Cassazione civile, SEZIONE I, 29 ottobre 1994, n. 8927
SEZIONE I CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Vincenzo SALAFIA Presidente
" Antonino RUGGIERO Consigliere
" Gian Carlo BIBOLINI Rel. "
" Vincenzo PROTO "
" Simonetta SOTGIU "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
FINANZIARIA REGIONALE FRIULI VENEZIA GIULIA - FRIULIA S.P.A., in
persona del suo presidente, rappresentata e difesa dagli Avv.ti
Luciano Sampietro, Loredana Bruseschi e Franco Picciaredda, presso lo
studio del quale ultimo in Roma, via Panama n. 95, è elettivamente
domiciliata, giusta delega a margine del ricorso introduttivo.
Ricorrente
contro
1) RAG. GALOTTO ALFREDO;
2) DR. GALOTTO FRANCESCA;
3) GALOTTO BASILE VALENTINA;
4) DR. GALOTTO GIOVANNI;
5) GALOTTO MASSIMO;
tutti rappresentati e difesi, giusta mandato a margine del
controricorso, dall'Avv. Mario Marino e dall'Avv. Romolo Persiani,
presso lo studio del quale ultimo in Roma, via Toscana n. 1, hanno
eletto domicilio.
Controricorrenti
avverso la sentenza N. 309-89 pronunciata dalla Corte d'Appello di
Trieste in data 19 ottobre 1989;
udita la relazione del consigliere Gian Carlo Bibolini;
sentito il P.M. dott. Michele Lugaro il quale ha chiesto
l'accoglimento del ricorso.
Sulla base di un accordo stipulato in data 1 settembre 1980 con i
signori Alfredo, Valentina, Francesca, Giovanni e Massimo Galotto (soci titolari
del capitale sociale della s.p.a. Laminatoio di Buttrio), la s.p.a. Friulia
(finanziaria regionale) aveva acquisito una partecipazione azionaria di L. 100.000.000
della società predetta (10%). Nell'accordo era previsto l'obbligo dei soci di
svolgere un programma di riorganizzazione e di sviluppo della società (clausola
n. 5), programma comprendente:
a) il completamento di investimenti per L. 70.000.000;
b) l'impiego di 56 unità lavorative;
c) il raggiungimento ed il conseguimento di un fatturato almeno di 13.000.000.000
di lire nel 1982.
In caso di inadempimento a dette condizioni (clausola n. 13) era previsto che
la s.p.a. Friulia potesse esigere che i Galotto riacquistassero le azioni della
società vendute alla Friulia, al prezzo dalla stessa esborsato e maggiorato
dell'interesse semplice del 7% annuo.
Nel caso, invece, di esito favorevole del programma, era previsto per i Galotto
il diritto di riscattare dalla s.p.a. Friulia le azioni della s.p.a. Laminatoio
di Buttrio, e ciò a prezzo predeterminato ed entro certo termine.
L'accordo predetto era riconfermato, anche negli obiettivi, con atto in data
5 ottobre
Con ricorso in data 7 novembre 1985 la s.p.a. Friulia chiedeva ed otteneva dal
Presidente del Tribunale di Trieste ingiunzione di pagamento di L. 136.150.685
contro i Galotto sul presupposto che, dopo aver raggiunto le finalità fissate
nell'accordo, la s.p.a.
