Cassazione civile, SEZIONE I, 20 settembre 1995, n. 9975


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott.    Michele           CANTILLO                    Presidente
"       Alfio             FINOCCHIARO                 Consigliere
"       Giulio            GRAZIADEI                        "
"       Giuseppe          MARZIALE                         "
"       Renato            RORDORF                     Rel. "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
VINCENZO SCIARRETTA, elettivamente domiciliato in  Roma,  piazza  del
Fante, n. 2, presso l'avv. Giuseppe Rizzacasa, rappresentato e difeso
dall'avv. Giovanni Di Biase  del  foro  di  Pescara,  per  mandato  a
margine del ricorso.
Ricorrente
contro
ORNELLA, VALERIA, SILVANA e MARIA  FLAVIA  SCIARRETTA,  elettivamente
domiciliate in Roma Via Ezio n. 19, presso l'avv.  Quirino  D'Angelo,
rappresentate  e  difese  dall'Avv.  Osvaldo  Prosperi  del  foro  di
Pescara, giusta procura in margine al controricorso.
intimate e ricorrenti incidentali
avverso la sentenza n. 55-93  della  corte  d'appello  di  Campobasso
emessa il 15 maggio 1993;
udita la relazione del consigliere Dr. Rordorf;
udito il pubblico ministro nella persona  del  sostituto  procuratore
generale Dr. Francesco Paolo Nicita, che ha concluso per  il  rigetto
del ricorso principale e di quello incidentale.

Fatto

Il 29 dicembre 1980, in concomitanza con la trasformazione in società per azioni dello Stabilimento Laterizi s.n.c., con sede in Termoli, fu stipulato tra i soci un accordo a tenore del quale, in occasione di ogni futuro rinnovo delle cariche sociali, a Vincenzo Sciarretta, titolare del 25% del capitale sociale, o ai suoi eventuali aventi causa, sarebbe spettata la designazione di due consiglieri di amministrazione, mentre alle sue quattro sorelle, Ornella, Valeria, Silvana e Maria Flavia, titolari ciascuna di una partecipazione pari al 6.25% del capitale di detta società, o ai loro eventuali aventi causa, era assicurata la facoltà di designare, a turno, un ulteriore consigliere di amministrazione, nonché un sindaco effettivo ed uno supplente.

Il 18 dicembre 1987, tuttavia, Ornella, Valeria, Silvana e Maria Flavia Sciarretta inviarono al fratello una lettera in cui manifestavano la loro volontà di recedere dai suindicati accordi parasociali, affermando che non ne avrebbero più tenuto alcun conto per l'avvenire.
Vincenzo Sciarretta convenne allora le sorelle in giudizio dinanzi al tribunale di Larino, cui chiese di accertare la validità dei suindicati patti parasociali, nonché l'illegittimità e l'inefficacia della dichiarazione di recesso formulata dalle convenute. Le quali, a propria volta, si costituirono dinanzi al medesimo tribunale per resistere alla domanda dell'attore e per far dichiarare, in via riconvenzionale, la nullità dei menzionati patti per contrasto con norme imperative dell'ordinamento.

Il tribunale, con sentenza depositata il 23 febbraio 1991, avendo ritenuto che gli accordi stipulati dai fratelli Sciarretta fossero validi e che, tuttavia, difettando qualsiasi previsione in ordine alla loro scadenza temporale, a ciascuno dei contraenti dovesse esser riconosciuto il diritto di recesso, respinse sia le domande dell'attore sia quelle riconvenzionali delle convenute.

La sentenza di primo grado fu appellata, in via principale, da Vincenzo Sciarretta e, con successiva impugnazione incidentale, anche da Ornella, Valeria, Silvana e Maria Flavia Sciarretta. Ma la corte d'appello di Campobasso, con sentenza emessa il 15 maggio 1993, respinse l'una e l'altra impugnazione.

La corte osservò, innanzitutto, che le appellanti incidentali avevano denunciato, in sede di gravame, profili di nullità del patto parasociale non fatti valere in primo grado, implicanti un inammissibile ampliamento dei termini oggettivi del giudizio. Quanto al resto, ritenne che l'accordo parasociale di cui si discute, configurante un vero e proprio sindacato di voto, non si ponesse in conflitto con alcuna norma o principio giuridico inderogabile.

Quell'accordo, infatti, assicurando ai soci la possibilità di designazione degli organi sociali in misura proporzionale alla loro quota di partecipazione al capitale, non lederebbe l'interesse della società, ma anzi ne faciliterebbe la gestione, garantendo al contempo le minoranze azionarie; non verrebbe ad esserne per questo menomata la sovranità dell'assemblea, restando del tutto inalterata la libertà dei singoli soci di votare anche in difformità dai patti parasociali, salve le conseguenze dell'inadempimento, operanti però su un diverso piano; e neppure potrebbe essere in ciò ravvisata la violazione di un preteso principio d'indisponibilità del voto al di fuori della sede assembleare, non essendo un tal principio affatto rinvenibile nel sistema del diritto societario.

