Cassazione civile, SEZIONE III, 6 luglio 2001, n. 9209


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Vittorio        DUVA               - Presidente -
Dott. Paolo           VITTORIA      - Rel. Consigliere -
Dott. Roberto         PREDEN              - Consigliere
Dott. Renato          PERCONTE LICATESE   - Consigliere -
Dott. Luigi Francesco DI NANNI            - Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COM INVEST DI V ZURLA I C SAS (GIÀ SRL), con  sede  in  Bologna,  in
persona del  socio  accomandatario  e  legale  rappresentante  Sig.ra
Virginia Zurla, elettivamente domiciliata in ROMA  VIA  F.  MICHELINI
TOCCI 50, presso lo  studio  dell'avvocato  CARLO  VISCONTI,  che  la
difende anche  disgiuntamente  all'avvocato  BRUNO  MICOLANO,  giusta
delega in atti;
- ricorrente -
contro
MASI ROBERTO, il quale agisce sia in proprio sia  nella  qualità  di
legale  rappresentante  della  soc.  Stan  Sabbiuno   s.r.l.   e   di
liquidatore della soc. Grumello s.r.l., elettivamente domiciliato  in
ROMA VIA EMILIA 81, presso lo studio  dell'avvocato  DARIO  PICCIONI,
difeso dall'avvocato MAURO MAZZUCATO, giusta delega in atti;
- controricorrente -
nonché contro
STAN SABBIUNO SRL, GRUMMELLO SRL;
- intimati -
avverso la sentenza n.  895-98  della  Corte  d'Appello  di  BOLOGNA,
Sezione III Civile, emessa il 10-07-98 e depositata l'01-09-98  (R.G.
88-97);
udita la relazione della causa  svolta  nella  pubblica  udienza  del
11-04-01 dal Consigliere Dott. Paolo VITTORIA;
udito il P.M. in persona del  Sostituto  Procuratore  Generale  Dott.
Raffaele CENICCOLA che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

l. - La società Com Invest S.r.l. iniziava in confronto di Roberto Masi un processo di espropriazione forzata presso terzi, sottoponendo a pignoramento crediti del suo debitore verso vari istituti di credito e presso alcune società.
I rappresentanti delle società non si presentavano a rendere la dichiarazione del terzo,
la Com Invest presentava istanza di accertamento del loro obbligo e la causa, rimessa per competenza al tribunale di Bologna, veniva riassunta davanti a questo dalla società istante in confronto sia di Roberto Masi, con la citazione notificata il 18.7.1984, sia delle società Stan Sabbiuno s.r.l. e Grumello s.r.l.
Si costituiva in giudizio il solo Masi, che resisteva all'accoglimento della domanda. 2. - Il tribunale di Bologna, con sentenza del 29.10.1996, accertava che le società Stan Sabbiuno e Grumello erano debitrici verso Roberto Masi delle somme di L. 319.770.000 e rispettivamente di L. 1.432.500. 3. - La decisione, impugnata da Roberto Masi, in proprio e quale rappresentante legale delle due società, è stata riformata dalla corte d'appello con sentenza del 6.10.1998. 4. -
La Com Invest ha chiesto la cassazione della sentenza con il ricorso notificato il 14.5.1999.
Roberto Masi, in proprio e nella qualità, ha resistito con controricorso.
La ricorrente ha depositato una memoria.

Diritto

1. - Il giudice di primo grado aveva accertato l'esistenza dei crediti sottoposti a pignoramento valendosi delle conclusioni di un'indagine tecnica fatta svolgere sulla contabilità delle due società e della circostanza che le società neppure nel corso della causa avevano reso la dichiarazione del terzo (art. 548, secondo comma, cod. proc. civ.).
Debitore e società avevano impugnato la decisione svolgendo questo argomento.
Le somme che il tribunale aveva considerato versate dal socio alle società a titolo di mutuo erano state invece conferite ad aumento del patrimonio delle società, sicché il socio non vantava verso le società un diritto alla restituzione.
La corte d'appello ha ritenuto che la difesa così svolta dagli appellanti fosse ammissibile e l'ha giudicata fondata. 2. - Il ricorso contiene tre motivi. 3. - Il primo è un motivo di violazione di norme sul procedimento (art. 360 n. 4 cod. proc. civ., in relazione all'art. 345 dello stesso codice).
Non è fondato.
Nel processo svoltosi in secondo grado davanti alla corte d'appello, che pendeva in primo grado alla data del 30 aprile 1995, si applicava l'art. 345 cod. proc. civ., nel testo anteriore alla modifica apportatavi con l'art. 52 della L. 26 novembre 1990, n. 353 - art. 90.1. della legge 353 del 1990 sub art. 9 D.-L. 18 ottobre 1995, n. 432, conv. con modif. in L. 20 dicembre 1995, n. 534.