Laminatoio di Buttrio non aveva continuato l'attività e con delibera assembleare
del 5 luglio 1985 aveva deciso la cessazione dell'attività produttiva e la rottamazione
degli impianti al fine di fruire del contributo statale previsto dall'art. 2
della L. n. 193-
Su opposizione dei signori Galotto il Tribunale di Trieste pronunciava con sentenza
18 marzo 1987 la revoca del D.I., sul presupposto, ritenuto, dell'insussistenza
del credito in coerenza con l'accertata natura di "lettera di patronage"
dell'atto in contestazione in relazione alle obbligazioni assunte dai soci;
in relazione al fatto che da una lettera di patronage può nascere solo una responsabilità
aquiliana, e non contrattuale e che detta responsabilità nella specie non era
sorta in quanto le promesse erano state mantenute per quanto atteneva al raggiungimento
del fatturato preventivato, mentre
Su appello della finanziaria regionale, e nel contraddittorio dei soci Galotto,
pronunciava
In particolare
Ed invero, l'obbligo dei precedenti soci di riacquistare la quota venduta alla
Friulia in caso di inadempienza, e l'obbligo della Friulia di vendere a condizioni
predeterminate ai vecchi soci in caso di inadempimento sottraeva la socia Friulia
alternativamente alle perdite ed ai profitti societari, configurando sotto entrambi
gli aspetti un "patto leonino" contrario al precetto dell'art. 2265
c.c.
Nè detto patto, così configurando, troverebbe giustificazione alcuna nel fatto
che la s.p.a. Friulia era una finanziaria regionale istituita in base alla legge
regionale 5 agosto 1966 n. 18 con la finalità di promuovere lo sviluppo economico
della regione non solo con l'assistenza finanziaria e tecnico-amministrativa,
ma anche mediante la partecipazione a società per azioni. Riteneva
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione la s.p.a.
Friulia sulla base di due motivi, integrati da memoria; si costituivano con
controricorso i signori Alfredo, Francesca, Valentina, Giovanni e Massimo Galotto.
I ) Con il primo mezzo di cassazione la ricorrente deduce la falsa
applicazione dell'art. 2265 c.c in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., sostenendo,
sul ritenuto patto leonino, che l'intera motivazione svolta dalla Corte del
merito era basata su assiomi, non essendo stato riguardato il complesso dei
patti, nè sotto il profilo soggettivo, nè sotto quello oggettivo.
Sostiene la ricorrente che se
In questa prospettiva, che è coerente con la finalità della finanziaria regionale
secondo la legge regionale di previsione, le clausole esaminate dalla Corte
non avrebbero costituito patto leonino, ma clausola "penale" a favore
di una parte in caso di inadempimento e clausola "premiale" per l'altra
parte in caso di adempimento. In questa prospettiva nè l'una nè l'altra clausola
costituirebbero patto leonino. Non la prima perché non si esclude la sopportazione
di perdite da parte della Friulia, in caso di gestione negativa per cause diverse
dall'inadempimento. Non la seconda che conferma il diritto della Friulia, finché
socia, alla percezione degli utili, la cui detrazione opera soltanto in funzione
della determinazione del prezzo della eventuale cessione delle azioni ai soli
soci Galotto.
II ) Con il secondo mezzo la ricorrente deduce la violazione (mancata applicazione)
degli art. 1381 e 1382 c.c. ed omessa motivazione, sotto il profilo dell'art.
360 n. 3 e 5 c.p.c.
La ricorrente, richiamando le proprie difese dei gradi di merito, sostiene che
la fattispecie deve essere inquadrata nella promessa del fatto del terzo (art.
1381 c.c.) ove oggetto della promessa era la realizzazione di un programma di
riorganizzazione e sviluppo aziendale, promittenti erano i Galotto nel 1980
nonché i Galotto e
Laminatoio di Buttrio.
La conseguenza dell'inadempimento erano le situazioni risolutive e risarcitorie
previste dalle clausole 13 dell'atto 1 settembre 1980 e 14 dell'atto 5 ottobre
1982. Rispetto alla promessa del fatto del terzo, dette clausole null'altro
erano se non clausole penali sanzionanti l'inadempimento del patto.
I due motivi meritano una trattazione congiunta coinvolgendo un'unico problema
visto sotto diversi punti di vista.
