Cassazione civile, SEZIONE I, 3 settembre 1996, n. 8048


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott.    Michele           CANTILLO                    Presidente
"       Alessandro        CRISCUOLO                   Consigliere
"       Giuseppe          MARZIALE                         "
"       Renato            RORDORF                     Rel. "
"       Simonetta         SOTGIU                           "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
CREDITO EMILIANO HOLDING SPA, in persona  del  legale  rappresentante
pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA  V.LE  G.  ROSSINI  9,
presso  l'Avvocato  NATALINO  IRTI,  che  lo  rappresenta  e  difende
unitamente all'avvocato LUIGI CORRADI, giusta delega in atti;
Ricorrente
contro
SINIGAGLIA SANDRO;
Intimato
avverso la sentenza n.  526-92  della  Corte  d'Appello  di  BOLOGNA,
depositata il 04-04-92;
udita la relazione della causa  svolta  nella  pubblica  udienza  del
15-02-96 dal Relatore Consigliere Dott. Renato RORDORF;
udito per il ricorrente, l'Avvocato Irti, che  chiede  l'accoglimento
del ricorso;
udito il P.M. in persona del  Sostituto  Procuratore  Generale  Dott.
Antonio BUONAIUTO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Sandro Sinigaglia, socio della Credito Emiliano Holding s.p.a. (in prosieguo indicata come il Credito Emiliano), convenne detta società in giudizio dinanzi al tribunale di Reggio Emilia e chiese che fossero dichiarati nulli i deliberati con cui l'assemblea aveva approvato il bilancio d'esercizio dell'anno 1982 (sopravvalutando la posta dell'attivo patrimoniale riguardante le azioni proprie), aveva proceduto alla nomina di quattro amministratori ed aveva determinato il compenso a costoro spettante. Con lo stesso atto il Sinigaglia chiese, altresì, che il tribunale dichiarasse la nullità dell'art. 8 dello statuto sociale, contenente una clausola (cosiddetta "di gradimento") volta a subordinare all'immotivata decisione degli organi sociali ogni eventuale trasferimento di azioni da parte dei soci, o in subordine, che fosse dichiarato nullo l'ultimo comma di detto articolo, introdotto con deliberazione assembleare del 1967, nella parte in cui tale disposizione statutaria assoggetta al medesimo regime anche la possibilità di alienazione dei diritti di opzione spettanti ai soci in caso di emissione di nuove azioni.
Chiese, infine, che la società convenuta fosse condannata a risarcire il danno (da liquidarsi in separata sede) da lui subito per non aver potuto cedere a terzi i diritti di opzione di cui era titolare in conseguenza della mancata concessione del gradimento da parte degli amministratori.
Tali domande, accolte dal tribunale solo nel senso dell'inefficacia dell'art. 8 dello statuto sociale, vennero poi, per effetto di contrapposte impugnazioni delle parti, portate all'esame della corte d'appello di Bologna, la quale, con sentenza depositata il 4 aprile 1992, dichiarò la nullità della deliberazione assembleare approvativa del bilancio del Credito Emiliano per l'anno 1982, dichiarò altresì la nullità dell'indicata clausola statutaria di gradimento, con riguardo ai vincoli da essa apposti sia al trasferimento delle azioni che dei diritti di opzione dei soci, e pronunciò condanna generica della società al risarcimento dei danni per la mancata concessione del gradimento ri chiesto a suo tempo dal Sinigaglia.
A fondamento di tale decisione la corte bolognese osservò che le oltre tremilacinquecento azioni proprie possedute dalla società erano state iscritte, nell'attivo patrimoniale del bilancio, al valore unitario di L. 144.639; valore da ritenersi però non corrispondente al reale, come poteva desumersi dal fatto che nel medesimo anno
1982, in occasione di un'operazione di fusione cui la società aveva partecipato, i periti a tal fine nominati avevano attribuito a quelle azioni il valore unitario di sole L. 94.189, senza che nessun chiarimento gli amministratori o i sindaci avessero fornito, nelle rispettive relazioni allegate al bilancio, di un così rilevante divario, neppur giustificabile con l'andamento del mercato, giacché nell'anno successivo le medesime azioni risultavano essere state vendute ad appena L. 35-36.000 ciascuna.
Quanto alla clausola di gradimento, premesso che non poteva trovare applicazione nella specie il disposto dell'art. 22 della legge n. 281 del 1985, entrata in vigore in epoca successiva ai fatti di causa, la corte territoriale rilevò trattarsi di una clausola di gradimento "mero", come tale implicante un'inammissibile compressione del diritto del socio di poter disporre della propria partecipazione sociale, e quindi nulla (e non solo inefficace), in conformità ai principi enunciati dalla Suprema corte con la sentenza n. 2365 del 1978. E del pari nulla, secondo la corte d'appello, doveva ritenersi l'estensione del medesimo regime di gradimento anche all'ipotesi di alienazione dei diritti di opzione, in quanto introdotta nello statuto con deliberazione assembleare assunta a maggioranza e non quindi riferibile all'unanime volontà di tutti i soci.
La domanda generica di risarcimento dei danni fu infine ritenuta meritevole di accoglimento perché il rifiuto della società di consentire al Sinigaglia la cessione a terzi dei diritti di opzione spettantigli era da considerare sostanzialmente immotivato e l'ostacolo così frapposto a tale cessione appariva potenzialmente dannoso per il Sinigaglia medesimo, in relazione al successivo andamento negativo del prezzo di dette azioni sul mercato.
Contro tale sentenza il Credito Emiliano ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi, illustrato anche con successiva memoria.
Il Sinigaglia non ha spiegato difese in questa sede.

Diritto

I - Il primo motivo di ricorso, concernente il capo di sentenza con cui è stata dichiarata nulla la deliberazione approvativa del bilancio del Credito Emiliano per l'anno 1982, è volto a denunciare la violazione dell'art. 2425 c.c. (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d. lgs. n. 127 del 1991), nonché il vizio di motivazione da cui sarebbe affetta l'impugnata sentenza.
La ricorrente si duole che la corte territoriale abbia giudicato incongruo il valore attribuito in bilancio alle azioni proprie della società sulla scorta di indicazioni desunte da una relazione di stima che, per esser stata effettuata al diverso fine di determinare il rapporto di cambio delle azioni in occasione di una precedente fusione, non sarebbe invece assolutamente significativa. Così come per nulla indicativa della pretesa sopravvalutazione di dette azioni sarebbe la circostanza che esse erano poi state vendute ad un prezzo minore nell'esercizio successivo, perché i fatti accaduti dopo la redazione del bilancio non possono essere utilizzati per giudicare ex post della congruità di valutazioni compiute in precedenza.