L'art. 345 non consentiva, al primo comma, di proporre nuove domande e però permetteva di proporre nuove eccezioni.
Il debitore ed il terzo, nel giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo configurato dagli artt. 548 e 549 cod. proc. civ., assumono la posizione di convenuti e le difese da loro svolte per far affermare dal giudice che, alla data del pignoramento, il credito voluto sottoporre a pignoramento o non era sorto o era stato già estinto hanno il valore di eccezioni, rilevabili o no, a seconda dei casi, su istanza di parte.
Dunque, gli appellanti, convenuti nel giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo, ben avrebbero potuto impugnare la sentenza di primo grado con un motivo mediante il quale, a sostegno di una eccezione, avessero introdotto fatti nuovi chiedendone l'accertamento.
Avere sostenuto che le società non erano obbligate a restituire al loro socio le somme che ne avevano ricevuto, perché non erano state date a titolo di mutuo, ma di conferimento, rientrava quindi sotto ogni punto di vista nell'ambito dell'iniziativa processuale consentita dall'art. 345 cod. proc. civ. all'appellante, giacché si trattava di una nuova eccezione, nel senso ampio di difesa, e non di una nuova domanda, e di un'eccezione che, del resto, neppure introduceva nel processo fatti nuovi, ma sollecitava unicamente una diversa valutazione giuridica del rapporto tra società e soci sottostante al versamento compiuto dal secondo alle prime, per sè costituente un fatto neutro. 4. - Il secondo e terzo motivo denunziano l'uno vizi di violazione di norme di diritto (art. 360 n. 3 cod. proc. civ., in relazione agli artt. 2486, 2365, 2375 e 2486 cod. civ.; agli artt. 43, 44 primo comma, 55 quarto comma, richiamati dall'art. 95 D.P.R. 22 settembre 1986 n. 917, ed infine all'art. 2697 cod. civ.), l'altro vizi di violazione di norme di diritto e difetto di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ., in relazione all'art. 2697 cod. civ.).
Sono rivolti ambedue contro il punto della decisione in cui la corte d'appello ha accertato che i versamenti alle due società erano stati fatti dal socio allo scopo di aumentarne il patrimonio e senza obbligo di restituzione. 4.1. - La corte d'appello, a proposito del rapporto tra il Masi e la società Stan Sabbiuno, ha riferito che il consulente nominato in primo grado aveva accertato che "la somma di L. 319.770.000 corrispondeva alla quota di pertinenza del Masi di un finanziamento fatto alla società per l'acquisto di un capannone industriale e iscritto in bilancio come "Soci c-aumento Capitale sociale"".
Dichiarando di condividerlo, ha poi richiamato l'orientamento giurisprudenziale la cui portata ha ricostruito nel senso che "i versamenti genericamente effettuati "in conto capitale", inteso tale termine come sinonimo di capitale di rischio impiegato nell'impresa e perciò comprensivo di tutti i mezzi propri di cui l'impresa collettiva può disporre per la propria attività, costituiscono apporti di patrimonio dei quali la società è libera di disporre come di qualsiasi altra riserva (anche, ma non necessariamente, adoperandoli in futuro per aumentare il capitale nominale) senza che possa venire in questione alcun diritto al rimborso del socio fin quando non sia stata liquidata l'impresa collettiva", mentre "tale rimborso è condizionato alla esistenza delle somme dopo la liquidazione".
Sulla base di queste considerazioni, riassunte nell'espressione "se tale è la natura di questo tipo di conferimento", ha concluso nel senso che il Masi non vantava alcun credito verso la società.
La stessa conclusione è stata attinta dalla corte d'appello a proposito del credito verso la società Grumello: questa volta in base alla considerazione che il finanziamento aveva avuto un carattere infruttifero ed era stato fatto ed utilizzato per l'acquisto di immobili aziendali, il che faceva ritenere che il suo scopo fosse stato quello di apportare alla società ulteriore capitale di rischio da destinare al definitivo incremento del suo patrimonio.
La corte d'appello, infine, ha ritenuto che nessuna indagine potesse farsi per accertare quale tipo di contratto fosse stato stipulato in concreto, in modo da superare la denominazione adoperata nelle scritture contabili.
E questo perché da un lato gli elementi per compiere tale indagine avrebbero dovuto essere forniti già in primo grado dalla Com Invest, che aveva chiesto l'accertamento del credito, dall'altro neppure avrebbero potuto esserlo richiamando il consulente, in quanto costui, dato l'atteggiamento inerte del debitore, non era potuto accedere alla documentazione relativa alle singole società. 4.2. - La corte d'appello - come si è accennato - ha dichiaratamente inteso impostare la decisione della causa sulla base degli orientamenti, giurisprudenziali, ma anche dottrinali, venutesi manifestando a proposito del fenomeno definito in una recente sentenza della Corte come formazione del patrimonio fuori del capitale (Cass. 4 agosto 1995 n. 8587).