La controversia, quale emerge dal dibattito tra le parti, pone un quesito fondamentale
e cioè: se l'omessa partecipazione alle perdite o agli utili integri la condotta
negoziale vietata dall'art. 2265 c.c. per la società semplice ed estendibile
a qualsiasi tipo sociale, quand'anche le relative clausole pattizie non siano
parte del contratto sociale ma di patti parasociali e quand'anche il limite
di partecipazione agli utili o alle perdite non sia assoluto, ma sottoposto
a condizioni coordinabili con il perseguimento di una funzione, in ipotesi meritevole
di tutela giuridica a norma dell'art. 1322 c.c., ed espressione dell'autonomia
negoziale.
La tesi rigoristica ed unitaria seguita dalla Corte di Trieste, uniformatasi
a rilevanti voci di dottrina sul punto, merita opportuna considerazione, così
come merita adeguato rilievo la tesi aperta a più ampie possibilità sostenuta
dalla ricorrente nell'ipotesi in cui la limitazione del socio alla percezione
degli utili ed alla partecipazione alle perdite sia parte di una più ampia negoziazione
parasociale, che ha trovato riscontro in alcune voci di dottrina ed in alcune
datate pronunce di questa Corte, che ben raramente ha avuto occasione di esprimersi
sulla disciplina dell'art. 2265 c.c.
Innanzi tutto occorre individuare il caso di specie, nella sua configurazione
negoziale, secondo le indicazioni emergenti dalla sentenza oggetto del ricorso
e dai riferimenti incontroversi delle parti nel giudizio di legittimità.
La s.p.a. Friulia - Finanziaria Regionale Friuli Venezia Giulia - è una finanziaria
regionale operante per scopi di pubblico interesse, volti a promuovere lo sviluppo
economico regionale ed operante con la finalità di reintegrazione di condizioni
di economicità di imprese in crisi, ovvero di promozione di nuove attività economiche,
nella regione costituente l'ambito di esplicazione della sua attività.
In tale veste
Laminatoio di Buttrio, responsabili dell'impostazione produttiva e della gestione
aziendale un programma promozionale cui essa contribuiva finanziariamente (programma
individuato mediante il conseguimento entro un certo termine di determinati
risultati), aveva acquisito azioni per L. 100.000.000 convenendo con i soci
stessi due ipotesi alternative, e cioè:
1) in caso di mancato conseguimento del risultato convenuto,
2) in caso di raggiungimento e di consolidamento del risultato convenuto, i
soci Galotto si riservavano il diritto di riscattare le azioni della Friulia
al prezzo di acquisto.
La liquidazione della quota, quindi, nell'un caso e nell'altro, secondo la tesi
espressa dalla Corte di Trieste, avrebbe neutralizzato
Già da questi dati fondamentali, peraltro, emerge che la neutralizzazione della
quota societaria acquisita dalla Friulia rispetto alla partecipazione agli utili
ed alle perdite non era caratteristica assoluta nè costante, quanto meno secondo
il dato testuale delle clausole richiamate. Ed invero, sotto il primo profilo
(quello delle perdite)
Ed ancora, sotto il secondo profilo, la mancata partecipazione della Friulia
agli utili, secondo l'illustrazione della Corte del merito, sarebbe collegata
al potere, da parte degli altri soci, di riscattare le azioni della Friulia
a condizioni predeterminate. Ciò è vero, però, solo in parte; è vero, in particolare,
per gli utili non distribuiti e cumulati con il capitale; non è vero per gli
utili che fossero stati distribuiti con i bilanci annuali durante il periodo
di titolarità delle azioni da parte della finanziaria regionale, utili distribuiti
che nessuna incidenza avrebbero potuto avere sul valore del capitale e delle
azioni.