Pertanto, secondo il ricorrente, giacché la disposizione dell'art. 2425, n. 4, c.c. (nel testo all'epoca vigente) rimetteva al prudente apprezzamento degli amministratori la valutazione delle azioni in bilancio e poiché nessun elemento il socio impugnante aveva addotto per dimostrare che detta valutazione avesse esorbitato dai limiti della ragionevolezza, sarebbe errata (o, comunque, non adeguatamente motivata) la declaratoria di nullità pronunciata dalla corte bolognese.
Anche il secondo mezzo di gravame, con cui si lamenta la violazione degli artt. 1421, 2357- ter e 2379 c.c., è riferito alla pronuncia di nullità del deliberato assembleare con cui è stato approvato il bilancio d'esercizio del Credito Emiliano per l'anno 1982.
Il ricorrente si duole che la corte territoriale abbia omesso di considerare che l'asserita sopravvalutazione riguardava azioni proprie della società, per le quali l'art. 2357-ter c.c., recependo una prassi contabile già precedentemente praticata, stabilisce che dev'essere iscritta al passivo una riserva indisponibile pari al valore delle azioni stesse: di modo che tale duplice iscrizione (all'attivo tra le partecipazioni ed al passivo tra le riserve), comportando in ogni caso l'equivalenza delle due poste, renderebbe irrilevante, ai fini pratici, il criterio adottato per la valutazione di dette azioni. Perciò, sempre secondo il ricorrente, non potendosi dichiarare nulla una deliberazione assembleare se non per l'illiceità o l'impossibilità del suo oggetto, e non essendo configurabile alcuna di tali situazioni in presenza di un'iscrizione contabile comunque ininfluente sulla verità della rappresentazione patrimoniale della società, l'eventuale sopravvalutazione della posta in esame non avrebbe in nessun caso giustificato la decisione adottata, ed in rapporto ad essa avrebbe fatto difetto l'interesse dell'attore ad ottenere l'invocata pronuncia di nullità.
I.1 - Conviene esaminare congiuntamente i due motivi di ricorso di cui si è appena riferito, essendo evidente la connessione che li lega.
Si tratta, a giudizio della corte, di motivi infondati.
È opportuno brevemente premettere che, secondo un orientamento ormai da gran tempo consolidato (si vedano, per tutte, Cass. 14 marzo 1992 n. 3132, Cass. 8 giugno 1988 n. 3881 e Cass. 18 marzo 1986 n. 1839), dal quale non si ha qui alcun motivo per discostarsi, la deliberazione assembleare di una società di capitali con la quale venga approvato un bilancio redatto in modo non conforme ai fondamentali precetti stabiliti al riguardo dall'art. 2423 c.c. (o in violazione delle norme dettate dagli articoli seguenti, in quanto espressione di quei medesimi precetti) è da ritenersi nulla, per illiceità del suo oggetto, ai sensi dell'art. 2379 c.c.. Quei precetti, infatti, sono fissati dal legislatore in funzione di interessi che trascendono i limiti della compagine sociale e riguardano anche i terzi, pur essi destinatari delle informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società che il bilancio deve fornire con chiarezza e precisione (ovvero, come ora si esprime il secondo comma del citato art. 2423 dopo le modificazioni apportatevi dal d. lgs. n. 127 del 1991 - con chiarezza ed in modo veritiero e corretto), com'è reso evidente dal regime pubblicitario cui tale documento è soggetto. Donde consegue che un bilancio redatto in violazione di dette norme è, per ciò stesso, illecito, e, come tale, costituisce appunto oggetto illecito della deliberazione assembleare che, nondimeno, lo abbia approvato.
Da tale premessa discendono alcuni importanti corollari.
In primo luogo, va rilevato che il bilancio d'esercizio di una società di capitali è illecito non solo quando la violazione delle suaccennate norme determini una divaricazione tra il risultato effettivo dell'esercizio (o il dato destinato alla rappresentazione complessiva del valore patrimoniale della società) e quello del quale il bilancio dà invece contezza, ma anche in tutti i casi in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati non sia possibile desumere l'intera gamma delle informazioni che la legge vuole invece siano fornite con riguardo alle singole poste di cui è richiesta l'iscrizione.
Non può dubitarsi che la funzione del bilancio, soprattutto per l'aspetto che interessa i terzi, non è solo quella di misurare gli utili e le perdite dell'impresa al termine dell'esercizio, ma anche quella di fornire ai soci ed al mercato in genere tutte le informazioni che il legislatore ha ritenuto al riguardo di prescrivere. E giacché tali informazioni non attengono soltanto ai dati conclusivi, ma anche alle singole poste (ed al modo della loro formazione), onde il lettore del bilancio sia messo in grado di ripercorrere l'iter logico che ha guidato i redattori del documento nelle scelte e nelle valutazioni che ogni bilancio necessariamente implica, e sia posto in condizione di conoscere in maniera sufficientemente dettagliata anche la composizione del patrimonio della società ed i singoli elementi che hanno determinato un certo risultato economico di periodo, ne consegue che si avrà illiceità del bilancio ogni qual volta la violazione dei ricordati precetti inderogabili di legge non permetta di percepire, con chiarezza sufficiente, le specifiche informazioni che la lettura del documento e dei suoi allegati deve invece offrire con riguardo a ciascuna delle poste da cui il bilancio è formato.
