOMO                           "
"       Angelo            SPIRITO                          "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
FALLIMENTO  EDILPÒ  Srl,  in  persona  del  Curatore  pro   tempore,
elettivamente domiciliato in ROMA presso la CANCELLERIA CIVILE  della
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,  rappresentato  e  difeso  dall'avvocato
LAMBERTO LAMBERTINI, giusta delega a margine del ricorso;
Ricorrente
Contro
BUGNA GIANDOMENICO, elettivamente domiciliato  in  ROMA  VIALE  DELLE
MILIZIE 9, presso l'avvocato ENRICO LUBERTO,  che  lo  rappresenta  e
difende unitamente all'avvocato SERGIO TISO, giusta delega a  margine
del controricorso;
Controricorrente
avverso la sentenza n. 1388-95  della  Corte  d'Appello  di  VENEZIA,
depositata il 07-12-95;
udita la relazione della causa  svolta  nella  pubblica  udienza  del
13-01-98 dal Consigliere Dott. Giovanni VERUCCI;
udito per il  resistente,  l'Avvocato  LUBERTO,  che  ha  chiesto  il
rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona dell'Avvocato  Generale  Dott.  Giovanni  LO
CASCIO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con atto notificato il 17 ottobre 1989, il Fallimento Edilpò s.r.l. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Verona, Giandomenico Bugna e Luca Pedrollo, esponendo: che amministratore unico della società, dichiarata fallita il 27 gennaio 1988, era stato il Pedrollo, ma che, di fatto, la stessa società era stata amministrata dal Bugna; che dall'esame della contabilità erano risultati prelievi non giustificati ed imputazione di oneri incompatibili con l'oggetto sociale; che il giudice delegato aveva autorizzato sequestro conservativo sui beni di Bugna e del Pedrollo sino a concorrenza dell'importo di lire 35.000.000.
Ciò premesso, la curatela proponeva azione di responsabilità nei confronti dei convenuti, di cui chiedeva la condanna al risarcimento dei danni: instava, altresì, per la convalida del sequestro.
Nella resistenza dei convenuti, il Tribunale adito, con sentenza del 2 giugno 1993, convalidava il sequestro, condannando gli stessi Bugna e Pedrollo, in solido, al pagamento della complessiva somma di lire 41.684.620, con interessi legali e spese del giudizio.
L'imputazione proposta dal solo Bugna, resistita dalla curatela, veniva accolta dalla Corte d'Appello di Venezia con sentenza del 7 dicembre 1995, rigettando le domande avanzate nei confronti dello stesso Bugna e dichiarando inefficace il sequestro conservativo.
Premesso che, in ordine alla responsabilità dell'amministratore di fatto, il ragionamento seguito dai primi giudici appariva intimamente contraddittorio,
la Corte osservava, sulla base dei principi affermati dalla sentenza n. 234-84 di questo giudice di legittimità, che, ai fini della responsabilità ex art. 2392 c.c., deve sempre esistere un rapporto con la società, in forza del quale colui che opera come amministratore è inserito nell'organizzazione sociale, e che ciò può realizzarsi solo attraverso un atto esplicito od implicito di proposizione del competente organo, che tenga luogo della formale delibera di nomina.
Valutando le risultanze probatorie alla luce di tale principio,
la Corte di merito osservava: che l'ampia procura rilasciata al Bugna dalla società (costituita sempre da due soli soci), pur potendo essere astrattamente considerata come atto di preposizione implicita all'amministrazione, tuttavia non era tale in concreto, essendo mancata, ad opera della curatela, la dimostrazione dell'esercizio di attività gestoria, caratterizzata da completezza e continuità, sì da non potersi ragionevolmente escludere la conoscenza, da parte dell'altro socio, dell'assunzione di compiti propri dell'amministratore; che a diversa conclusione non portava la circostanza che il Bugna avesse potere di firma su due conti correnti bancari, uno dei quali intestato alla società, non essendo stato provato il continuativo e sistematico utilizzo di detti conti per il pagamento delle obbligazioni societarie; che analogo discorso andava fatto sia per il controllo, di natura meramente tecnica, svolto dal Bugna sulla contabilità, sia per l'addebito alla società di somme corrisposte ad un'associazione per servizi di cui aveva usufruito il Bugna medesimo, non essendo logico far coincidere la persona del beneficiario con colui che, a tal fine, abbia realmente disposto del patrimonio sociale; che, infine, neppure dalla documentazione prodotta, quali due cambiali e tre assegni, era possibile trarre il convincimento che il Bugna avesse agito come amministratore di fatto, trattandosi di interventi riconducibili ai compiti affidatigli con la procura.