In conclusione, vi era indubbiamente la possibilità concreta che
Tanto premesso in ordine alla situazione in discussione, occorre puntualizzare
in linea di diritto che il precetto vincolante dell'art. 2265 c.c., indubbiamente
estensibile a tutti i tipi sociali in quanto attinente alle condizioni del tipo
"contratto società" è, secondo la fattispecie derivante dalla norma,
caratterizzata da due situazioni, e cioè:
a) il patto leonino nullo sussiste quanto un socio viene escluso, in via alternativa,
da "ogni" partecipazione agli utili o alle perdite, ed a maggior ragione
quando venga escluso da entrambe le forme di partecipazione indicate;
b) il patto, in via di normalità, costituisce parte del contratto sociale, individuando
la posizione di un socio nell'ambito societario e nella compagine sociale.
In ordine alla caratteristica sub a), di conseguenza, il patto leonino non caratterizza
la posizione di un socio che pur possa partecipare alle perite ed agli utili,
in misura non coerente all'entità delle azioni possedute; la mancata rispondenza,
nell'entità percentuale rispetto al capitale sociale, tra poteri corporativi
e diritti o rischi patrimoniali, è situazione che esula dal precetto dell'art.
2265 c.c. ed in esso rientra sol quando la mancata rispondenza tra poteri, da
un lato, diritti e rischi dall'altro, riduca questi ultimi a nulla, caratterizzando
in tale senso la posizione del socio "leo".
È opportuno ricordare, per il tipo "società per azioni" richiamabile
nella specie, la disciplina dell'art. 2351 c.c. che, nella previsione delle
azioni privilegiate, raggruppa in modo indifferenziato tutte le azioni munite
di diritti patrimoniali maggiorati di quelli normalmente attribuiti dalla partecipazione
sociale, lasciando all'autonomia negoziale (statutaria) la determinazione dell'entità
e del modo d'essere del privilegio, con l'unico limite dell'art. 2265 c.c. senza
che giochi nel sistema un'esigenza di bilanciamento tra la componente patrimoniale
e quella amministrativa dell'azione.
È pur vero che quale criterio informatore del sistema, emerge un'esigenza che
alla compressione della componente amministrativa debba necessariamente corrispondere
un rafforzamento quantitativo di quella patrimoniale (esempio ne sono le azioni
a risparmio). Peraltro nel nostro ordinamento quell'esigenza è recepita soltanto
quando l'autonomia statutaria interviene a comprimere i diritti amministrativi
e, in particolare il diritto di voto; non è vero, però, il contrario (quando
alla pienezza dei diritti amministrativi corrisponda una compressione di quelli
patrimoniali), in quanto il contenuto patrimoniale dell'azione è modellabile
dagli statuti senza alcun vincolo di equilibrio con le altre componenti (come
emerge dall'art. 2351 comma 2 c.c. che consente, ma non impone, la limitazione
del diritto di voto spettante alle azioni privilegiate), che non sia il patto
leonino.
Al fine di individuare la sussistenza, o non, di un patto statutario contrario
al precetto dell'art. 2265 c.c. quindi, non è sufficiente individuare uno squilibrio
tra poteri corporativi e poteri patrimoniali privilegiati per alcuni soci e
compressi per altri (quando i primi non siano a loro volta compressi), nè assume
rilievo una mera graduazione statutaria del rischio di impresa, ma assume rilievo
l'individuazione dell'eliminazione del rischio di impresa, nella duplice, ed
alternativa, previsione della esclusione "da ogni partecipazione agli utili
o alle perdite".
Ciò che la legge, con il precetto dell'art. 2265 c.c. pone come limite invalicabile
all'autonomia statutaria, non è il mancato bilanciamento tra poteri amministrativi
e poteri patrimoniali (che pur costituisce l'ipotesi di normalità in base alla
disciplina dell'art. 2263), nè una graduazione della ripartizione dei rischi
e degli utili dell'impresa sociale difforme dalla quota di partecipazione sociale,
ma l'esclusione in modo assoluto e sostanziale dai rischi della perdita e dal
diritto agli utili per alcuni dei soci rispetto ad altri.