Nemmeno sarebbe valso infine sostenere, a giudizio della corte, l'invalidità del patto siccome istitutivo di vincoli destinati a protrarsi eccessivamente nel tempo. A quest'ultimo riguardo, la corte osservò che gli accordi in questione apparivano effettivamente privi di determinazione temporale, ma da ciò dedusse la necessità di riconoscere a ciascuna delle parti, in ossequio ad un principio generale dell'ordinamento, il diritto di recedere da detti accordi in qualsiasi momento. Donde l'ulteriore corrolario della piena legittimità ed efficacia della dichiarazione di recesso manifestata, nella specie, dalle sorelle Sciarretta, essendo stata essa formulata, oltretutto, con ampio anticipi rispetto alla prima successiva scadenza degli organi sociali da rinnovare e potendosi comunque ravvisare una giusta causa di recesso nel fatto stesso dell'inesistenza di un pattuito termine di durata della convenzione.

Contro tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione Vincenzo Sciarretta, deducendo tre motivi di doglianza.
Ornella, Valeria, Silvana e Maria Flavia Sciarretta hanno replicato depositando controricorso e proponendo, a propria volta, ricorso incidentale basato su di un unico motivo, illustrato poi anche con successiva memoria.

Diritto

1. - Deve anzitutto procedersi alla riunione del ricorso incidentale a quello principale, trattandosi di ricorsi proposti avverso la medesima sentenza.

2. - I tre motivi di ricorso prospettati da Vincenzo Sciarretta muovono dalla comune premessa della piena validità del patto stipulato dal medesimo ricorrente con le sue quattro sorelle - patto con il quale le parti avevano inteso disciplinare i reciproci comportamenti in occasione dell'elezione degli organi della società per azioni di cui i germani Sciarretta sono soci - e mirano a porre in discussione unicamente il capo dell'impugnata sentenza che ha dichiarato legittima ed efficace la dichiarazione delle sorelle Sciarretta di voler recedere da quel patto.

Il ricorrente censura l'impugnata sentenza, in primo luogo, perché non sarebbe corretta l'interpretazione della corte territoriale secondo cui l'accordo parasociale in esame avrebbe durata indeterminata, trovando invece quell'accordo il suo naturale termine nella prevista durata della società cui esso si riferisce.

In secondo luogo, perché, quand'anche davvero il patto fosse a tempo indeterminato, non ne deriverebbe sol per questo la legittimità del recesso unilaterale di chi lo ha sottoscritto, trattandosi di un contratto non già di scambio bensì associativo, e per di più inerente ad una società di capitali, nel cui ambito il recesso è assoggettato a limiti assai rigorosi. In terzo luogo, perché sarebbe errato e contraddittorio affermare - come ha fatto invece il giudice a quo - che la mancata previsione di un termine di durata del patto parasociale in esame integrerebbe, di per se stessa, gli estremi di una giusta causa di recesso.

Il ricorso incidentale proposto dalle sorelle Sciarretta, invece, mette direttamente in discussione il giudizio di validità del patto parasociale espresso dalla corte di Campobasso. E va da sè che, in tale prospettiva, la nullità di quel patto comporterebbe l'inesistenza (prima ancora che lo scioglimento a seguito di recesso) delle obbligazioni tutte da esso derivanti.

Ora, poiché tale ricorso incidentale non è stato espressamente condizionato all'eventuale accoglimento del ricorso principale proposto da Vincenzo Sciarretta, e poiché neppure potrebbe ipotizzarsene una subordinazione implicita, atteso l'interesse che un contraente ben può avere a far accertare l'inesistenza originaria di una qualsiasi obbligazione a proprio carico indipendentemente dall'eventuale successivo venir meno del vincolo obbligatorio, appare evidente come l'esame del ricorso incidentale si presenti logicamente preliminare rispetto a quello del ricorso principale. È quasi superfluo osservare, infatti, che solo rispetto ad un contratto valido e produttivo di effetti giuridici avrebbe senso discutere della legittimità del recesso unilaterale di una o più parti da quel contratto (del resto, come si vedrà, una parte delle questioni delle quali si dovrà trattare a proposito della validità del patto in esame è comune anche alla problematica del recesso).

3. - Venendo dunque ad esaminare le ragioni di doglianza prospettate dalle ricorrenti incidentali con riguardo all'affermata validità del patto parasociale di cui si discute, è necessario anzitutto ricordare che, con tale patto, i germani Sciarretta si sono vincolati a far sì che "colui o coloro che complessivamente detengono o deterranno" le partecipazioni azionarie attualmente in possesso di essi Sciarretta abbiano e conservino la possibilità di designare un certo numero di amministratori e sindaci dello Stabilimento Saterizi s.p.a.: e precisamente due consiglieri di amministrazione da parte di Vincenzo Sciarretta, titolare del 25% del capitale sociale, un consigliere di amministrazione, un sindaco effettivo ed un supplente, a turno, da parte delle quattro sorelle, titolari del 6.25% del capitale.

