Cassazione civile, SEZIONE I, 14 settembre 1999, n. 9795


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Michele            CANTILLO                      Presidente
Dott. Alfio              FINOCCHIARO                   Consigliere
Dott. Enrico             PAPA                          Consigliere
Dott. Giovanni           VERUCCI                       Consigliere
Dott. Giuseppe           MARZIALE                   Cons. Relatore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
SALVATORE SCHILLIRÒ, elettivamente domiciliato in Roma, via Cola  di
Rienzo n. 111, presso l'avv. Domenico  Nardi  che  lo  rappresenta  e
difende con il prof. avv. Niccolò Salanitro  in  virtù  di  procura
margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
FALLIMENTO "S.I.C.E. S.p.a.", in persona del curatore,  elettivamente
domiciliato in Roma, presso la cancelleria della Corte di cassazione,
rappresentato e difeso dall'avv. Francesco Geraci del Foro di Catania
in virtù di procura a margine del (*);
- controricorrente -
avverso la sentenza della Corte d'appello di Catania n. 170-97 del 19
marzo 1997.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza  del  12
febbraio 1999 dal Relatore Cons. Giuseppe Marziale;
Udito il P.M. in persona del  Sostituto  Procuratore  Generale  Dott.
Vincenzo Maccarone, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

1 - Con atto notificato il 1 novembre 1983 il curatore del fallimento della s.p.a. "S.I.C.E.." conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Catania i signori Aurelio Ansaldi Maira, Salvatore Schillirò, Giovanni Partescano, Ennio Ciulla e Lorenzo Calcagno, esponendo:
- che il primo di essi (Aurelio Ansaldi Maira) era stato l'amministratore unico della società fallita, ma che la società era stata, in linea di fatto gestita da uno dei soci (lo Schillirò);
- che gli altri tre convenuti erano stati i componenti del collegio sindacale;
- che una indagine effettuata in sede fallimentare aveva permesso di accertare gravi irregolarità e negligenze nella gestione sociale concretatesi, oltre che nella irregolare tenuta dei libri sociali e nella mancata trascrizione di delibere assembleari nell'apposito libro, nella mancata stipulazione di polizze assicurative dei crediti all'esportazione nella mancata denuncia dei sinistri in presenza di polizza regolarmente stipulate, nella commistione e confusione dei rapporti personali dello Schillirò e dell'Ansaldi-Maira con quelli della società;
- che i sindaci avevano omesso di esercitare la dovuta vigilanza sulla gestione della società;
- che tali comportamenti illegittimi avevano causato gravi danni alla società.
Tanto premesso, la curatela chiede che i convenuti fossero condannati, in solido tra loro, al risarcimento dei danni in misura pari alla differenza tra l'attivo e il passivo accertati in sede fallimentare, indicata, salvo più esatta quantificazione, in L. 150.000.000.
Il Tribunale condannava tutti i convenuti, ad eccezione di uno dei sindaci (il Calcagno, che aveva fornito la prova di essersi dimesso nel 1975, subito dopo la costituzione della società, al risarcimento dei danni nella misura sopra indicate.
Proponevano appello lo Schillirò, il Partescano e l'Ansaldi-Maira.
Nessuno di tali gravami veniva accolto: i primi due erano infatti rigettati perché infondati, mentre l'ultimo veniva dichiarato inammissibile per tardività.
In relazione allo Schillirò
la Corte territoriale poneva in evidenza:
- che erano stati rinvenuti "numerosissimi" bigliettini nei quali egli si era qualificato quale "direttore generale" della società, osservando che il loro numero escludeva che essi fossero stati predisposti per una sola operazione;
- che nell'incarico espressamente conferitogli di curare la riscossione di un credito di rilevante importo erano ravvisabili gli estremi di quella investitura richiesta, secondo l'orientamento tradizionale, per il riconoscimento della figura dell'amministratore di fatto. 1.1 - Lo Schillirò chiede la cassazione di tale decisione con un unico motivo. La curatela resiste con controricorso.