Converrà allora darne conto.
La Corte di cassazione si è venuta confrontando con tale fenomeno a partire dalla sentenza 3 dicembre 1980 n. 6315.
A proposito del versamento effettuato dai soci in conto di futuro aumento di capitale,
la Corte osservava, in quella occasione, che "pur non determinando un incremento del capitale sociale e pur non attribuendo alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale, ha una causa che di norma è diversa da quella del mutuo ... ed è simile invece a quella del conferimento in capitale, che è un conferimento di rischio. È estranea, infatti, ad un tale versamento la finalità di ricollegarvi un'obbligazione attuale di restituzione, e vi è presente, invece, quella di ricollegarvi i diritti insiti nella partecipazione societaria; diritti che comprendono bensì quello di avere in restituzione i conferimenti, ma col duplice limite che esso diventa attuale solo dopo lo scioglimento della società e che non gode della garanzia che l'art. 2740 cod. civ. attribuisce ad ogni creditore, potendo esercitarsi solo sull'eventuale residuo attivo risultante dal bilancio di liquidazione".
La giurisprudenza successiva e la riflessione dottrinale che l'ha accompagnata hanno consentito una più approfondita e analitica sistemazione del fenomeno.
La sentenza 19 marzo 1996 n. 2314 della Corte ha prima osservato che "tra l'ipotesi dell'erogazione di fondi dal socio alla società a titolo di mutuo e quella del formale conferimento a titolo di aumento di capitale (già deliberato), la prassi è andata da tempo elaborando una terza via, costituita da versamenti, variamente denominati, la cui comune caratteristica consiste nell'essere destinati ad incrementare il patrimonio della società - talvolta anche sotto forma di copertura di perdite - senza però riflettersi (o, almeno, non immediatamente) sul capitale nominale della società stessa e senza perciò essere sottoposti ai vincoli legali propri del capitale sociale in senso stretto". Ha poi aggiunto che questi apporti, "in quanto appunto volti ad accrescere il patrimonio dell'ente dotandolo di ulteriori mezzi propri di cui esso possa disporre (il che evidentemente non accadrebbe se l'acquisizione delle somme erogate fosse bilanciata, al passivo, da debiti per restituzione di pari importo in favore dei soci), perciò stesso non danno luogo a crediti esigibili a richiesta del conferente durante la vita della società".
Nell'ambito del fenomeno complessivamente considerato
la Corte ha enucleato situazioni caratterizzate in diverso modo e ne ha prospettato una classificazione sulla base dello scopo perseguito da soci e società nell'accordo di cui il conferimento costituisce esecuzione.
A versamenti da considerare effettuati appunto in conto capitale, perché caratterizzati dall'unica funzione di aumentare le disponibilità patrimoniale della società, sono stati affiancati quelli fatti in conto di un futuro e determinato aumento di capitale ovvero in collegamento con una previsione di aumento di capitale genericamente collocata nel tempo avvenire.
Mancata la deliberazione di aumento di capitale, nel secondo caso, resterebbe irrealizzata la condizione, cui il versamento si deve ritenere sia stato risolutivamente condizionato, e sorgerebbe per la società l'obbligazione di restituzione; nel terzo caso si profila la scelta tra il vagliare se le parti non abbiano inteso per questa eventualità comunque lasciare le somme versate nella disponibilità della società ed il dare altrimenti al socio la possibilità di chiedere che dal giudice venga fissato un termine, entro il quale la società sia tenuta a riunire l'assemblea per decidere l'aumento di capitale, si da determinare l'avveramento od il mancato avveramento della condizione.
Il vario atteggiarsi del fenomeno e l'assenza di una tipizzazione legale delle varie ipotesi ha poi indotto la giurisprudenza e la dottrina ad avvertire come sia necessario cogliere nella concretezza del caso l'effettiva portata di ogni situazione attraverso il vaglio non delle sole scritture contabili della società, ma del modo in cui il rapporto è stato attuato dalle parti, delle finalità pratiche volute conseguire e degli interessi che vi sono sottesi.
È stato peraltro osservato che, "se, tuttavia, manca una chiara manifestazione di volontà, la chiave di lettura della qualificazione non può che essere ricavata nella terminologia adottata nel bilancio: questo è soggetto all'approvazione dei soci e le qualificazioni che i versamenti hanno ricevuto nel bilancio diventano determinanti per stabilire se si tratta di finanziamento o di conferimento" (Cass. 14 dicembre 1998 n. 12539). 4.3. - Venendo ora alle critiche rivolte alla sentenza della corte d'appello nei due motivi, esse possono così sintetizzarsi.