Questo accordo - per la cui intelligenza è necessario aggiungere che un coevo analogo patto era stato stipulato dai germani Sciarretta, unitariamente, con un altro socio titolare della restante metà del capitale della medesima società - è stato interpretato dalla corte d'appello non come implicante una potestà di nomina diretta delle cariche sociali, rimessa ai soci al di fuori dell'assemblea, bensì nel senso che, in occasione delle deliberazioni assembleari di nomina degli amministratori e dei sindaci, i soci firmatari si siano obbligati a votare in conformità alle indicazioni formulate da quello tra essi cui l'accordo conferisce l'indicata facoltà di designazione preventiva. E, nessuna censura essendo stata sollevata a tale interpretazione (del resto plausibile e coerente con il principio di conservazione della validità dei contratti) essa va senz'altro tenuta ferma anche in questa sede.

L'accordo di cui si discute può essere quindi con sicurezza annoverato nell'ambito dei patti parasociali, ed in particolare dei cosiddetti sindacati di voto, di cui la legge non fornisce regolamentazione alcuna, ma che sono notissimi alla prassi in quanto destinati, appunto, a disciplinare in via meramente obbligatoria tra i soci contraenti - senza però effetti diretti nei riguardi della società - il modo in cui dovrà atteggiarsi il loro diritto di voto in assemblea. Non occorre aggiungere (essendo cosa ben risaputa) che sulla validità dei sindacati di voto, la cui concreta conformazione può essere peraltro assai varia, la giurisprudenza ha assunto nel tempo posizioni piuttosto oscillanti, delle quali molto naturalmente si è discusso anche in dottrina.

Ora, la difesa delle ricorrenti incidentali, talvolta riprendendo alcune delle argomentazioni che tradizionalmente sono state addotte contro la validità dei sindacati di voto, ha sostenuto nei precedenti gradi del giudizio, e tuttora sostiene, che un patto del genere di quello stipulato dai germani Sciarretta sarebbe affetto da assoluta nullità.

Giova però distinguere, a tal riguardo, le argomentazioni di ordine generale, che come si vedrà non appaiono persuasive, da quelle che specificamente si riferiscono alla conformazione del patto in esame, ad alcune delle quali, invece, non può negarsi fondamento.

4. - Non persuade, innanzitutto, in termini generali, l'affermazione secondo la quale il sindacato di voto, ed in specie l'accordo parasociale avente ad oggetto la nomina di organi della società, svuoterebbe l'assemblea di ogni significato e la priverebbe del potere di scegliere la forma dell'organo amministrativo (se monocratico o collegiale), nonché le persone degli amministratori e dei sindaci, di fatto così sanzionando una sorta di inerzia assemblare, che, ove protratta, dovrebbe addirittura condurre allo scioglimento della società ai sensi dell'art. 2448, n. 3, c.c..

Se una tesi siffatta fosse condivisibile, nella sua assolutezza, e conseguirebbe evidentemente l'invalidità di tutti i patti di sindacato il cui oggetto consista nel disciplinare in vario modo l'esercizio del diritto di voto dei soci in assemblea anche, e soprattutto, con riferimento alla nomina delle cariche sociali. Ma, come ormai anche la quasi unanime dottrina ha acclarato, non sussiste alcun valido motivo giuridico che giustifichi una simile conclusione.

Non è esatto, in particolare, che, vincolando con dei patti parasociali la propria libertà di voto, i soci finirebbero per svuotare l'assemblea delle funzioni e dei poteri che ad essa la legge attribuisce. Così argomentando, si confondono infatti piani diversi.

Il vincolo nascente dal patto di sindacato opera su un terreno che è esterno a quello dell'organizzazione sociale (donde, appunto, il carattere parasociale del patto) e non impedisce in alcun modo al socio di determinarsi all'esercizio del voto in assemblea come meglio egli creda, sicché il funzionamento dell'organo assembleare non è in questione. Il fatto che il socio medesimo si sia, in altra sede, impegnato a votare in un determinato modo ha rilievo solo per l'eventuale responsabilità contrattuale nella quale egli incorrerebbe - ma unicamente verso gli altri firmatari del patto parasociale - violando quell'accordo.

Il vincolo obbligatorio assunto opera, cioè, nè più o meno che come qualsiasi altro possibile motivo soggettivo ed individuale che possa spingere un socio ad assumere in assemblea un certo atteggiamento e ad esprimere un determinato voto. Ma nessuno potrebbe impedire a quel socio di optare per il non rispetto del patto di sindacato ogni qual volta, a suo personale giudizio, l'interesse ad un certo esito della votazione assembleare prevalga sul rischio di dover rispondere dell'inadempimento verso gli altri partecipanti al patto di sindacato. Il che - è persino superfluo sottolinearlo ulteriormente - non mette di per sè minimamente in discussione la validità del deliberato assembleare, qualunque sia la scelta operata dal socio, almeno fin quando non risulti possibile dimostrare, in concreto, l'esistenza di un conflitto d'interessi rilevante ai sensi dell'art. 2373 c.c. o la violazione di altre specifiche disposizioni regolanti il diritto di intervento e di volto del socio in assemblea.