Non può quindi seguirsi l'orientamento, pur talvolta echeggiato nella giurisprudenza di questa stessa corte, che subordina la rilevanza del precetto di chiarezza al rispetto di un sovraordinato principio di verità del bilancio, quasi che un bilancio non idoneo a fornire informazioni sufficientemente leggibili possa esser considerato valido sol perché, in ultima analisi, i dati in esso riportati non risultino, nella loro espressione contabile, contrari al vero. Una siffatta opinione sarebbe manifestamente insostenibile dopo che sono stati formalmente recepiti nel nostro ordinamento (con l'emanazione del citato d. lgs. n. 127) i dettami della quarta direttiva comunitaria in materia di società, palesemente ispirati alla massima valorizzazione del cosiddetto principio di trasparenza del bilancio. Essa, però, non appare condivisibile neppure alla stregua della normativa pregressa (in vigore all'epoca di redazione del bilancio qui in esame), alla cui interpretazione, del resto, non possono restare estranei i principi già da tempo enunciati dalla surrichiamata quarta direttiva, la cui emanazione risale al luglio del 1978: perché, se è vero che le direttive comunitarie, prima del loro formale recepimento, non sono suscettibili di diretta applicazione nei rapporti tra privati, è altresì vero che - come anche
la Corte di giustizia europea ha avuto modo di affermare nella sentenza resa il 14 luglio 1994 in causa n. 91-94 - il giudice "quando applica disposizioni di diritto nazionale, tanto precedenti quanto successive alla direttiva, ha l'obbligo di interpretarle quanto più è possibile alla luce dello scopo e della lettera della direttiva".
D'altronde, seguendo l'opinione qui contestata, da un lato si trascura senza alcuna reale giustificazione il dettato espresso dal citato art. 2423, che (nel testo allora vigente) pone il precetto di chiarezza sullo stesso piano di quello di precisione; senza suggerire alcuna graduatoria d'importanza e senza in alcun modo subordinare il rispetto del primo a quello del secondo o di qualsiasi altro precetto; d'altro lato, non si tien conto di ulteriori e non meno importanti disposizioni, quale ad esempio quelle dettagliatamente volte a disciplinare il contenuto della relazione degli amministratori, che invece testimoniano della massima importanza attribuita dal legislatore alla chiarezza delle singole informazioni che debbono essere garantite ai destinatari del bilancio. E si rischia perciò di tradire, in ultima analisi, la stessa ragion d'essere delle norme in esame, essendo di tutta evidenza che la mancanza di chiarezza nelle singole poste in cui il bilancio si articola fatalmente compromette quella funzione informativa (anche all'esterno della compagine sociale) che si è già visto essere uno degli scopi principali perseguiti dal legislatore nel disciplinare il profilo contabile del diritto societario.
Coerentemente con tali rilievi, dev'essere quindi ribadito che, proprio per la già rilevata funzione informativa del bilancio, l'interesse del socio ad impugnare per nullità la deliberazione approvativa di un bilancio redatto in violazione delle prescrizioni legali non dipende solo dalla frustrazione dell'aspettativa che il medesimo socio possa avere alla percezione di un dividendo o, comunque, da un immediato vantaggio patrimoniale che una diversa e più corretta formulazione del bilancio possa eventualmente far balenare. Quell'interesse, invece, ben può nascere dal fatto stesso che la poca chiarezza o la scorrettezza del bilancio non permette al socio di avere tutte le informazioni - destinate ovviamente a riflettersi anche sul valore della singola quota di partecipazione - che il bilancio dovrebbe invece offrirgli, ed alle quali, attraverso la declaratoria di nullità e la conseguente necessaria elaborazione di un nuovo bilancio emendato dai vizi del precedente, il socio impugnante legittimamente aspira (cfr. anche, in tal senso, la recente pronuncia di questa corte in data 30 maggio 1995, n. 3774).
Si dovrà poi ancora brevemente tornare sulle considerazioni difensive con cui la società ricorrente sostiene che, ove pure in concreto ravvisabile, la violazione delle norme in tema di appostazione nel bilancio di azioni proprie non sarebbe idonea a determinare la nullità del bilancio medesimo e della conseguente deliberazione approvativa, e non giustificherebbe l'interesse del socio all'impugnazione. Quanto sopra detto vale però sin d'ora a chiarire che tali considerazioni difensive muovono da premesse d'ordine generale non condivisibili.
I.2 - Il bilancio d'esercizio del Credito Emiliano, come già s'è accennato, è stato giudicato illecito dalla corte d'appello a causa della sopravvalutazione delle azioni proprie iscritte all'attivo della situazione patrimoniale.
Secondo la difesa della società ricorrente, di tale sopravvalutazione non sarebbe stata offerta prova adeguata e, comunque, essa sarebbe irrilevante.
Conviene cominciare da questo secondo rilievo, che mette in questione il modo stesso in cui, a termini di legge, debbono essere iscritte in bilancio le azioni proprie.
È noto che, a tal riguardo, la dottrina ha proposto nel tempo soluzioni diverse. Talvolta, in epoca più remota, si è sostenuto che le azioni di cui sia titolare la stessa società emittente, in quanto già rappresentative di una quota del patrimonio di quella medesima società, non sarebbero in grado d'incrementare ulteriormente detto patrimonio e dovrebbero, perciò, essere registrate in bilancio come semplici poste di memoria ("nummo uno").
Ma tale soluzione (oltre ad essere ora non facilmente conciliabile con il disposto dell'art. 2357-ter, ultimo comma, c.c.) è poco plausibile, perché si rivela incapace di dar conto dell'utilizzo di ricchezza impiegato dalla società nell'acquisto delle proprie azioni. E, però, pur dando atto della necessità d'iscrivere nell'attivo del bilancio una posta patrimoniale corrispondente al valore di dette azioni (o comunque dell'importo di utili impiegato nel relativo acquisto), una parte della più moderna dottrina, ricollegandosi per certi versi ai presupposti argomentativi di quella più antica tesi, tuttora sostiene che detta iscrizione possa prescindere da un'effettiva valutazione delle azioni di cui si tratta, in quanto la posta attiva sarebbe comunque destinata a trovare contropartita contabile in una posta passiva di uguale importo (come prescrive la citata disposizione dell'art. 2357-ter, introdotta, peraltro, in epoca successiva ai fatti cui si riferisce la presente causa). Il corollario di tale tesi sarebbe, secondo alcuni, la totale irrilevanza del valore attribuito alle azioni proprie in bilancio, la cui validità non potrebbe quindi essere giammai messa in discussione per un preteso eccesso o difetto di valutazione, dovendosi dette azioni iscrivere sempre e comunque per un importo pari alla somma degli utili impiegati per il loro acquisto.