La prova che i conferimenti fossero stati fatti non a titolo di mutuo, ma di aumento del patrimonio, faceva carico ai convenuti, perché all'attuale ricorrente, in quanto attrice, spettava l'onere di provare che il socio avesse erogato una somma alle società, da ciò derivando il loro obbligo di restituirla, mentre al socio ed alle società spettava l'onere di provare che la somma fosse stata ricevuta per un titolo diverso e tale da non comportare obbligo di restituzione, trattandosi di provare un fatto idoneo a togliere effetti all'altro.
Peraltro, se i conferimenti erano stati qualificati nella contabilità come conferimenti in conto capitale, ad essi avrebbe dovuto seguire la deliberazione di aumento.
Di questa non vi è traccia nella stessa contabilità, in cui, come risulta dagli allegati alla relazione di consulenza, a loro volta costituiti dalle relazioni che accompagnano i bilanci, la posta relativa al conferimento è riprodotta tra quelle che indicano i crediti vantati verso le società e non tra le riserve.
Infine, ammesso che spettasse alla società attrice anche l'onere di provare in base a quale tipo di contratto le somme erano state versate dal socio alla società, allora, non potendo tale prova essere data altrimenti che mediante le scritture contabili della società, la corte d'appello non avrebbe potuto non disporre una rinnovazione dell'indagine tecnica. 4.4. - i due motivi non possono essere accolti.
Queste le ragioni. 4.4.1. - Il primo dei tre argomenti svolti nei due motivi non ha fondamento.
La consegna di una somma di denaro non è, di per sè, circostanza idonea a porsi come fatto costitutivo di un diritto alla restituzione, quante volte chi ha ricevuto la somma lo ammette, ma contesti che la consegna sia avvenuta in esecuzione od a conclusione di un contratto che obblighi a restituire e, in questa ipotesi, grava sull'attore l'onere di provare integralmente il fatto costitutivo della pretesa restitutoria, onere esteso all'indicazione di uno specifico titolo implicante il relativo obbligo (Cass. 3 febbraio 1995 n. 1321; 23 aprile 1998 n. 4197; 28 gennaio 1999 n. 738). 4.4.2. - Neppure il secondo e terzo argomento sono fondati.
Si è veduto che i versamenti fatti in contemplazione di un aumento di capitale non sempre sono fatti in base ad un accordo che, mentre si riferisce ad un futuro, ma predeterminato aumento di capitale, assume la relativa deliberazione a condizione risolutiva con conseguente obbligazione di restituzione, se la condizione non si realizza.
Possono essere invece compiuti in base ad un accordo in cui, se vengono considerati quale anticipata esecuzione di una deliberazione di aumento che dovrà aversi, non collocano questa in un tempo determinato ed in sostanza lasciano al socio che li ha fatti la scelta tra il continuare a lasciarli indefinitamente nella disponibilità della società e il porre a questa un termine entro il quale deliberare l'aumento.
Orbene, di fronte all'eccezione dei convenuti che il versamento fosse stato fatto e ricevuto dalle società non a titolo di mutuo, ma ad aumento del capitale sociale, l'attrice avrebbe dovuto dare la prova dei fatti idonei a determinare il sorgere della obbligazione di restituzione in relazione al tipo od ai tipi di apporto che avesse ritenuto di individuare nel caso concreto.
L'attrice ha bensì sostenuto nel secondo motivo, che dalle scritture contabili già risultava che una deliberazione di aumento di capitale non v'era stata e nel terzo di non essere stata ammessa a provare attraverso indagini da commettersi al consulente la concreta natura dell'accordo sottostante ai versamenti fatti alla società.
Se non che, quanto al secondo motivo, non si può non richiamare ciò che si è già detto a proposito del rapporto tra deliberazione di aumento e tipo di apporti.
Quanto al terzo, si deve considerare che l'attrice, alla richiesta di una nuova indagine tecnica avrebbe dovuto unire quella che il giudice ordinasse l'ispezione dei luoghi dove era conservata la documentazione contabile della società e l'esibizione della stessa, in base agli artt. 118 e 210 cod. proc. civ.: richiesta affatto ammissibile perché necessaria all'accertamento dei fatti (Cass. 16 aprile 1997 n. 3260 e 7 marzo 1997 n. 2086).
La prima senza la seconda non poteva infatti condurre ad accertamento dei fatti diversi da quelli già ottenuti, come la corte d'appello ha osservato. 5. - Il ricorso è rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione possono essere dichiarate compensate.

P.Q.M

La Corte rigetta il ricorso e dichiara compensate le spese.
Così deciso il giorno 11 aprile
2001, in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte suprema di cassazione.