Altro è, insomma, riconoscere il potere dell'assemblea, come organo collegiale, di deliberare sugli oggetti di sua competenza, altro è pretendere (un pò utopisticamente, invero) che la volontà individuale di coloro che sono chiamati a votare in assemblea si formi spontaneamente in quella stessa sede, libera e monda da qualsiasi eventuale pregresso condizionamento. E come non si dubita della validità dell'assemblea in cui il rappresentante delegato dal socio abbia votato secondo le istruzioni da quest'ultimo impartitegli, nè tanto meno si dubita della validità del deliberato assembleare assunto con il voto del rappresentante comune di più comproprietari delle medesime azioni, ex art. 2347 c.c., benché anche in tali casi sia evidente che la volontà del votante è condizionata da vincoli assunti al di fuori della sede assembleare, così non si comprende per qual ragione dovrebbe ritenersi che la potestà dell'organo assembleare possa esser messa in discussione dall'esistenza di pregressi accordi obbligatori tra i soci in ordine al modo in cui costoro eserciteranno il loro diritto di voto.

Non può, inoltre, non considerarsi come la più recente legislazione alluda ormai con tale e tanta frequenza all'ipotesi di patti di sindacato aventi ad oggetto l'esercizio del voto in assemblea da rendere ormai davvero improponibile la tesi di un'incompatibilità di principio tra l'ordinamento societario e gli accordi parasociali destinati a disciplinare l'esercizio del diritto di voto in assemblea. Senza alcuna pretesa di completezza, basterà citare l'art. 25 del D.P.R. 22 ottobre 1973, n. 936 (concernente la tariffa per le prestazioni professionali dei dottori commercialisti), l'art. 2, secondo comma, della legge 5 agosto 1981, n. 416 (sull'editoria), l'art. 13, settimo comma, della legge 6 agosto 1990, n. 223 (sulla disciplina del sistema radiotelevisivo), l'art. 27, commi secondo e sesto, della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (in tema di tutela della concorrenza e del mercato), l'art. 26, secondo comma, del d.lgs. 20 novembre 1990, n. 356 (sui gruppi creditizi), l'art. 4, terzo comma, della legge 2 gennaio 1991, n. 1(istitutiva delle società d'intermediazione mobiliare), l'art. 26, secondo comma, lett. b), del d.lgs. 9 aprile 1991, n. 127 (sulla disciplina del bilancio consolidato), gli artt. 7, secondo comma, e 10, commi primo, secondo, terzo e quarto, della legge 18 febbraio 1992, n. 149 (sulle offerte pubbliche di vendita, sottoscrizione, acquisto e scambio di titoli), e l'art. 23 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia). Norme tutte che, più o meno esplicitamente, contemplano appunto accordi del genere di quelli di cui si sta discutendo, sull'inespresso ma evidente presupposto che tali sindacati abbiano piena cittadinanza nel vigente ordinamento giuridico.

Nè varrebbe ancora obiettare che la validità dei sindacati di voto, quando questi abbiano ad oggetto la designazione di amministratori e sindaci della società, troverebbe ostacolo nella regola che attribuisce all'assemblea il relativo potere di nomina (art. 2383, primo comma, c.c.). L'inderogabilità di tale regola non è, infatti, in discussione: perché, come già ripetutamente chiarito, i sindacati di voto, operando su un piano parasociale, non incidono sui poteri e sulle funzioni dell'organo assembleare. E non può d'altronde farsi a meno di rilevare ancora come alcune tra le disposizioni delle leggi speciali sopra menzionate si riferiscano proprio ad accordi tra soci riguardanti la nomina delle cariche sociali, al dichiarato scopo di regolamentare i rapporti di controllo che ne derivano, presupponendone dunque la piena validità.

5. - Attengono, invece, alla specifica configurazione del patto parasociale in esame altre ragioni di nullità dedotte dalle sorelle Sciarretta, le quali denunciano il vizio in cui sarebbe incorsa l'impugnata sentenza per avere, viceversa, affermato la validità di quell'accordo.

Il patto di cui si discute, a giudizio delle ricorrenti incidentali, sarebbe anzitutto viziato da indeterminatezza, risultandone impossibile l'applicazione nel caso, pur previsto, di trasferimento a cessionari diversi delle azioni attualmente possedute dalle sorelle Sciarretta ed essendo inoltre carente la disciplina del modo in cui dovrebbe attuarsi la successione a turno ipotizzata, tra dette sorelle, nel potere di nomina di un amministratore, di un sindaco effettivo e di un supplente. Ed, ancora, il patto risulterebbe inficiato da ingiustificata disparità di trattamento in favore di Vincenzo Sciarretta, il quale, pur essendo titolare di una partecipazione azionaria uguale a quella nell'insieme spettante alle quattro sorelle, si vedrebbe in tal modo attribuita la possibilità di designare un numero di amministratori doppio rispetto a loro.

Le doglianze così prospettate non hanno però fondamento.