Quest'opinione, come altra parte della dottrina non ha mancato di rilevare, non è però condivisibile, e le conclusioni cui essa conduce non sono accettabili. Essa presuppone che la posta passiva cui s'è fatto cenno abbia una mera funzione rettificativa dell'attivo, serva cioè unicamente ad elidere, nella somma algebrica le due colonne contrapposte dello stato patrimoniale, l'effetto dell'iscrizione in attivo del valore delle azioni proprie. Se anche così fosse, probabilmente non ne deriverebbe l'irrilevanza della valutazione attribuita a quelle azioni, perché il solo fatto che una posta venga iscritta in bilancio postula, logicamente, che essa debba poter fornire un'indicazione significativa e riferibile alla data di chiusura del bilancio. Vero è, comunque, che la posta passiva di cui è parlato non ha affatto funzione meramente rettificativa dell'attivo, ma costituisce invece una vera e propria riserva, destinata ad esprimere valori facenti parte del patrimonio netto della società. E ciò si desume con assoluta evidenza non solo dal già citato ultimo comma dell'art. 2357-ter, che appunto parla di "riserva indisponibile", ma anche, e soprattutto, dal tenore del vigente art. 2424, che appunto include la "riserva per azioni proprie in portafoglio" tra le poste del passivo destinate a rappresentare il patrimonio netto della società (ed impone di iscrivere le azione proprie all'attivo, distinguendo tra quelle che costituiscono immobilizzazioni finanziarie e quelle che fanno parte dell'attivo circolante). E se volesse obiettarsi che la norma da ultimo citata è stata introdotta nell'ordinamento nazionale in epoca successiva alla redazione del bilancio di cui qui si sta discutendo, occorrerebbe replicare che quella norma ha recepito un precetto comunitario (espresso nell'art. 9 della già richiamata quarta direttiva) emanato sin dagli anni settanta: onde, per le ragioni già dianzi illustrate, è doveroso optare anche nel caso di specie per un'interpretazione che sia conforme ai presupposti da cui l'accennata normativa comunitaria muove. Tanto più che tali presupposti paiono del tutto coerenti con la realtà di un fenomeno che pur sempre implica un impiego (non certo la neutralizzazione) dei valori monetari utilizzati per l'acquisto delle azioni proprie, le quali non cessano di costituire un valore esistente nel portafoglio della stessa società e possono, occorrendo, essere ricondotte ad espressione monetaria o trasformate in investimento di altro tipo per effetto di successiva alienazione.
Ed allora, anche ammesso che debba esservi una rigorosa e biunivoca corrispondenza tra l'entità della posta iscritta in attivo per indicare il valore delle azioni proprie in portafoglio e quella del passivo riguardante la suaccennata riserva di patrimonio netto, nulla permette di affermare l'irrilevanza dell'indicata valutazione ai fini della corretta redazione del bilancio, non foss'altro perché quella valutazione, in quanto destinata ad influenzare l'entità del patrimonio netto della società, si riflette in modo tutt'altro che marginale su una delle informazioni di maggiore importanza che un bilancio di società deve fornire ai propri destinatari.
Deve perciò concludersi, sul punto, nel senso che le azioni proprie in portafoglio, siccome rappresentano un valore che esiste nel patrimonio della società emittente ed è suscettibile di essere monetizzato, debbono essere iscritte in bilancio secondo i criteri di valutazione ed, in genere, secondo le regole stabilite dalla legge per qualsiasi altro titolo azionario. E deve aggiungersi che, per le già indicate funzioni informative del bilancio, se l'iscrizione di tali azioni sia avvenuta, invece, in violazione di detti criteri e di dette regole, il socio ha interesse a far dichiarare la nullità della deliberazione approvativa del bilancio anche per il solo fatto che, in tal modo, egli non è stato posto in condizione di avere una informazione corretta sulla situazione patrimoniale della società.
I.3 - Con riguardo all'iscrizione in bilancio delle partecipazioni azionarie, l'art. 2435, n. 4, c.c., nella formulazione in vigore al tempo della redazione del bilancio in esame, si limitava a stabilire che le azioni dovessero essere appostate ad un valore determinato dagli amministratori secondo il loro prudente apprezzamento (salvo tener conto, per i titoli quotati in borsa, dell'andamento delle quotazioni).
Prudente apprezzamento, però, come da tempo dottrina e giurisprudenza hanno chiarito, non significa incensurabile arbitrio, bensì uso di discrezionalità tecnica, correlato all'obbligo di motivazione delle scelte operate, come prescritto dallo (allora vigente) art. 2429-bis, primo comma, n. 1, c.c.. Con la conseguenza che una valutazione esorbitante dai limiti della ragionevolezza, o non chiara nelle sue motivazioni, è da considerarsi illegittima e tale da inficiare la validità del bilancio.
Quindi, se in linea di principio anche prima del recepimento in Italia della quarta direttiva comunitaria non poteva escludersi la correttezza dell'iscrizione delle azioni (anche proprie) ad un valore corrispondente al costo di acquisto, specie quando dette azioni avessero il carattere di una vera e propria immobilizzazione finanziaria (cfr., in proposito, Cass. 4 febbraio 1992 n. 1211, e Cass. 18 marzo 1986 n. 1839), ciò tuttavia non costituiva in nessun caso un criterio automatico, ma restava pur sempre soltanto uno dei possibili modi di esplicazione del prudente apprezzamento degli amministratori, soggetto ai limiti di ragionevolezza e di motivazione cui s'è appena fatto cenno. E non occorre aggiungere che, quanto più in concreto una valutazione discrezionale si avvicini ai margini della ragionevolezza, tanto più bisogna che di essa venga data una motivazione puntuale ed esauriente.
Orbene, la corte d'appello ha appunto escluso che la valutazione alle azioni proprie operata nel caso di specie dagli amministratori del Credito Emiliano, e poi trasfusa nel bilancio impugnato dal socio Sinigaglia, fosse ragionevole. Ed a tale conclusione è pervenuta sulla base del rilievo che, in occasione di un'operazione di fusione cui la società aveva partecipato nel corso del medesimo esercizio, a quelle azioni era stato attribuito un valore inferiore di quasi un terzo rispetto a quello indicato in bilancio; aggiungendo poi che tale diversa valutazione non avrebbe potuto giustificarsi neppure nella prospettiva di un forte rialzo delle quotazioni, smentito dal fatto che, nell'esercizio successivo, le medesime azioni erano state invece collocate sul mercato ad un prezzo pari addirittura alla metà del valore ipotizzato in sede di fusione.
Trattasi, con ogni evidenza, di un giudizio di merito congruamente motivato, cui non giova obiettare che la stima della congruità del rapporto di cambio nella fusione è altra cosa rispetto alle valutazioni di bilancio, o che il corso cedente dei titoli nell'esercizio successivo non è indicativo del loro valore al termine dell'esercizio cui il bilancio si riferiva.
