Cassazione civile, SEZIONE I, 11 giugno 2003, n. 9364


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Giovanni            OLLA          - Presidente -
Dott. Giammarco           CAPPUCCIO     - Consigliere -
Dott. Donato              PLENTEDA      - Consigliere -
Dott. Francesco Maria     FIORETTI      - Consigliere -
Dott. Carlo               DE CHIARA     - Rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COLOMBINI GIOBERTO, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE  ANGELICO
38, presso l'avvocato CORRADO GIACCHI, che lo rappresenta  e  difende
unitamente all'avvocato GABRIELLA SARTIANI, giusta procura a  margine
del ricorso;
- ricorrente -
contro
ANCARANI LORIS, quale Curatore del FALLIMENTO  DI  LORENZINI  NATALE,
elettivamente  domiciliato  in  ROMA  VIA  E.  GIANTURCO  5,   presso
l'avvocato SANDRO CARBONI, che lo rappresenta  e  difende  unitamente
all'avvocato  FRANCESCO  AMERINI,   giusta   delega   in   calce   al
controricorso;
- controricorrente -
contro
FALLIMENTO  AMBA  SRL,  in  persona   del   Curatore   pro   tempore,
elettivamente  domiciliato  in  ROMA  VIA  G.  B.  VICO  31,   presso
l'avvocato ENRICO SCOCCINI, che lo rappresenta e  difende  unitamente
all'avvocato  PAOLO   BASTIANINI,   giusta   delega   in   calce   al
controricorso;
- controricorrente -
contro
VANNI ROBERTO, DELMIRANI GUIDO, LORENZINI SERGIO;
- intimati -
avverso la sentenza n.  508-99  della  Corte  d'Appello  di  FIRENZE,
depositata il 21-04-99;
udita la relazione della causa  svolta  nella  pubblica  udienza  del
17-10-2002 dal Consigliere Dott. Carlo DE CHIARA;
udito  per  il  ricorrente,  l'Avvocato  SARTIANI,  che  ha   chiesto
l'accoglimento del ricorso;
udito per il  resistente,  l'Avvocato  CARBONI,  che  ha  chiesto  il
rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del  Sostituto  Procuratore  Generale  Dott.
Fulvio UCCELLA che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Il curatore del fallimento di Natale Lorenzini, amministratore unico della s.r.l. A.M.B.A., convocò - per procedere alla nomina del nuovo amministratore in sostituzione del Lorenzini, decaduto a seguito della dichiarazione di fallimento - l'assemblea della società, la quale il 4 dicembre 1995 deliberò la nomina del rag.
Roberto Vanni, estraneo alla compagine sociale. Il Vanni fu successivamente nominato dal Tribunale di Grosseto anche curatore del fallimento della stessa società, dichiarato l'8 febbraio 1996.
Con citazione del 20 marzo 1996 Gioberto Colombini, socio di minoranza assente, impugnò la citata delibera assembleare del 4 dicembre 1995, convenendo davanti al Tribunale di Grosseto il Vanni nelle qualità di ex amministratore e di curatore del fallimento della società, il curatore del fallimento di Natale Lorenzini e gli altri soci della società Sergio Lorenzini e Guido Delmirani.
Lamentava l'attore che la delibera era incorsa in plurime violazioni di legge a causa: della nomina dell'amministratore al di fuori della compagine sociale; della convocazione dell'assemblea ad opera di soggetto non legittimato, quale doveva ritenersi il curatore del fallimento dell'amministratore unico decaduto; dell'abuso di potere dello stesso curatore, che aveva agito nell'interesse del fallimento e non della società.
Si costituirono in giudizio le curatele dei fallimenti della società e di Natale Lorenzini, nonché il rag. Vanni in proprio. Le prime due eccepirono la decadenza del Colombini dal diritto di impugnare la delibera per decorso del termine perentorio di tre mesi, e, comunque, l'infondatezza della domanda; il terzo il proprio difetto di legittimazione passiva.