Per la cassazione di tale sentenza il Fall. Edilpò s.r.l. ha proposto ricorso con unico motivo. Resiste il Bugna con controricorso, illustrato anche con memoria.

Diritto

Con l'unico motivo, denunziando falsa applicazione degli artt. 2392, 2487 c.c., 115 e 166 c.p.c., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.), il fallimento ricorrente censura la sentenza impugnata per avere erroneamente criticato la decisione dei primi giudici, senza considerare che proprio la sentenza di questa Corte n. 234-84, richiamata per escludere la responsabilità del Bugna quale amministratore di fatto, doveva condurre a conclusione opposta, avendo affermato il principio secondo cui è sufficiente che vi sia stato l'unanime consenso dei soci: è alla luce di tale principio che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare le risultanze probatorie, in particolare la circostanza che la società era stata composta sempre di due soli soci, la procura di contenuto assai ampio e la documentazione prodotta. Secondo il ricorrente, la Corte territoriale ha finito per affermare che, per aversi amministratore di fatto, occorre un atto di nomina esplicito: si deve prescindere, invece, da un'investitura formale, in quanto l'ordinamento non può accettare, senza possibilità di reazione, che un soggetto vada esente da responsabilità dopo aver gestito una società.
La censura è infondata.
Alla stregua dei principi affermati da questa Corte, la responsabilità prevista dall'art. 2392 c.c. postula l'esistenza di un rapporto organico di amministrazione con la società, in forza del quale colui che opera come amministratore è inserito nell'organizzazione sociale, in modo che la sua attività sia direttamente riferibile alla persona giuridica: tale inserimento può aversi solo mediante un atto esplicito od implicito di preposizione del competente organo societario, che tenga luogo della formale delibera di nomina; in altri termini, la possibilità di applicare la disciplina della responsabilità di amministratore non legalmente nominato risulta circoscritta ai casi di nomina irregolare od implicita (così Cass. 234-84; cfr. anche Cass. 6493-85).
Trattasi di conclusione che ha trovato consenso nella prevalente dottrina: pur autorevolmente sostenuto, non può condividersi il diverso indirizzo, secondo cui l'esercizio di fatto delle funzioni rimane l'unico elemento da verificare per affermare la responsabilità dell'amministratore (di fatto), ove si consideri che - come ha precisato la citata sentenza n. 234-84 - la necessità di un rapporto organico con la società e, quindi di un atto di preposizione, ancorché implicito, deriva dalla stretta correlazione tra i poteri e i doveri che attengono ala posizione di amministratore, nel senso che i doveri non possono sorgere se non sono stati conferiti i corrispondenti poteri gestori.
Sempre Cass. n. 234-
84 ha evidenziato, d'altro canto, l'equivocità dell'espressione amministratore di fatto, essendo evidente che dall'esigenza di un rapporto di amministrazione, sebbene costituito in modo invalido od implicito, non possono derivare problemi di imputazione all'ente dell'attività gestoria, che è sempre svolta "de iure" per la società.
Con riferimento alla critica mossa da parte della dottrina a tale impostazione, va detto che la necessità di un atto di preposizione, sia pure implicito, non determina una completa e fittizia equiparazione tra amministratore di fatto e amministratore di diritto, ma si limita a sottolineare l'indefettibile collegamento tra poteri e doveri: potendosi anche osservare che, semmai, è la tesi della sufficienza dell'esercizio di fatto di funzioni gestorie che finisce per far coincidere le due figure, al di fuori del paradigma normativo dell'art. 2392 c.c..
Non è vero, inoltre, che, richiedendo un atto di preposizione (anche implicito), rimangono esenti da responsabilità i comportamenti del soggetto che, in mancanza di tale requisito, abbia gestito la società, essendo possibile invocare la responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., ben diversa da quella contrattuale prevista dall'art. 2392 c.c., ovvero, al ricorrere dei necessari presupposti di fatto e di diritto, quella del mandatario per infedele esecuzione del mandato: questioni che esulano, peraltro, dall'ambito della fattispecie oggetto del presente ricorso.