Al primo argomento può replicarsi che il ragionamento svolto dalla corte bolognese non postula una coincidenza necessaria ed assoluta tra le diverse valutazioni del titolo azionario, ai fini del rapporto di cambio in sede di fusione ed ai fini dell'iscrizione in bilancio delle azioni della società, ma vale a porre in luce come tra dette valutazioni, riferite al medesimo arco di tempo, non sia plausibile una divaricazione così clamorosa, se non in presenza di ben precise cause che la giustifichino e delle quali, viceversa, nella specie non emergeva traccia. È certamente vero, infatti, che la stima operata per determinare il rapporto di valore tra azioni di società diverse, destinate a fondersi tra loro, ha carattere essenzialmente comparativo e può essere influenzata da fattori (anche di ordine soggettivo, e comunque rilevanti solo nel contesto negoziale in cui si attua il cambio tra azioni della società incorporata e dell'incorporante) estranei alla corretta determinazione di valore di quelle medesime azioni in sede di redazione del bilancio d'esercizio. Tuttavia, ciò non può indurre a dimenticare che si tratta pur sempre di valutazioni aventi, in definitiva, il medesimo oggetto, e che la discrezionalità riconosciuta agli amministratori nell'iscrizione delle azioni in bilancio deve esercitarsi nel rispetto del principio di prudenza, espressamente richiamato dalla citata disposizione dell'art. 2425 (nel testo all'epoca vigente); e la prudenza impone che i redattori di un bilancio tengano conto di un dato così rilevante e così prossimo nel tempo, quale quello che possa ricavarsi dalla stima delle azioni compiuta nell'ambito di un'operazione di fusione effettuata nel medesimo esercizio, e non azzardino una valutazione tanto più elevata senza che ve ne siano oggettive e ben dimostrabili ragioni.
Quanto al secondo rilievo, si deve osservare che l'andamento dei titoli nell'anno 1983 è stato richiamato dalla corte d'appello solo in guisa di argomento aggiuntivo e per sottolineare come neppure sotto il profilo del prezzo di mercato potesse giustificarsi una così macroscopica sopravvalutazione delle azioni in discorso. E se certo è vero che il valore di un determinato cespite al momento della chiusura del bilancio non può essere giudicato ex post, sulla base di eventi di mercato verificabili solo in epoca successiva, è vero anche, nondimeno, che il raffronto tra la stima delle azioni del Credito Emiliano operata in sede di fusione nell'anno 1982 ed il prezzo di vendita delle stesse azioni registrato nel 1983 offriva l'evidenza di un andamento assai negativo delle quotazioni nell'arco di tempo considerato, rendendo, perciò ancor più evidente l'incongruità di una valutazione di bilancio che, collocandosi nel mezzo dell'indicato periodo, aveva assegnato invece a quelle azioni un valore così macroscopicamente più elevato rispetto ad entrambi i suindicati estremi temporali di riferimento.
S'è già dianzi accennato, del resto, all'obbligo di motivazione delle scelte operate dagli amministratori, ed al fatto che quanto più una determinata scelta di bilancio si manifesti apparentemente non sorretta da una giustificazione evidente, tanto maggiore è la necessità di una adeguata spiegazione del criterio di valutazione seguito. Le considerazioni appena svolte rendono quindi superfluo sottolineare ulteriormente come il rispetto di quest'obbligo di motivazione fosse particolarmente necessario in un caso come quello in esame; e, viceversa, la corte territoriale ha accertato che di spiegazioni, al riguardo, non ne è stata fornita alcuna, perché nè i sindaci nè gli amministratori hanno dato ragione, nelle rispettive relazioni, della valutazione in bilancio delle azioni proprie e, soprattutto, dei motivi che giustificavano una valutazione così divaricata rispetto agli indicatori di valore cui sopra s'è fatto cenno.
In conclusione, deve perciò affermarsi che la valutazione delle azioni di società ai fini della loro iscrizione in bilancio, ai sensi dell'art. 2425, primo comma, n. 4, c.c. (nel testo in vigore prima dell'emanazione del d. lgs. n. 127 del 1991), determina l'illiceità del bilancio e la nullità della relativa deliberazione approvativa ogni qual volta gli amministratori, nell'esercizio del potere discrezionale loro attribuito dalla norma, abbiano violato il principio di prudenza, operando una valutazione macroscopicamente irragionevole, oppure non abbiano fornito (nè vi abbiano provveduto i sindaci nella loro relazione) un'adeguata spiegazione dei criteri cui detta valutazione si è ispirata. Con la precisazione che la verifica dell'eventuale violazione dei suaccennati limiti di ragionevolezza, così come quella concernente la sufficiente enunciazione dei criteri di valutazione, è rimessa al giudice di merito e, se adeguatamente motivato, non è censurabile in sede di legittimità.
II. - Il terzo motivo di ricorso sposta l'attenzione sulla declaratoria di nullità dell'art. 8 dello statuto del Credito Emiliano e della deliberazione assembleare che, introducendo un ulteriore comma in detto articolo, ha esteso anche all'ipotesi di alienazione dei diritti di opzione la clausola di gradimento originariamente prevista solo per il caso di trasferimento delle azioni.
Il Credito Emiliano, denunciando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2355 e 2379 c.c., nonché dell'art. 112 c.p.c., prospetta in realtà due ben distinti profili di doglianza.
In primo luogo, la società ricorrente osserva che l'indicata clausola statutaria non si limita a subordinare il trasferimento delle partecipazioni azionarie al gradimento degli organi sociali, ma contempla altresì l'onere per la stessa società di curare il collocamento delle azioni presso altri possibili acquirenti, così assicurando in ogni caso al socio la possibilità di uscire dalla compagine sociale: il che basterebbe ad escludere il dedotto profilo d'invalidità della clausola, la cui concreta attuazione nel caso di specie, del resto, neppure giustificherebbe la pronuncia di nullità emessa dalla corte bolognese, essendo stato adeguatamente motivato il rifiuto del placet al trasferimento dei diritti di opzione richiesto dal socio Sinigaglia ed essendosi la società offerta di agevolare comunque detto trasferimento ad altri soci. E comunque, poiché l'art. 22 della legge n. 281 del 1985 non qualifica le clausole di mero gradimento nulle, bensì inefficaci, e poiché detta norma ha valore interpretativo, non potrebbe parlarsi di nullità, ma semmai d'inefficacia della clausola in esame, come aveva correttamente ritenuto il tribunale.