Come è stato rilevato in dottrina, rapportando il divieto in questione alla
nozione di capitale sociale, la ragione per cui la legge ha imposto non solo
la costituzione di una patrimonio sociale, ma anche la formazione ad opera di
tutti i soci, è da ricercare nella volontà di rendere tutti i membri del gruppo
partecipi del rischio d'impresa conseguente all'attività svolta al fine di garantire,
nell'interesse generale, un esercizio avveduto e corretto dei relativi poteri.
La possibilità di perdere, infatti, il valore economico rappresentato dal proprio
conferimento, dovrebbe costituire un sufficiente stimolo a spingere il socio
ad astenersi da operazioni eccessivamente aleatorie ed a prodigarsi per il favorevole
esito dell'impresa. Coerentemente con questa impostazione, la legge, vietando
l'esclusione dalle perdite ha voluto che il socio fosse partecipe del rischio
sociale per ragioni di politica economica, in quanto colui che non partecipasse
al rischio, ma solo all'utile, non porterebbe nella formazione della volontà
sociale il medesimo interesse degli altri soci, ponendosi in conflitto di interessi
rispetto agli stessi che possono sia perdere che guadagnare. In situazione omologa
e contraria, l'esclusione dagli utili si ricollega alla necessità di impedire
che un socio possa partecipare alla gestione in difetto di interesse alla stessa.
Conseguentemente partecipazione agli utili e partecipazione alle perdite, in
relazione al conferimento eseguito, costituiscono elementi essenziali ed inscindibili
della partecipazione sociale, differenziando il socio dal semplice associato.
Peraltro, perché il limite all'autonomia statutaria dell'art. 2265 c.c. sussista
è necessario che l'esclusione dalle perdite o dagli utili costituisca una situazione
assoluta e costante. Assoluta, perché il dettato normativo parla di esclusione
"da ogni" partecipazione agli utili o alle perdite, per cui una partecipazione
condizionata (ed alternativa rispetto all'esclusione in relazione al verificarsi,
o non della condizione) esulerebbe dalla fattispecie preclusiva. Costante perché
riflette la posizione, lo status, del socio nella compagine sociale, quale delineata
nel contratto di società.
Pertanto, l'esclusione dalle perdite o dagli utili, in quanto qualificante lo
status del socio nei suoi obblighi e nei suoi diritti verso la società e la
sua posizione nella compagine sociale, secondo la previsione dell'art. 2265
c.c., viene integrata quando il singolo socio venga per patto statutario escluso
in toto dall'una o dall'altra situazione o da entrambe. Quando, per contro,
sussista una regolamentazione della partecipazione al rischio ed agli utili
in misura non coerente al capitale conferito, ci si troverebbe in presenza di
espressione di autonomia statutaria nella regolamentazione della partecipazione
al rischio, non rientrante nella previsione della nullità in esame. E la regolamentazione
del rischio, che esuli "da ogni partecipazione agli utili o alle perdite",
può essere anche integrata dalla previsione di ipotesi (purché coerenti ad interessi
rilevanti), in cui il socio partecipi ad utili ed a perdite in alternativa ad
ipotesi in cui detta partecipazione sia esclusa, e pertanto non integrante una
esclusione totale e costante.
Peraltro, tanto ritenuto in linea di principio, si rileva che l'esclusione,
oggetto del divieto, deve individuarsi con un riferimento sostanziale alle situazioni
giuridiche che dal patto possono derivare, non formale. Pertanto se la previsione
di escludere dalle perdite o dagli utili, sia subordinata a limiti tali da rendere
la partecipazione alle perdite o agli utili praticamente impossibile, si verterebbe
sempre in una convenzione leonina camuffata, soggetta al precetto dell'articolo
in esame che ne sanziona la nullità.