Diritto

2 - Con un unico motivo di ricorso - denunziandosi violazione e falsa applicazione degli artt. 2380, 2392, 2393, 2394, 2396 c.c., in relazione all'art. 146 l. fall., nonché vizio di motivazione - la sentenza impugnata viene censurata: a) per aver qualificato lo Schillirò quale amministratore (o direttore) di fatto, senza considerare che ai fini della individuazione di tale figura non è sufficiente il compimento "di singoli (sporadici) atti, ma è richiesto l'esercizio di un'attività di gestione; b) per aver quantificato il risarcimento dei danni in misura pari alla differenza tra l'attivo e il passivo fallimentare, pur essendosi la sua ingerenza nella gestione sociale limitata al compimento di una sola operazione; c) per non aver dato conto in modo adeguato delle ragioni poste a fondamento della decisione adottata. 3 - Nessuna di tali doglianze può essere accolta.
Quella sopra puntualizzata alla lettera b) è stata formulata per la prima volta in questa sede e va riconosciuta quindi inammissibile.
Le altre censure, che per la loro connessione vanno esaminate congiuntamente, sono chiaramente infondate.
Il ricorrente non contesta che le norme che disciplinano la responsabilità degli amministratori (e dei direttori generali) delle società di capitali siano applicabili, come è stato, ritenuto dalla Corte territoriale, anche a coloro che si siano, in linea di fatto, ingeriti nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura da parte della società. Ma si limita a dedurre che la sentenza impugnata muove dall'erronea premessa che singoli atti di gestione bastino ad identificare la figura del c.d. amministratore di fatto. 3.1 Orbene - fermo restando che, contrariamente a quel che si è in altra occasione affermato, i responsabili della violazione delle norme poste a presidio della corretta gestione della società non vanno individuati sulla base della loro qualificazione formale ma per il contenuto delle funzioni da essi concretamente esercitate, anche in assenza di una investitura da parte della società, così come del resto è espressamente statuito nell'ambito del diritto penale e del diritto amministrativo (artt. 135 e 136, d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385; artt. 190 e 193, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58; art. 11, d.lgs. 18 settembre (NDR: così nel testo) 1997, n. 472 - è certo esatto che l'individuazione della figura del c.d. amministratore di fatto presuppone che le funzioni gestorie svolte in via di fatto abbiano carattere sistematico e non si esauriscano, quindi, nel compimento di alcuni atti di natura "eterogenea ed occasionale".
Ma occorre riconoscere che
la Corte di merito si è fatta carico di questa esigenza, ponendo in evidenza che l'ingerenza dello Schillirò non si era limitata ad un solo episodio, ma aveva assunto carattere sistematico. Tale convincimento (la cui esattezza non può essere sindacata in questa sede di legittimità) è stato desunto dai "numerosissimi" bigliettini rinvenuti presso la sede sociale nei quali lo Schillirò si era qualificato come "direttore generale" della società e dal fatto, ritenuto sufficientemente provato, che egli "firmava per la società".
Non vi è dubbio che tali circostanze siano, in linea astratta, sufficienti a giustificare, sotto tale profilo, la decisione adottata (nella sentenza si ha cura di precisare che l'alto numero dei "bigliettini" rinvenuti escludeva che essi fossero stati predisposti per una sola operazione) escludendo l'esistenza denunziato vizio di motivazione. E deve altresì riconoscersi che il riferimento alla figura del "direttore generale" era sufficiente ad evidenziare che le funzioni gestorie venivano esercitate con ampi poteri decisionali e, quindi, con modalità tali da giustificare l'assimilazione delle norme che regolano la responsabilità degli amministratori (art. 2396 c.c.). 4 - Il ricorso deve essere quindi respinto. Le spese seguono la soccombenza e possono essere liquidate come in dispositivo.

P.Q.M

La Corte di cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in L. 72.900, liquidando gli onorari in L. 5.000.000.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 12 febbraio 1999.
(*) ndr: così nel testo.