In secondo luogo, il Credito Emiliano rileva che la domanda del Sinigaglia volta a far dichiarare la nullità anche dell'ultimo comma del citato art. 8 dello statuto, relativo al trasferimento dei diritti di opzione, era stata formulata solo in via subordinata, cioè per il caso in cui il giudice non avesse ritenuto fondata la precedente domanda in tema di nullità della clausola di gradimento riguardante i trasferimenti azionari. Poiché, però, quest'ultima domanda era stata invece accolta dalla corte d'appello, nessuna pronuncia avrebbe dovuto essere emessa sulla domanda subordinata. La quale domanda subordinata, in ogni caso, avrebbe dovuto esser respinta, in quanto la deliberazione assembleare con cui era stato a suo tempo approvato il menzionato ultimo comma dell'art. 8 dello statuto, lungi dall'implicare l'introduzione ex novo di un'ulteriore clausola di gradimento, aveva inteso semplicemente chiarire la portata della clausola già esistente e non richiedeva, perciò, l'unanime consenso del soci.
II.1 - Neppure le doglianze dianzi riassunte appaiono fondate.
Quanto al fatto che la clausola riportata nell'art. 8 dello statuto del Credito Emiliano sia da qualificare come di "mero gradimento" - secondo la nozione prima elaborata dalla giurisprudenza, a partire dalla nota sentenza di questa corte n. 2365-78, e poi ripresa dal legislatore nell'art. 22 della legge n. 281 del 1985 -, è sufficiente osservare che il giudice di merito ha accertato (nè vi è contestazione al riguardo, in punto di fatto) che detta clausola rimette al giudizio discrezionale del consiglio di amministrazione, o, in via di reclamo, dell'assemblea, un potere del tutto discrezionale di autorizzare o meno l'alienazione delle azioni (e dei diritti di opzione) del socio, senza in alcun modo vincolare l'esercizio di tale potere nè a criteri predeterminati nè, comunque, ad un connesso obbligo di motivazione. Il che giustifica la definizione di detta clausola come di "mero gradimento", dovendosi con quest'espressione appunto intendere un potere gradimento del tutto incondizionato e perciò tale da sconfinare in arbitrio.
Non vale a spostare i termini della questione la circostanza che, nella clausola in esame, sia anche prevista la possibilità di reclamo all'assemblea avverso il diniego di placet del consiglio di amministrazione. Che da tale possibilità di reclamo possa dedursi, per implicito, l'esistenza di un obbligo di motivazione del diniego del placet da parte dell'organo amministrativo è affermazione inaccettabile, per la sua evidente assiomaticità. Per il resto, è noto che le ragioni del disfavore dell'ordinamento verso l'introduzione di clausole siffatte negli statuti delle società azionarie risiedono, da un canto, nella naturale destinazione alla circolazione delle azioni, la cui alienazione può essere quindi, a norma dell'ultimo comma dell'art. 2355 c.c., sottoposta dall'atto costitutivo a particolari condizioni, ma non del tutto impedita, come invece ben potrebbe accadere ove ogni scelta al riguardo fosse rimessa all'arbitrio degli organi sociali; e, d'altro canto, nella necessità d'impedire che il socio - privo com'è, in questo tipo di società, di un diritto di recesso generalizzato, fuor dei casi tassativamente indicati dall'art. 2437 c.c. - resti "prigioniero della società", per effetto di un meccanismo che finirebbe per subordinare completamente ogni suo diritto di disposizione sull'azione a determinazioni del tutto insindacabili degli organi sociali. Inconvenienti, questi, che evidentemente non dipendono dall'essere il gradimento rimesso alla discrezionalità dell'organo assembleare o di quello amministrativo della società, oppure di entrambi, l'uno in veste di revisore dell'operato dell'altro, finché resti insito in tale meccanismo il connotato della potenziale arbitrarietà della decisione, in quanto non correlata a criteri oggettivi e predeterminati nè ad un obbligo di motivazione che consenta di verificare la correttezza e la ragionevolezza del bilanciamento compiuto tra gli interessi sociali e quelli del socio alienante.
La ricorrente sottolinea, però, che la clausola di gradimento inserita nello statuto del Credito Emiliano contiene anche un'ulteriore previsione, che sembrerebbe in certo senso attenuarne il rigore, giacché stabilisce che, su richiesta dell'azionista, la società potrà "curare il collocamento delle azioni a prezzo non inferiore al valore corrispondente pro quota del capitale sociale e della riserva ordinaria, risultante dall'ultimo bilancio approvato".
Neppure tale previsione, tuttavia, è idonea a rendere detta clausola conforme ai principi dell'ordinamento. È vero che questa stessa corte ha di recente affermato la legittimità di una previsione statutaria di gradimento che, quantunque non correlata a criteri predeterminati, sia bilanciata dall'obbligo per la società, in caso di rifiuto del placet, di designare un altro acquirente gradito (si veda la sentenza n. 7890 del 1995). Ma non sembra affatto che la situazione sia in questo caso la medesima. Intanto altro è il prevedere la possibilità di vendere le azioni a persona diversa da quella inizialmente dal socio indicata, ma alle medesime condizioni o comunque secondo oggettivi parametri di mercato, altro è ipotizzare un non meglio precisato impegno della società a collocare le azioni ad un prezzo corrispondente ai valori nominali (nemmeno dell'intero patrimonio netto, bensì solo) del capitale e della riservi ordinaria iscritti in bilancio. Ma, soprattutto, deve notarsi come la clausola inserita nello statuto del Credito Emiliano non ponga alcun collegamento necessario tra l'operatività del rifiuto del gradimento, da un lato, e la concreta possibilità di collocare le azioni presso un diverso acquirente designato dalla società, dall'altro. Non è stabilito, cioè, che il placet possa essere rifiutato solo a condizione che la società designi (entro un ragionevole lasso di tempo) altro compratore delle medesime azioni, e che, in caso contrario, il socio è libero di cedere le proprie azioni a chi preferisce, come, invece, sarebbe indispensabile per evitare effettivamente quel rischio di "imprigionamento" del socio che si è visto essere a base del divieto delle clausole di mero gradimento. Il solo fatto che la società possa (o magari debba) adoperarsi in tal senso riconduce l'individuazione dell'acquirente alternativo pur sempre nel novero delle semplici eventualità, mentre solo l'automaticità e la certezza di una tale evenienza potrebbe giustificare l'esercizio, da parte degli organi sociali, di un potere totalmente discrezionale ed immotivato con cui si neghi al socio l'autorizzazione a cedere le proprie azioni ad un terzo già disposto ad acquistarle.