La Corte del merito, quindi, che non ha ampliato l'analisi ad una concreta interpretazione
delle clausole in esame, ritenendole senz'altro integranti un patto leonino
in carenza di una disamina completa secondo i parametri che la fattispecie richiedeva,
è chiamata ad un riesame della situazione sulla base dei principi sopra esposti,
riesame volto ad individuare se le clausole in esame integrino, in quanto tali,
o non, un patto leonino vietato. In caso di risposta negativa, ovviamente, sarebbe
chiusa l'analisi senza ulteriore considerazione del fatto che nella specie le
clausole controverse non facevano parte di un contratto di società, ma di un
patto parasociale, in quanto se tali clausole non fossero nulle qualora comprese
in un contratto sociale (che costituisce la fattispecie direttamente prevista
dell'art. 2265 c.c.), a maggior ragione la loro validità non verrebbe posta
in discussione, sotto il profilo indicato, qualora costituissero contenuto di
un patto parasociale.
I principi cui
1) il divieto di cui all'art. 2265 c.c. integra una situazione statutaria, costitutiva
dei diritti e degli obblighi di uno o più soci nei confronti della società ed
integrativa della loro posizione nella compagine sociale, situazione caratterizzata
dalla "esclusione totale e costante" di alcuni soci dalla partecipazione
al rischio di impresa e dagli utili, ovvero da entrambe;
2) esulano dal divieto le pattuizioni regolanti la partecipazione al rischio
ed agli utili in misura difforme dall'entità della partecipazione del singolo
socio, costituenti espressione dell'autonomia statutaria, che nelle società
per azioni trovano riscontro nella previsione delle azioni privilegiate, sia
che si esprimano in una misura di partecipazione difforme da quella inerente
ai poteri amministrativi (situazioni di rischio attenuato), sia che condizionino
in alternativa la partecipazione, o la non partecipazione, agli utili o alle
perdite al verificarsi di determinati eventi giuridicamente rilevanti;
3) Il divieto di esclusione dalla partecipazione agli utili o alle perdite,
deve essere riguardata in senso sostanziale, e non formale, per cui esso sussiste,
anche in presenza di una delle ipotesi del precedente numero 2), quando le condizioni
della partecipazione agli utili o alle perdite siano, nella previsione originaria
delle parti, di realizzo impossibile, e nella concretezza determinino una effettiva
esclusione totale da dette partecipazioni, con la costanza ragguagliata al periodo
di partecipazione del socio in posizione dominante.
L'analisi delle clausole contrattuali, per valutarne la concreta corrispondenza
ad una o ad altre delle situazioni indicate nei principi enunciati, rientra
nella funzione del giudice del rinvio, pur rilevando che già dall'enunciazione
delle clausole riportate nella sentenza oggetto di ricorso, emerge sotto il
profilo formale che l'esclusione dalle perdite e dagli utili non è, nel caso
di specie, nè totale nè costante.
Qualora
Occorre valutare, vale a dire, se abbia, o non, incidenza il fatto che le clausole
in esame non erano espressione di autonomia statutaria, ma di un patto parasociale
intervenuto tra i soci della s.p.a. Laminatoio di Buttrio e la finanziaria regionale
s.p.a.
Friulia, in un primo tempo non socia, quindi essa stessa socia della società
operativa in occasione della conferma dei patti dopo l'entrata del socio straniero.
È ovvio, innanzi tutto, che se il patto parasociale avesse la funzione essenziale
di eludere il divieto dell'art. 2265 c.c., esso diverrebbe un negozio in frode
non meritevole di autonoma tutela ed incorrente a sua volta nella previsione
di nullità dell'articolo citato, in quanto, come è stato rilevato in dottrina,
se la legge ha sottoposto un rapporto a norme imperative, ed ha imposto degli
obblighi ai contraenti, non è certo perché questi debbano rispettarli come parti
del contratto sociale, ma possano al tempo stesso contraddirli come terzi.