Quest'ultima considerazione vale anche a svuotare di contenuto l'argomento secondo cui il requisito della preposizione, sia pure implicita, comporterebbe che un soggetto penalmente perseguibile per avere esercitato di fatto attività di amministrazione vada esente da responsabilità in sede civile: a ciò si aggiunga la diversa natura della responsabilità penale rispetto a quella contrattuale di cui all'art. 2392 c.c., per la quale non si può comunque prescindere da un titolo di investitura (ancorché invalido od implicito).
Non a caso, infatti, la giurisprudenza penale di questa corte ha più volte ribadito che il dato formale ha scarsa irrilevanza, essendo importante il rapporto "naturalistico" tra persona e gestione dell'azienda (o cosa dell'azienda, oggetto di distrazione, agli effetti degli artt. 216 e
223 l.f.), atteso che la responsabilità penale è commisurata alla stregua di un fatto proprio, onde il dato fattuale prevale su quello dell'investitura: con la conseguenza che la responsabilità del c.d. amministratore di fatto si sostituisce a quella del legale rappresentante dell'ente solo quando il primo svolga una concreta gestione dell'impresa così complessiva e sostitutiva da ridurre il secondo ad una mera posizione formale, di apparenza (da ultimo, Cass., Sez. V, 17 genn. - 4 aprile 1996, n. 3333, ric. Giumento).
Contrariamente a quanto sostenuto dal fallimento ricorrente, infine, la sentenza n. 234-84 non ha affermato che, per aversi la responsabilità del c.d. amministratore di fatto ex art. 2392 c.c., è sufficiente che l'esercizio delle funzioni gestorie sia avvenuto con l'unanime consenso dei soci: anzi, essa ha precisato che la norma è inapplicabile nelle ipotesi in cui la gestione è svolta "con il consenso o su mandato dei soci o dello stesso amministratore legalmente nominato, in quanto ugualmente difetta un atto di preposizione dagli organi sociali abilitati", escludendo persino che possa costituire atto di preposizione riferibile alla società "un mandato ad amministrare di carattere generale, concernente ogni aspetto della gestione". Nella specie, infatti, la configurazione della responsabilità è dipesa soltanto dalla circostanza che per tutta la vita della società l'assemblea aveva approvato i bilanci, quale effetto dell'attività gestoria svolta in modo esclusivo da persona diversa dall'amministratore regolarmente nominato, essendosi a questo sostituito nella totalità dei compiti inerenti all'ufficio, sia nei rapporti interni, che in quelli esterni: elementi e circostanze, che la sentenza della Corte veneta, ora impugnata, ha radicalmente escluso nella situazione della soc. Edilpò e nei rapporti tra il Bugna e l'altro socio.
A questo riguardo, non colgono nel segno le critiche mosse dal ricorrente alla valutazione delle risultanze probatorie operata dal giudice di merito, il quale, facendo puntuale applicazione dei principi in tema di responsabilità ex art. 2392 c.c. e pur affermando che la procura di ampio contenuto rilasciata al Bugna potesse astrattamente considerarsi un atto di preposizione implicita all'amministrazione della società, ha ritenuto che, in concreto, detta procura non fosse qualificabile come tale, essendo mancata la prova sull'effettivo esercizio di attività gestorie, caratterizzata da completezza e continuità; in altri termini, ha escluso che la procura avesse assunto la funzione di ricondurre alla società, nei suoi rapporti interni ed esterni, l'attività espletata dal Bugna.
Anche le altre risultanze documentali e testimoniali sono state correttamente esaminate sotto tale profilo, essendosene evidenziata la limitata portata, in relazione alla saltuarietà degli atti od alla loro dubbia rapportabilità all'ente societario: tutto ciò, con ampia e coerente motivazione, a fronte della quale le censure del ricorrente si risolvono nell'inammissibile prospettazione di una diversa ed a sè più favorevole valutazione.
È infondato, infine, anche il rilievo secondo cui il giudice di merito non avrebbe adeguatamente considerato la circostanza che la società era stata sempre composta di due soli soci; in difetto dei requisiti di completezza e continuità dell'attività gestoria posta in essere dal Bugna e, per taluni aspetti, dalla stessa configurabilità di atti di gestione in senso proprio,
la Corte territoriale ha esattamente escluso la possibilità di ritenere che l'altro socio avesse accettato che il Bugna assumesse i compiti propri dell'amministratore.
In conclusione, il ricorso va rigettato ed il fallimento ricorrente condannato alle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M

La Corte rigetta e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, che liquida in lire 120.000, oltre lire 3.000.000 per onorari.
Così deciso in Roma, il 13 gennaio 1998.