Il fatto che le parti si siano obbligate anche con riguardo a chi in futuro si trovi ad essere titolare delle partecipazioni azionarie loro spettanti all'atto della stipulazione dell'accordo, di per sè, non vale certo a modificare il carattere strettamente personale e meramente obbligatorio che necessariamente inerisce a pattuizioni di tal genere. Non si tratta, quindi, della creazione di azioni dotate di speciali diritti: ché, se così fosse, la relativa previsione (valida o meno) avrebbe potuto essere contenuta solo nell'atto costitutivo o nell'allegato statuto sociale. Si tratta, invece, come già detto, di un'obbligazione parasociale e, dunque, di natura esclusivamente personale, nel cui ambito il riferimento agli eventuali futuri titolari delle azioni attualmente detenute dai firmatari del patto altro significato non può assumere se non quello di un impegno a cedere dette azioni solo a chi sia a propria volta disposto ad aderire al medesimo accordo parasociale. Un impegno che, in quanto tale, non esula dalla sfera della legittima autonoma negoziale dei contraenti (salvo quanto si dovrà poi osservare in tema di delimitazione temporale del vincolo) ed il cui oggetto appare perfettamente determinabile.

Quanto poi al fatto che il previsto meccanismo degli accordi di voto postuli anche, per poter funzionare, l'invariato mantenimento della medesima ripartizione delle partecipazioni sociali in capo ai soci firmatari o a loro eventuali aventi causa, non si vede come possa da ciò desumersi l'indeterminabilità o la non eseguibilità dell'accordo. Può solo dedursene che, come già accennato, il sindacato di voto si accompagna, nella fattispecie, ad un ulteriore impegno dei contraenti in ordine alla futura eventuale cessione a terzi delle azioni da essi attualmente possedute: cessione che le parti evidentemente si sono impegnate ad operare solo a condizione che non ne derivi un mutamento nella proporzionale ripartizione delle partecipazioni sociali, quali attualmente rispecchiate nel patto di sindacato, essendo questo un ovvio quanto indispensabile presupposto perché sia possibile assicurare la promessa adesione anche dei futuri cessionari delle azioni all'accordo di cui si tratta. Il che - come si avrà modo di rilevare - non è senza importanza ai fini del giudizio sulla validità del patto di sindacato in discorso, ma certo non incide sulla determinatezza o sulla determinabilità del suo oggetto.

Nessun motivo d'incertezza (tanto meno, poi, d'invalidità) deriva neppure dal fatto che la designazione dei componenti degli organi sociali rimessa dall'accordo alla scelta delle quattro sorelle Sciarretta competa, a turno, a ciascuna di esse. Avendo luogo la nomina delle cariche sociali a scadenze periodiche determinate, è infatti perfettamente comprensibile il senso dell'indicata pattuizione, che evidentemente rinvia ad un accordo interno tra le sorelle circa l'ordine da rispettare nel turno di designazione ma, non per questo, è da considerare inattuabile o invalido.

E nemmeno coglie nel segno l'eccezione d'invalidità concernente la pretesa disparità di trattamento che l'accordo in esame determinerebbe tra i soci firmatari: sia perché, in termini generali, si stenta ad intendere sotto qual profilo un assetto negoziale d'interessi liberamente fissato dalle parti contraenti possa esser censurato dal giudice, sotto l'accennato profilo della disparità di trattamento, al di fuori delle ipotesi di annullamento per vizi del volere ovvero di rescissione per lesione enorme o di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, specificamente contemplate dalla legge; sia perché, in concreto, la corte territoriale ha espresso una valutazione di merito adeguatamente motivata, e non quindi censurabile in questa sede, in ordine all'inesistenza della lamentata disparità di trattamento (giacché, con la convenzione in discorso, era assicurata a ciascuna delle sorelle Sciarretta la possibilità di far pesare la propria volontà, in ordine alla nomina delle cariche sociali, in misura ben superiore a quella che altrimenti sarebbe derivata dalla minima percentuale di partecipazione di ogni singola socia al capitale della società)

6. - L'impugnata sentenza non è invece immune da censure, a giudizio di questa corte, nella parte in cui ha ritenuto che la mancanza di qualsiasi termine finale non si rifletta sulla validità del patto parasociale in discorso, ma possa essere colmata con il riconoscimento ex lege del diritto di recesso in favore di ciascun contraente.

Nel valutare tale questione occorre però preliminarmente farsi carico dell'obiezione sollevata dal ricorrente principale, il quale contesta l'affermazione del giudice a quo, secondo la quale l'accordo parasociale di cui si tratta sarebbe da considerare a tempo indeterminato, a sottolinea come, viceversa, vi sia un evidente rapporto di accessorietà tra il patto di sindacato ed il contratto sociale: onde dovrebbe desumersi che, essendo quest'ultimo a tempo determinato, anche il patto di sindacato sia da considerare tale e venga a scadere in concomitanza con il maturare del termine finale della società. Nè varrebbe obiettare che, nella specie, la durata della società è presumibilmente destinata a superare la vita dei contraenti, non essendovi in ciò nulla di anomalo, come nulla di anomalo v'è, appunto, nel fatto che venga stipulata una società destinata a durare più a lungo dei suoi soci fondatori. Cosa che, del resto, sarebbe stato ben presente alla mente dei firmatari dell'accordo parasociale, come si deduce dall'esplicito riferimento anche ai loro eventuali aventi causa nella titolarità delle azioni della società.