Il Tribunale qualificò la domanda (a seguito di precisazione della stessa, considerata dal giudice mera emendatio libelli, fatta dall'attore con memoria autorizzata ai sensi dell'art. 180, secondo comma, c. p. c.) come azione di nullità della delibera per essere stata l'assemblea convocata da soggetto non legittimato; la respinse, quindi, per carenza di interesse ai sensi dell'art. 1421 c.c., non avendo il Colombini dimostrato un suo interesse sostanziale diverso da quello coincidente con la qualità di socio, la quale era sufficiente a legittimarlo all'azione di annullamento, ma non a quella di nullità. Dichiarò, inoltre, estraneo al giudizio il Vanni - costituitosi in proprio - essendo stato questi citato esclusivamente nelle qualità di ex amministratore dell'A.M.B.A. e di curatore del fallimento della stessa. Condannò l'attore alle spese di lite.
Propose appello il Colombini, deducendo: l'omessa pronuncia sulla domanda di annullamento della deliberazione; la sussistenza dell'interesse sostanziale alla dichiarazione di nullità della delibera, individuabile nel suo diritto ad esprimere il voto in un'assemblea validamente costituita, mentre quella in concreto tenutasi aveva nominato un amministratore che aveva poi assunto l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento della società, che invece avrebbe potuto essere evitata con il ricorso al concordato preventivo; l'iniquità e illegittimità, infine, della condanna alle spese di li te.
Resistettero le curatele appellate eccependo l'inammissibilità del gravame quanto alla domanda di annullamento della deliberazione, non essendo stata la stessa riproposta in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado e non essendovi appello in ordine alla interpretazione della domanda operata dal Tribunale, e l'insussistenza dei pretesi vizi di nullità.
La Corte di appello di Firenze ha parzialmente accolto il gravame solo in ordine all'entità delle spese e lo ha respinto quanto al resto, ancorché per motivi diversi da quelli indicati dal primo giudice.
Ha, in particolare,
la Corte ritenuto che la domanda di annullamento, non riproposta nelle conclusioni rassegnate in primo grado, fosse stata superata da quella di nullità e, dunque, non fosse riproponibile in sede di gravame, anche perché non vi era impugnazione - nè il relativo interesse dell'appellante - sul punto della emendatio libelli ritenuta dal Tribunale.
Ha, inoltre, ritenuto sussistente, in capo al Colombini, un interesse sostanziale, ex art. 100 c.p.c., ad esperire azione di nullità della delibera assembleare; ma ha escluso, nel merito, la lamentata nullità della delibera, osservando (per quanto qui ancora rileva):
- che il curatore del fallimento dell'amministratore unico della società, in quanto "amministratore del patrimonio del fallito sotto la direzione del G.D.", ha "il potere di svolgere tutte quelle attività miranti alla liquidazione di detto patrimonio ed a questa preordinate" e "non vi è dubbio pertanto che tra queste mansioni vi fosse quella di attivare l'organo sociale designato - assemblea - allo scopo di verificare, attraverso l'attività del nominando nuovo A.U., lo stato patrimoniale e finanziario della s.r.l. A.M.B.A. per i successivi provvedimenti da sottoporre al vaglio del G.D. quanto alle quote possedute, in quella, dal fallito"; non occorreva, dunque, nella specie, seguire la procedura di convocazione prevista dall'art. 2367p secondo comma, c.c., essendo l'intervento del presidente del tribunale ammesso solo allorché l'amministratore non provveda alla convocazione richiesta dalla minoranza dei soci;
- che, d'altro canto, le ipotesi di nullità o inesistenza della delibera assembleare vanno ricondotte alla mancanza di "un elemento costitutivo della fattispecie procedimentale di formazione della deliberazione, tale da non consentire l'inizio dell'iter legale necessario alla formazione di una deliberazione assembleare imputabile alla società", come, ad esempio, nei casi di mancata convocazione dei soci non seguita da assemblea totalitaria, di mancata verbalizzazione delle operazioni assembleari, di mancato svolgimento dell'assemblea nel luogo indicato nell'avviso di convocazione;
- che non sussisteva il lamentato abuso di potere del Vanni determinato da conflitto di interessi.
Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione il Colombini, sulla base di quattro motivi, cui resistono con controricorso i curatori dei fallimenti della s.r.l. A.M.B.A. e di Natale Lorenzini.

Diritto

1. - Con il primo motivo, denunciando violazione o falsa applicazione degli artt. 2363, 2366, 2484F 2386 e 2367 c.c., il ricorrente censura l'affermazione della Corte di appello secondo cui il curatore del fallimento del Lorenzini, amministratore decaduto della società, poteva validamente convocare l'assemblea. Osserva, in contrario, che gli organi deputati, per legge, alla convocazione dell'assemblea della società a responsabilità limitata sono gli amministratori, il collegio sindacale, i sindaci, il presidente del tribunale e il tribunale; che nessuna norma riconosce il relativo potere ai singoli soci; che, in particolare, nel caso come quello di specie - di decadenza dell'amministratore unico di s.r.l. priva di collegio sindacale la convocazione dell'assemblea per la sostituzione dell'amministratore spetta al presidente del tribunale ("grazie ad una integrazione dell'art. 2386 c.c."); che, comunque, il potere di convocazione non può riconoscersi al curatore del fallimento dell'amministratore, il quale non è nè amministratore, nè socio della società.
Con il secondo motivo, denunciando violazione o falsa applicazione degli artt. 1418, primo comma, 2363 e 2379 c.c., il ricorrente sostiene - e censura la sentenza impugnata per averlo, invece, escluso - che la convocazione dell'assemblea di una società di capitali compiuta da un organo a ciò non abilitato comporta la inesistenza della delibera assembleare se, come nella specie, non si tratta di assemblea totalitaria. Infatti la delibera è inesistente se l'atto di convocazione non è riconducibile, in ragione della sua anomalia, alla fattispecie legale e, dunque, manca un elemento costitutivo della fattispecie procedimentale di formazione della deliberazione.
Con il terzo motivo, deducendo violazione o falsa applicazione degli artt. 31 e 42 legge fall. e dell'art. 2368 c.c., sostiene che l'assemblea non era stata regolarmente costituita, non essendo rappresentata la maggioranza del capitale sociale, in quanto il curatore "andando al di là del suo ufficio si era assunto la qualità di socio (...) e conseguentemente quella di titolare della quota sociale di maggioranza".
Con il quarto motivo, infine, deducendo violazione o falsa applicazione degli artt. 1418, secondo comma, e 2379 c.c., afferma che, per quanto l'oggetto della delibera assembleare (nomina dell'amministratore) fosse lecito, tuttavia era illecito il motivo, giacché era stata nominata "persona indicata dal Curatore fallimentare e conseguentemente gradita al comitato dei creditori dell'ente fallimento, facendo così l'interesse di tale ente e non quello della società". Lo stesso vizio - aggiunge il ricorrente - inficia l'operato dell'amministratore nominato, il quale, anziché richiedere la vendita della quota di maggioranza, con sostituzione del socio fallito con altro socio e successiva ricapitalizzazione, condusse invece la società al fallimento, del quale poi divenne anche curatore.
2. - Va anzitutto esaminato il secondo motivo, logicamente preliminare, con cui il ricorrente sostiene che il vizio della convocazione dell'assemblea, lamentato con il primo motivo, comporti l'inesistenza della deliberazione assembleare.
Il motivo è infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'ipotesi di inesistenza della delibera assembleare di una società di capitali ricorre quando manchi alcuno dei requisiti procedimentali indispensabili per la formazione di una delibera imputabile alla società, con il risultato di determinare una fattispecie apparente, non sussumibile nella categoria giuridica delle deliberazioni assembleari per inadeguatezza strutturale o funzionale rispetto al modello normativo (Cass. 835-1995, nonché Cass. 11186-
2001, in motivaz., e le più risalenti Cass. 11601-1990, 1768-1986 e 6340-1981).