Diversa, però, potrebbe essere la situazione qualora il negozio costituente
patto parasociale, pur contenendo una clausola di esclusione da rischi e da
utili che verrebbero caricati agli altri contraenti (i quali siano a loro volta
soci), abbia una sua autonoma funzione meritevole di tutela a norma dell'art.
1322 c.c. In tale senso si è espressa una datata sentenza di questa Corte sotto
la vigenza del precedente codice (Cass. 14 giungo 1939 n. 2475) che, distinguendo
tra contratto e patto parasociale, ammetteva la validità della convenzione in
quanto integrante un accordo causalmente separato dal contratto sociale (un
autonomo contratto di garanzia). Nella stessa linea, ancorché in diversa fattispecie,
si può richiamare Cass. 22 giugno 1963 n. 1686 che aveva escluso il patto leonino
in una convenzione che importava il pagamento di una somma quale corrispettivo
del godimento di diritti temporalmente trasmessi da un gruppo di soci ad altro
gruppo di soci, ed inoltre Cass. 25 marzo 1966 n. 787, per quanto riferita a
diversa fattispecie.
Si consideri che l'esclusione dalle perdite e (non "o") dagli utili
(come si verificherebbe nel caso di specie qualora di ravvisasse il patto leonino
nella previsione esaminata sub a)), lascia al socio privilegiato soltanto i
poteri corporativi.
La figura del soggetto che possa disporre di azioni al solo fine di esercitarne
i poteri amministrativi, ancorché in relazione ad una funzione meritevole di
tutela, non è estranea al nostro ordinamento societario, solché si consideri
la fattispecie del pegno di azioni (art. 2352 c.c.), in cui al creditore fruente
del pegno spetta il diritto di voto, ancorché la funzione di garanzia dell'obbligazione
possa sfumare, assumendo invece funzione essenziale l'attività di controllo
esercitabile mediante la partecipazione all'organo deliberante assembleare.
Si pensi all'ipotesi del pegno di azioni a garanzia di un credito fatto alla
stessa società, partecipata con dette azioni; è evidente che il valore delle
azioni non sarà superiore a quello del patrimonio sociale, per cui il credito
insoddisfatto verso la società per incapienza patrimoniale non potrà trovare
maggiore soddisfazione nella vendita delle azioni, che dello stesso patrimonio
sono rappresentative; ciò malgrado la funzione di controllo dell'andamento sociale
attraverso l'esercizio del diritto di voto è espressione dell'interesse del
creditore al buon andamento della società, ed all'esplicazione di attività societaria
per il suo conseguimento, quanto meno ai fini satisfattori delle sue ragioni
creditorie.
Lo stesso risultato, conseguibile mediante il rapporto di costituzione in pegno
delle azioni a garanzia di obbligazioni della società partecipata, può perseguirsi
in via indiretta, ma ciò malgrado non meno meritevole di tutela, mediante l'acquisizione
di azioni (ovviamente dagli altri soci) della società al cui buon andamento
economico e funzionale si abbia interesse, e nel contempo privando lo status
di socio (mediante contratto parasociale con gli stessi soci alienanti delle
azioni), dei poteri e dei rischi patrimoniali; poteri e rischi che permangono
negli altri soci contraenti, lasciando persistere per l'acquirente solo i poteri
corporativi.