Quest'obiezione non pare però persuasiva. È certo innegabile l'esistenza di un collegamento causale tra il patto parasociale ed il contratto di società cui quel patto si riferisce; ma da ciò non discende che tale patto sia da considerare a tempo determinato - per l'aspetto che qui rileva - sol perché è stabilita la scadenza della società.

L'art. 2328, primo comma, n. 11, c.c., prescrive che l'atto costitutivo di una società per azioni deve sempre indicare la durata della società: se dunque si volesse sostenere che, in difetto di pattuizioni diverse, la durata di un patto parasociale di sindacato naturalmente coincide con quella della società, si perverrebbe alla singolare conclusione di escludere sempre e comunque la configurabilità stessa di patti di sindacato a tempo indeterminato.

Viceversa, occorre rilevare che l'indicazione di durata contenuta nell'atto costitutivo della società si riferisce, appunto, alla società come tale, ossia all'ente collettivo, che pur prendendo vita dal contratto stipulato dai soci fondatori ben può aver poi un proprio distinto sviluppo ed una durata diversa da quella dei singoli rapporti di partecipazione facenti capo a questo o a quel socio.

Prova ne sia che, in diverse situazioni, è possibile il venir meno del singolo rapporto partecipativo (quando, ad esempio, il socio non sottoscriva il capitale ricostituito dopo l'integrale perdita, o in tutti i casi nei quali è consentito il recesso), senza alcun riflesso sul perdurare della società. E ciò giustifica la diffusa prassi di fissare termini di durata della società assai lontani nel tempo (come anche nella specie risulta esser stato fatto), di gran lunga eccedenti rispetto a qualsiasi ragionevole aspettativa di vita dei singoli soci fondatori, termini che appunto per questo si stenterebbe a riferire alla posizione delle singole persone fisiche dei soci.

Ma allora, stando così le cose ed attenendo i patti parasociali di sindacato non già all'organizzazione ed alla vita dell'ente collettivo, bensì a rapporti di carattere personale facenti capo unicamente ai firmatari del patto, ben s'intende come sia arbitrario trasformare sic et simpliciter il termine di durata della società in una scadenza convenzionale fissata per il patto di sindacato. Sul quale patto la cessazione della società potrà sì riflettersi - pur sempre in modo indiretto -, ma nella sola evenienza in cui la società abbia termine quando il sindacato è ancora in vigore ed unicamente perché non vi sarebbe più, in tal caso, la possibilità di dare esecuzione agli accordi parasociali sottoscritti; non per una pretesa annuale coincidenza tra la durata della società e quella del patto di sindacato.

È dunque corretta e da condividere l'affermazione dell'impugnata sentenza, laddove, premesso il carattere meramente obbligatorio del rapporto derivante dal patto di sindacato di cui si tratta, e tenuto conto dell'eccedenza della prevista durata della società rispetto alla presumibile vita fisica dei firmatari di quell'accordo, lo ha definito come un accordo a tempo indeterminato.

7. - Tanto chiarito, occorre ora valutare in qual misura un patto così concepito, privo cioè di determinazione di durata (o di durata eccedente la prevedibile vita fisica dei firmatari), possa esser considerato valido alla luce del principio - cui la stessa corte territoriale si richiama nell'impugnata sentenza - secondo in quale l'ordinamento non tollererebbe l'istituzione di vincoli obbligatori a carattere permanente.

Sull'esistenza di un principio assoluto ed inderogabile di temporaneità dei rapporti obbligatori nel nostro ordinamento - principio che taluni definiscono di ordine pubblico e che si è soliti ricollegare sia all'esigenza di tutelare la libertà personale degli individui, sia alla protezione dell'interesse generale alla non eccessiva immobilizzazione delle risorse economiche - non è forse necessari prendere qui posizione. Basterà osservare che, innegabilmente, il legislatore ha mostrato un netto disfavore per le obbligazioni a tempo indeterminato, dettando una serie di norme che, in relazione ad una molteplicità di fattispecie tipiche disciplinate dalla legge, valgono appunto ad evitare il sorgere di obbligazioni siffatte, talvolta espressamente subordinandone la validità alla predeterminazione della durata (si pensi agli artt. 1379 e 2125, primo comma, c.c.) o direttamente stabilendo per esse un limite temporale (si pensi agli artt. 1574, 1630, 2125, secondo comma, 2143, 2596 e 2604 c.c.), altre volte contemperando la mancata prefissazione di un termine finale con la potestà di recesso unilaterale dei contraenti (si pensi agli artt. 1596, secondo comma, 1616, 1750, secondo comma, 1810, 1833, primo comma, 1845, ultimo comma, e 2118, primo comma). Ed è importante sottolineare come tale disfavore non riguardi solo i contratti di scambio, ma sia altresì riscontrabile nella disciplina legale dei contratti associativi, come palesemente attestano l'art. 24, secondo comma, e l'art. 2285, primo comma, c.c..