Nell'applicazione, poi, di tale principio, questa corte ha affermato (l'indagine è, ovviamente, limitata alle anomalie procedimentali riguardanti la convocazione, le sole qui rilevanti) che la situazione sopra descritta si verifica - qualora non si tratti di assemblea totalitaria - nei casi di omessa convocazione dei soci (Cass. 11186-2001, 1768-1986 e 6340-1981, citt.), o di omessa convocazione e mancata adunanza dei soci (Cas. 835-1995, cit.), o di svolgimento dell'assemblea in luogo diverso da quello indicato nell'avviso di convocazione, di modo che non vi sia certezza che tutti i soci siano stati messi in grado di parteciparvi (Cass. 403-1993).
Quanto, invece, ai casi in cui una convocazione vi sia, ma risulti a sua volta viziata, questa Corte ha generalmente escluso la inesistenza. Si vedano: la assai risalente Cass. 175-1965, per la quale la semplice irregolarità nella convocazione non determina nullità, ma soltanto annullabilità, della deliberazione; ma anche le successive Cass. 989-1977, secondo cui la deliberazione vertente su un oggetto non indicato nell'avviso di convocazione è soltanto impugnabile ai sensi dell'art. 2377 c.c., in quanto le norme concernenti le formalità di convocazione dell'assemblea sono poste ad esclusiva tutela dell'interesse dei soci al regolare svolgimento dell'attività interna della società, e non incidono sui presupposti essenziali alla formazione della volontà sociale, sicché la loro inosservanza non comporta inesistenza o nullità, bensì mera annullabilità, delle decisioni adottate; Cass. 3422-1977, che afferma la semplice annullabilità delle delibere di assemblea irregolarmente convocata da uno solo degli amministratori, invece che dal consiglio di amministrazione; Cass. 12012-1998, secondo cui il vizio della delibera del consiglio di amministrazione di convocazione dell'assemblea, costituito dalla violazione del termine di preavviso previsto per la convocazione dei consiglieri, non comporta la nullità o inesistenza della delibera consiliare di convocazione, nè incide sulla validità delle deliberazioni dell'assemblea. La stessa Cass. 1768-1986, citata dal ricorrente, nella cui massima si fa riferimento anche alla "irregolare convocazione dei soci" come causa di inesistenza della delibera, non contiene, in realtà, siffatta affermazione, ma soltanto quella della inesistenza collegata alla mancanza della convocazione. Infine, Cass. 835-2001, cit., per quanto si esprima in termini apparentemente più generali - nel riferire l'inesistenza al "vizio che...infici la convocazione dei soci" - riguarda, in realtà, fattispecie in cui il "vizio" consisteva in nient'altro che nella mancata convocazione di alcuni soci.
Può quindi affermarsi, in continuità con la pregressa giurisprudenza di questa Corte, che la omessa convocazione (di tutti o di alcuno) dei soci, comportando la mancanza, in concreto, di un elemento essenziale dello schema legale della deliberazione assembleare, determina l'inesistenza di quest'ultima (inesistenza "giuridica", ovviamente, nel senso che l'atto che è stato compiuto, pur esistendo storicamente, non è però sufficiente ad integrare lo schema legale della delibera assembleare); invece la irregolarità, o il vizio, che infici la convocazione non determina la stessa conseguenza. giacché, per quanto viziato, quell'elemento essenziale comunque sussiste.