Ciò chiarito, non giova sostenere che, in concreto, gli organi sociali del Credito Emiliano, nel rifiutare il placet richiesto dal socio Sinigaglia, avrebbero fatto buon uso dei poteri statutari di cui disponevano. Tale assunto, come meglio si dovrà precisare in seguito, non trova avallo nella valutazione al riguardo compiuta dalla corte territoriale, che non può essere rimessa qui in discussione avendo il giudice di merito adeguatamente motivato il proprio convincimento al riguardo. Ma, anche a prescindere da ciò, occorre osservare che la validità o l'invalidità di una clausola statutaria dev'essere giudicata in base al modello organizzativo che essa presuppone o consente, indipendentemente dal modo in cui ne sia stata data, in questo o quel caso, concreta applicazione, non potendosi certo negare al socio l'interesse a che una clausola non conforme ai precetti inderogabili dell'ordinamento giuridico - e perciò stesso idonea a determinare anche in avvenire il rischio di comportamenti che la legge invece disapprova - venga espunta dall'ordinamento interno della società.
II.2 - La società ricorrente, come già s'è accennato, mette in discussione la pronuncia impugnata anche per aver dichiarato nulla, e non soltanto inefficace, la più volte ricordata clausola statutaria di mero gradimento.
A tale conclusione la corte d'appello è pervenuta muovendo dal presupposto che, ai sensi dell'art. 22 della citata legge n. 281, una clausola siffatta sarebbe inefficace, e non nulla; ma che, costituendo tale legge un jus superveniens, rispetto alla situazione cui il giudizio doveva riferirsi, e non potendo esserle riconosciuta valenza retroattiva, se ne dovesse prescindere e si dovesse perciò giudicare unicamente in base ai principi elaborati in precedenza dalla giurisprudenza.
Tali argomentazioni non appaiono persuasive, e debbono quindi essere rivedute, ai sensi dell'art. 384, secondo comma, c.p.c., ancorché la decisione debba esser tenuta ferma.
L'assunto secondo cui la disposizione dettata dall'art. 22 della citata legge del 1985 sarebbe applicabile solo a partire dall'entrata in vigore della medesima legge non è idoneo a sorreggere le conclusioni che la corte territoriale ne ha tratto. Quella disposizione, infatti, nel definire inefficaci le clausole di mero gradimento contenute negli statuti delle società azionarie, evidentemente ha inteso disciplinare, anche per l'avvenire, la situazione esistente al tempo della sua entrata in vigore. Ma tale situazione era, per l'appunto, quella derivante dagli statuti delle società costituite e tuttora in vita in quel momento, non certo quella riferibile solo alle società che si sarebbero successivamente costituite, perché la norma soltanto implicitamente esprime un comando rivolto a chi si accinga a stipulare nuovi contratti di società, ed è invece esplicitamente volta a stabilire se e quali effetti l'ordinamento possa riconoscere, sin dalla sua entrata in vigore, alle previsioni statutarie in essere. Le quali previsioni statutarie, in quanto non esauriscono i propri effetti in un singolo momento, ma hanno attitudine a regolamentare nel tempo il funzionamento e l'organizzazione della società, son destinate a ricadere nell'ambito di applicazione della predetta norma per il solo fatto che la società tuttora esiste e che esse sono quindi ancora operanti quando quella norma è entrata in vigore. L'attenzione, pertanto, va focalizzata sul significato dell'espressione "sono inefficaci", che la legge ha adoperato, in ordine alla quale la dottrina ha manifestato opinioni assai variegate.
La medesima dottrina, tuttavia, ha da tempo insegnato a distinguere tra la nozione di inefficacia in senso lato e quella di inefficacia in senso stretto. Nel primo senso, può parlarsi d'inefficacia di un atto negoziale in tutti i casi nei quali l'ordinamento non consente che gli effetti di quell'atto si producano, o ipotizza che essi si producano soltanto in modo effimero o provvisorio; sicché tale ampia nozione d'inefficacia ricomprende anche quella del negozio intrinsecamente viziato, cui per ciò stesso l'ordinamento non riconosce la capacità di determinare conseguenze giuridicamente rilevanti, oltre a quella che invece dipenda da fattori esterni destinati a condizionare la capacità di un atto, in sè valido, di produrre effetti (o di produrne solo alcuni, ovvero di produrli in modo duraturo anziché effimero). Situazioni, queste ultime, solo in presenza delle quali si può invece parlare d'inefficacia in senso stretto, contrapposta alla nozione d'invalidità.
Orbene, per quel che riguarda le clausole di mero gradimento, sembra alla corte che occorra anzitutto porre in evidenza come l'inefficacia di cui parla l'art. 22 della legge citata (dai cui lavori preparatori nulla è dato al riguardo desumere) abbia certamente carattere assoluto. Il meccanismo stesso della clausola di gradimento ed il fatto che essa sia inserita nello statuto della società - essendo, quindi, destinata ad operare sul piano dell'organizzazione sociale e, solo in funzione di quella, a riflettersi sulle posizioni soggettive del socio alienante e del terzo acquirente - impediscono d'ipotizzarne un'inefficacia relativa, tale per cui la clausola, benché inefficace verso taluno, potrebbe ancora risultare produttiva di effetti nei riguardi di altri.
D'altro canto, merita anche di esser sottolineato come la ragione per la quale la clausola in questione è assolutamente inidonea a produrre effetti non dipende da fattori ad essa estrinseci, e tanto meno ha carattere temporaneo o provvisorio. L'inefficacia della clausola di mero gradimento deriva, invece, unicamente dal rifiuto dell'ordinamento di riconoscere come meritevoli di tutela le finalità cui una clausola siffatta mira e l'assetto organizzativo della società che da essa consegue: ossia da ragioni strettamente legate al modo di essere di detta clausola ed eliminabili solo a condizione di sostituirla con una clausola (di gradimento non "mero") congegnata in maniera diversa.