Nè varrebbe obiettare che, tuttavia, nelle società di capitali il recesso è disciplinato in termini assai limitativi anche quando la durata della società sia eccedente rispetto alle naturali speranze di vita dei soci: giacché la particolare regolamentazione del recesso, in società di questo tipo, unicamente dipende dalla diversa e prevalente esigenza di garantire la stabilità del capitale sociale (sola garanzia dei creditori, atteso il regime di responsabilità limitata dei soci) e trova comunque il proprio contrappeso nell'illegittimità di vincoli che (almeno nelle società azionarie) impediscano o eccessivamente riducano la possibilità del socio di liberarsi della propria partecipazione trasferendola a terzi.

Ora, in presenza di un così marcato disfavore dell'ordinamento per le obbligazioni destinate a durare indefinitamente, sarebbe davvero arduo ammettere che l'autonomia negoziale privata possa dar vita ad accordi di carattere atipico idonei a produrre vincoli giuridici indeterminati nel tempo. O dunque deve risultare possibile identificare, nel meccanismo stesso del patto stipulato dalle parti, la previsione del naturale venir meno delle obbligazioni dei contraenti ad una prefissata scadenza (o anche del loro venire meno in conseguenza del verificarsi di determinate situazioni di fatto da cui derivi la liberazione dell'obbligato oppure il suo potere di recedere dal contratto), o, altrimenti, non potrà quell'accordo superare il vaglio di meritevolezza cui il secondo comma dell'art. 1322 c.c. assoggetta i contratti atipici ed in difetto del quale da tali contratti non possono discendere obbligazioni giuridicamente vincolanti. Che i patti parasociali di sindacato, non foss'altro per la frequenza con cui la legislazione ad essi si riferisce, siano di per se stessi da considerare delle convenzioni atipiche meritevoli di tutela non è da porre in dubbio; e lo si è già detto. Ma sarebbe, invero, manifestamente contraddittorio definirli meritevoli di tutela, ai sensi della citata disposizione dell'art. 1322, ove ne derivassero obbligazioni indefinite nel tempo per le quali l'ordinamento mostra un così palese disfavore.

Non è possibile sottrarsi all'alternativa così delineata ipotizzando una sorta 'integrazione legale del contratto atipico, che verrebbe realizzata mediante l'inserzione di una clausola di recesso unilaterale non prevista dalle parti. Il principio di conservazione del contratto può spingersi sino al punto da configurare l'esistenza di una clausola siffatta, ma pur sempre a condizione di rimanere sul terreno dell'interpretazione di quanto i contraenti hanno inteso pattuire, giacché tale principio è appunto espresso dall'art. 1367 c.c. nell'ambito delle regole di ermeneutica del contratto. Con la conseguenza che, quando la regolamentazione convenzionale sia inequivocabilmente diretta all'istituzione ed al mantenimento di vincoli a tempo indeterminato, sarebbe arbitrario interpretarla invece come implicante la possibilità di scioglimento unilaterale di quei medesimi vincoli in contrasto con quanto le parti stesse hanno mostrato di volere.

Nè potrebbe utilmente qui invocarsi la disposizione dell'art. 1339 c.c., la quale per un verso presuppone l'esistenza di uno schema negoziale tipico in cui la disposizione imperativa possa inserirsi, sostituendo quella difforme ipotizzata dai contraenti, e, per altro verso, richiede che la clausola da inserire sia a propria volta ben determinata dal legislatore in rapporto a quel tipo di contratto.

Condizioni tutte che, con ogni evidenza, non ricorrono nel caso di contratti atipici contrastanti con il già accennato generale atteggiamento di disfavore legislativo verso le obbligazioni di durata indeterminata (per non dire, poi, ché e quanto meno dubbia la possibilità stessa d'ipotizzare lo scioglimento di un vincolo contrattuale per recesso unilaterale di una delle parti in base ad un principio generale e fuori dai casi tassativamente ed espressamente contemplati dalla legge).

Stando così le cose, e tornando a considerare più da presso il patto di sindacato stipulato dai germani Sciarretta, sembra al collegio che debba essere rovesciata la conclusione cui è pervenuta la corte di Campobasso.

È innegabile che si è qui in presenza di un negozio atipico, e si è già visto che esso implica l'insorgere di vincoli la cui scadenza non è determinata nel tempo. Vero è che, per ciascun singolo socio contraente, il vincolo riguardante il voto da esprimere in assemblea potrebbe trovare la sua naturale scadenza nel venir meno della qualità stessa di socio, ove egli si determinasse a trasferire le proprie azioni a terzi, atteso il già più volte ricordato carattere personale delle obbligazioni nascenti dal patto in esame.