Come in precedenza rilevato, la ragione del divieto dell'art. 2265 c.c., deve
ravvisarsi nel fatto che la partecipazione agli utili ed al rischio dell'esercizio
dell'impresa costituiscono il migliore incentivo all'esercizio avveduto e corretto
dei poteri amministrativi; essi costituiscono, inoltre, nella compagine societaria
ed in virtù della funzione del contratto di società, l'unico ed essenziale incentivo
all'esercizio, in un senso produttivo, in altro senso non avventato, dei poteri
corporativi, e giustificano una scelta di politica legislativa nel senso indicato
dall'art. 2265 c.c. Ciò non toglie che l'esercizio degli stessi poteri possa
essere conferito, con un rapporto che presuppone il contatto sociale ma che
con esso non si confonde (per l'appunto un contratto parasociale), a soggetti
che pur non partecipano alle perdite o agli utili, traggano l'incentivo all'esercizio
produttivo, e nel contempo corretto ed avveduto, dei poteri amministrativi,
da una serie di interessi rilevanti di altra natura che al buon esito dell'andamento
dell'impresa sociale siano connessi, In tale caso, analogamente a quanto avviene
con la costituzione in pegno delle azioni, un contratto parasociale avente una
funzione causale autonomamente meritevole di tutela e non volta unicamente alla
violazione del disposto dell'art. 2265 c.c., ma espressione di un interesse
alla buona gestione dell'impresa, può rientrare in una valutazione di validità,
non essendo espressione di quelle ragioni di politica economica che sono alla
base del precetto dell'art. 2265 c.c.
Possono giocare in tale senso la funzione di impulso e di controllo che una
finanziaria a finalità pubblicistiche, coerente al proprio oggetto sociale ed
alla disciplina normativa regionale inerente alla sua istituzione, abbia dedotto
come oggetto del contratto parasociale a garanzia dell'impegno, anche finanziario,
da essa impiegato per risollevare le sorti di un'impresa ovvero per incentivarne
la costituzione e lo sviluppo; gioca in tale senso la deduzione espressa nel
contratto parasociale della funzione incentivante allo sviluppo di imprese regionali,
rispetto alla quale le responsabilità degli altri soci, aventi funzione preponderante
nella determinazione della gestione di impresa, ovvero l'attribuzione a detti
soci in via esclusiva degli utili della gestione, costituiscono l'indice di
clausole contrapposte penali o premiali, che non qualificano il disinteresse
della finanziaria regionale alla gestione dell'impresa, ma che al contrario
possono qualificare detto interesse e realizzarlo mediante l'apporto coordinato
dell'attività incentivante e finanziaria della società regionale e l'attività
gestoria degli altri soci, che ad una buona gestione sono a loro volta indotti
proprio dalla funzione di garanzia e promozionale delle clausole penali e premiali.
Non sarebbe sufficiente addurre, quindi, che comunque, l'accollo di tutte perdite
da parte degli altri (nel caso che in tale senso volgesse l'indagine sostanziale
del giudice del rinvio sul punto indicato sub a) e la riserva agli stessi di
tutti gli utili, delineerebbe comunque la mancanza di interesse ad un corretto
uso dei poteri amministrativi da parte della Friulia, carenza di interesse che
è alla base, come già rilevato, del divieto dell'art. 2265 c.c., potendosi individuare,
in senso opposto, che l'esistenza di detto interesse può costituire l'oggetto
principale dedotto espressamente nel contratto parasociale, delineato attraverso
la indicazione di parametri economici da perseguire; potrebbe rilevarsi che
l'interesse della società partecipante sul piano finanziario è atto ad assumere
tale rilievo da indurre, con clausole penali e premiali, gli altri soci (costituenti
la assoluta maggioranza dalla quale dipendeva in modo assoluto la gestione dell'impresa)
ad attivarsi utilmente in quella stessa direzione, onde evitare l'adagiarsi
si situazioni di comodo assistenzialismo pubblicistico.
Una volta quindi ammesso, come
Detta analisi, svolta secondo i criteri normativi di ermeneutica negoziale ed
in coerenza con la disciplina dell'art. 1322 c.c., non è stata fatta dal giudice
di secondo grado e deve essere svolta dalla Corte del rinvio, cui è pure demandato,
infine, di accertare, a seconda dell'esito delle analisi indicate, se sussista,
o no, la situazione creditoria dedotta in controversia originariamente dalla
s.p.a. Friulia.
Alla Corte del rinvio è devoluta anche la decisione in ordine alle spese del
giudizio di legittimità.
Roma 14 dicembre 1993.