Inoltre, pare senz'altro da escludere che il richiamo operato dal legislatore al concetto d'inefficacia, anziché di nullità, possa esser qui dipeso dall'intento di assicurare un qualche margine di sopravvivenza alle clausole di mero gradimento preesistenti, al fine di consentirne la trasformazione in clausole di gradimento non "mero" mediante una modifica dell'atto costitutivo deliberata a maggioranza dall'assemblea dei soci. Se si muove dalla premessa che nessuna clausola di gradimento può essere introdotta nello statuto sociale senza l'unanime consenso di tutti gli azionisti, perché la società non è legittimata a disporre di quello che si ritiene essere un vero e proprio diritto individuale del socio (cfr., in tal senso, da ultimo, Cass. 9 novembre 1993, n. 11057), pare invero evidente che in nessun caso sarebbe ammissibile, se non con l'adesione di tutti i soci, emendare una clausola di mero gradimento, originariamente inefficace, così da renderla produttiva di effetti: perché anche ciò equivarrebbe ad introdurre delle limitazioni alla circolazione azionaria che prima, a causa della radicale inefficacia di detta clausola, non sussistevano.
Pertanto, nella suaccennata dicotomia tra l'uso del termine "inefficacia" in senso ampio o in senso stretto, sembra di dover senz'altro propendere per la prima soluzione, perché, per un verso, non ricorre alcuno dei connotati che caratterizzano l'inefficacia come fenomeno contrapposto all'invalidità, e, per altro verso, la logica stessa in cui l'art. 22 della citata legge s'iscrive postula l'esistenza di un inderogabile divieto di clausole di mero gradimento, che non può non minarne in radice la validità.
Se ciò è vero, deve allora ritenersi che il legislatore ha adoperato l'indicata espressione al solo fine di descrivere le conseguenze dell'invalidità di quelle clausole, considerando tale invalidità come presupposta. Ed il vizio da cui le clausole di mero gradimento sono affette non può altrimenti qualificarsi che come vera e propria nullità (e così, infatti, anche la precedente giurisprudenza l'aveva qualificata), attesa la radicale ed assoluta inidoneità di dette clausole a produrre effetti. Nè può tacersi, d'altronde, che proprio questa radicale ed assoluta inidoneità a produrre effetti varrebbe comunque a rendere le clausole di mero gradimento nulle anche sotto il profilo dell'art. 1418, secondo comma, in relazione all'art. 1346 c.c., trattandosi appunto di pattuizioni negoziali intrinsecamente incapaci di realizzare lo scopo cui esse sono dirette e, dunque, aventi un oggetto impossibile.
II.3 - Quanto al gradimento relativo alla cessione dei diritti di opzione, previsto dall'ultimo comma del citato art. 8 dello statuto del Credito Emiliano (comma introdotto con deliberazione assembleare assunta a maggioranza), il proposto motivo di gravame contiene una questione di diritto sostanziale ed una - logicamente preliminare - di carattere processuale.
Quella processuale è, però, mal posta, perché la formulazione della domanda subordinata del Sinigaglia era ovviamente da intendere nel senso che, in via principale, egli chiedeva la nullità dell'art. 8 nella sua interezza, compresa dunque la parte relativa all'opzione, ed in subordine la nullità di questa sola parte, come conseguenza dell'invalidità della deliberazione assembleare che l'aveva a suo tempo approvata. Ed allora, può esser vero che l'esplicita declaratoria di nullità di tale deliberazione era superflua, dal momento che era già stata accertata la nullità della clausola nel suo complesso, ma è altrettanto vero che nessun concreto interesse ha ora il ricorrente a dolersi di ciò, perché rimane comunque fermo che anche l'ultimo comma del citato art. 8 dello statuto è nullo, onde discettare della validità o invalidità della deliberazione che lo ha introdotto si risolverebbe in uno sterile esercizio.
III - Il quarto motivo d'impugnazione, volto a denunciare la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2043 c.c., si riferisce alla condanna generica al risarcimento dei danni che la corte d'appello ha inflitto al Credito Emiliano per l'illegittimo ostacolo frapposto all'alienazione dei diritti di opzione del socio Sinigaglia.
Secondo la società ricorrente, non essendo stata fornita prova alcuna dell'illiceità del comportamento imputato agli amministratori della società, e non essendo stata neppure dimostrata la potenzialità dannosa del diniego del placet, quella condanna non avrebbe dovuto esser pronunciata: tanto più che, ove davvero l'indicata clausola di gradimento fosse stata nulla, il socio avrebbe ben potuto alienare ugualmente i propri diritti, ed avrebbe comunque potuto farlo aderendo all'offerta del Credito Emiliano di collocare quei diritti presso altri soci.
Anche tale doglianza è infondata.
Il fatto che il diniego di gradimento fosse illegittimo discende da quanto sopra detto circa l'invalidità della relativa clausola.
Che poi, in concreto, il diniego fosse stato motivato è stato escluso dalla corte d'appello, la quale ha incensurabilmente accertato che le ragioni addotte dalla società per respingere la richiesta di placet avanzata dal socio (essere il numero delle azioni del Sinigaglia troppo esiguo) apparivano generiche ed arbitrarie. Ed è del pari motivata ed incensurabile l'affermazione del giudice di merito circa la potenzialità dannosa del descritto comportamento della società.
La circostanza, poi, che la società si sarebbe successivamente adoperata per consentire comunque al socio di alienare i propri diritti, potrà essere semmai valutata nel giudizio relativo alla liquidazione del danno, ma non vale certo ad escludere la potenzialità dannosa dell'originario rifiuto di gradimento. Come pure non giova obiettare che, essendo la clausola in questione nulla, il socio avrebbe potuto del tutto ignorarla e non patire danno: giacché, al contrario, appare evidente che l'ingiusta lesione da risarcire dipende dalla concreta attitudine del comportamento illegittimo della società a rendere più difficoltosa la prospettata alienazione dei diritti d'opzione di cui il socio era titolare, cioè da un ostacolo di fatto, che il socio non sarebbe stato in condizione di rimuovere se non rivolgendosi al giudice per far accertare la nullità della clausola in questione, come appunto è accaduto.
IV - Alla luce delle considerazioni svolte, il ricorso del Credito Emiliano dev'essere respinto.
Non v'è da provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, non essendosi l'intimato costituito in tale giudizio.

P.Q.M

La corte rigetta il ricorso.
Così deciso, in Roma, il 15 febbraio 1996.