Non può peraltro ignorarsi che, come pure già notato, i firmatari dell'accordo si sono altresì impegnati a far sì che anche i loro eventuali aventi causa assumano analoga obbligazione, e per ciò stesso si sono necessariamente vincolati a non cedere le loro azioni se non alla duplice condizione che sia serbato inalterato l'attuale rapporto reciproco di partecipazione al capitale sociale e che anche i futuri cessionari siano disposti ad aderire al sindacato di voto.

L'insieme di tali previsioni denota quindi con evidenza l'intento delle parti di cristallizzare il più possibile nel tempo la situazione fotografata nel patto di sindacato, evitando che eventuali iniziative negoziali di uno solo o di alcuni tra i contraenti possano rendere inoperante il sindacato stesso a dispetto della volontà degli altri. E ciò conferma che l'inserzione in un tal contesto negoziale di una clausola di recesso unilaterale, quale quella ipotizzata dalla corte d'appello, non sarebbe in alcun modo in linea con la volontà negoziale manifestata dagli interessati: ché, al contrario, essa finirebbe per imprimere all'intera fattispecie una torsione opposta a quella voluta dalle parti. Nè, d'altro canto, può farsi a meno di considerare che una siffatta ipotesi di recesso unilaterale, priva di ogni regolamentazione circa i tempi ed i modi del suo esercizio, rischierebbe di svuotare l'impegno delle parti, come sopra lo si è descritto, di qualsiasi carattere di serietà: giacché, ad esempio, consentirebbe a ciascuno dei firmatari dell'accordo di recedere da esso non appena gli si desse l'opportunità di cedere in tutto o parzialmente le proprie azioni anche ad un terzo che non fosse disposto a prestare adesione al sindacato.

Esclusa la praticabilità del recesso, è però inevitabile giungere alla conclusione che il patto stipulato dai germani Sciarretta è privo dei necessari requisiti di meritevolezza e di validità giuridica. Dovrebbe risultare ormai ben chiaro, infatti, alla stregua di quanto sopra esposto, che la stretta connessione tra il vincolo avente ad oggetto l'esercizio del voto e quello gravante sulla trasferibilità delle azioni a terzi rende quanto mai ipotetico, se non addirittura del tutto improbabile, che il socio sottoscrittore di un simile patto parasociale sia mai in grado di liberarsi in futuro dalle obbligazioni in tale modo assunte. E tanto basta per far ricadere quel patto nell'area di disfavore che circonda le obbligazioni destinate a durare indefinitamente nel tempo e per impedire di considerarlo meritevole di tutela, e perciò giuridicamente valido, a norma del citato art. 1322, secondo comma.

8. - L'acclamata nullità del patto parasociale di cui si discute comporta l'accoglimento, per quanto di ragione, del ricorso incidentale proposto dalle sorelle Sciarretta e rende superfluo un più specifico esame dei motivi del ricorso principale.

Ne consegue che l'impugnata sentenza della corte d'appello di Campobasso deve essere cessata.

Non appaiono necessari ulteriori accertamenti di fatto e, dunque, ai sensi del primo comma dell'art. 384 c.p.c. (come modificato dall'art. 66 della legge n. 353 del 1990), non occorre disporsi il rinvio della causa per un nuovo esame al giudice di merito.

In virtù dei poteri conferitile dalla norma da ultimo citata, questa corte è infatti in grado di decidere direttamente sulle domande proposte dalle parti nei precedenti gradi del giudizio.

Pertanto, in applicazione delle regulae juris dinanzi enunciate, dovrà essere riformata la sentenza emessa in primo grado dal tribunale di Larino; in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta dalle sorelle Sciarretta, dovrà essere dichiarata la nullità del patto parasociale di cui si è discusso; dovranno essere respinte, invece, le domande a suo tempo formulate a Vincenzo Sciarretta per far accertare la validità del medesimo patto e l'inefficacia della dichiarazione di recesso comunicatagli dalle controparti.

La relativa novità delle questioni trattate, in ordine alle quali non sempre la giurisprudenza si è finora orientata in modo univoco, e l'infondatezza di molte delle argomentazioni addotte in causa dalle ricorrenti incidentali, pur in definitiva vittoriose, inducono la rote a compensare tra le parti le spese dell'intero giudizio.

P.Q.M

La corte: 1) riunisce il ricorso incidentale a quello principale; 2) accoglie, per quanto di ragione, il ricorso incidentale; 3) dichiara assorbito l'esame del ricorso principale; 4) cassa l'impugnata sentenza della corte d'appello di Campobasso; 5) decidendo ai sensi dell'art. 384, primo comma, c.p.c., in riforma della sentenza di primo grado emessa dal tribunale di Larino, rigetta le domande proposte da Vincenzo Sciarretta, accoglie la domanda riconvenzionale proposta da Ornella, Valeria, Silvana e Maria Flavia Sciarretta, e, per l'effetto, dichiara la nullità della convenzione stipulata tra dette parti in data 29 dicembre 1980; 6) compensa tra le parti le spese dell'intero giudizio.

Così deciso, in Roma, il 9 giugno 1995