Tali affermazioni, però, non sono ancora conclusive, restando da chiarire se, tra i possibili vizi inficianti la convocazione, possano individuarsene alcuni di consistenza tale da comportare, a loro volta, la inesistenza della convocazione (e quindi della successiva delibera). Limitando il discorso al vizio di legittimazione dell'autore della convocazione, specificamente denunciato dal ricorrente, deve escludersi che esso comporti inesistenza (ossia inconfigurabilità giuridica) dell'atto. Ed invero la convocazione di un'assemblea è, nei suoi termini essenziali, l'atto recettizio con cui al socio è dato avviso della data e del luogo della riunione: ricorrendo tali elementi, non può dirsi che una convocazione non vi sia stata. Il fatto, poi, che tale atto non provenga da soggetto legittimato, non è certo irrilevante per l'ordinamento, costituendo indubbiamente un vizio del procedimento che determina l'annullabilità della conseguente delibera assembleare; ma non è idoneo a porre in discussione il dato oggettivo della configurabilità di una convocazione nel suo essenziale schema giuridico.
Il collegio non ignora che questa Corte, in una sua (ormai risalente) pronuncia Cass. 2009-
1982 ha ritenuto che la convocazione proveniente dai soci "non può mai qualificarsi come convocazione", giacché in ordine a questa il potere dei soci "si ferma allo stadio della domanda e non al successivo e distinto 'provvedimento"' (i soci, infatti, possono soltanto richiedere, ai sensi dell'art. 2367, la convocazione dell'assemblea, giammai disporla): con il che sembrerebbe essersi implicitamente affermato il principio che la assoluta carenza di legittimazione del convocante comporti inesistenza della convocazione stessa. Tale affermazione però - contenuta, in realtà, in un mero obiter dictum (la Corte, in quella occasione, escluse, in effetti, l'inesistenza della convocazione, perché i suoi autori, per quanto a rigore semplici soci, avevano agito in qualità di membri del collegio sindacale, ancorché decaduti, onde si poneva esclusivamente un problema di validità dell'atto, e non di conformità solo apparente dello stesso al modello legale) - non sembra appagante, alla luce di quanto sopra osservato in ordine al concetto di inesistenza della deliberazione assembleare, perché la convocazione ad opera di soggetto non legittimato, per quanto indubbiamente viziata, non può dirsi, altresì, insufficiente ad integrare lo schema minimo legale di essa (atto recettizio con cui il socio è avvisato della data e del luogo della riunione).
D'altro canto, spostando la riflessione dal piano dei concetti a quello degli interessi tutelati, mentre è giustificabile una reazione radicale dell'ordinamento avverso una delibera assembleare in cui ai soci, che sono l'assemblea, non sia stata data neppure l'opportunità di partecipare all'atto, sì che quell'atto non può essere in alcun modo ricondotto alla loro volontà (della quale si sostanzia, in ultima analisi, la deliberazione collegiale), diversamente deve argomentarsi allorché tale opportunità sia stata, in concreto, offerta: in tal caso, invero, una reazione più misurata, in equilibrio con le contrapposte esigenze di certezza e stabilità dei deliberati societari, sottostanti alla particolare disciplina delle loro patologie stabilita dagli artt. 2377 e 2378 c.c., appare certamente più adeguata.
3. - Respinto il secondo motivo, resta assorbito il primo motivo di ricorso, avente ad oggetto la verifica in concreto del lamentato vizio della convocazione: escluso, infatti, che detto vizio comporti inesistenza della deliberazione assembleare e preclusa la valutazione dello stesso come causa di annullamento, la verifica in oggetto è del tutto superflua.
4. - Il terzo e il quarto motivo, con i quali il ricorrente pone le questioni, rispettivamente, della insussistenza del quorum costitutivo dell'assemblea e della illiceità del motivo della deliberazione, sono inammissibili, essendo tali questioni - peraltro poste in maniera diretta, senza formulare censure a statuizioni della sentenza impugnata - del tutto nuove: la sentenza, infatti, non vi fa cenno, nè il ricorso indica in quale fase del processo e in quale atto siano state sollevate.
5. - Il ricorso va pertanto respinto.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese processuali, liquidate in euro 2.600, di cui e 2.500 per onorari, in favore di ciascuno dei controricorrenti.
Così deciso il 17 ottobre 2002