Cassazione penale  sez. V, 18 maggio 2006, n. 23730

 
                    LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                   
                        SEZIONE QUINTA PENALE                        
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                            
Dott. FOSCARINI   Bruno      -  Presidente   -                       
Dott. FERRUA      Giuliana   -  Consigliere  -                       
Dott. AMATO       Alfonso    -  Consigliere  -                       
Dott. MARASCA     Gennaro    -  Consigliere  -                       
Dott. SANDRELLI   Giangiacom -  Consigliere  -                       
ha pronunciato la seguente:                                          
                     sentenza                                        
sul ricorso proposto da:                                             
           R.P., nato il (OMISSIS);                                  
avverso  la  sentenza  del  della Corte d'Appello  di  Roma  in  data
3.2.2005;                                                            
sentita la Relazione svolta dal Cons. Dr. Gian Giacomo Sandrelli;    
sentita  la  Requisitoria del Procuratore Generale nella persona  del
Cons.  Dr. Cedrangolo Oscar che ha concluso i ritenersi la bancarotta
preferenziale con conseguente dichiarazione di non doversi  procedere
per prescrizione;                                                    
udito il difensore avv. PLACCO GIOVAN VINCENZO.                      
                 

Fatto

IN FATTO

La Corte d'Appello di Roma, con Sentenza del 3.2.2005, assolveva R.P. dalla quasi totalità delle imputazioni di bancarotta fraudolenta impropria, per cui era stato condannato dal Tribunale di Roma con Sentenza 6.3.2002. Confermava, tuttavia, la sua responsabilità in merito ad un episodio di distrazione patrimoniale collegato ad una complessa manovra finanziaria (su cui meglio sarà detto in prosieguo), condannando il predetto alla pena di due anni di reclusione, riconosciute in via di prevalenza le attenuanti generiche.

Avverso la decisione della Corte territoriale ricorre la difesa del R. chiedendone l'annullamento ed eccepisce:

- l'illogicità della motivazione, nella parte in cui, avendo escluso che l'imputato si fosse giovato a scopi personali di una provvista contabile che erroneamente il primo giudice aveva qualificato fittizia, doveva considerarsi reale ed esistente, sicchè le imputazioni di spesa a suo favore ovvero le operazioni societari gravanti su di essa non possono qualificarsi come prive di giustificazione; di poi, però, censurava come distrattivo l'esborso sostenuto dalla società - sempre a valere sul medesimo credito contabile del R. - per l'acquisto di quote di società che possedeva un natante;

- l'erronea applicazione della legge penale o la carente motivazione al proposito del riconosciuto dolo in capo al R., che ben difficilmente poteva qualificarsi come finalizzato al danno dei creditori;

- l'erronea applicazione della legge penale nell'aver ravvisato condotta di fraudolenza patrimoniale nel fatto per cui è stata confermata la condanna, anzichè di bancarotta preferenziale attesa la realità del credito in capo all'imputato (ipotesi estinta per prescrizione).

Diritto

IN DIRITTO

La vicenda societaria dedotta dal presente ricorso riguarda il fallimento di società per azioni OFFICINE ROMANAZZI - dichiarato il 25.3.1994 - sorto dalla fusione con SEGI Srl. Entrambi organismi erano riferibili alla famiglia di R.P..

L'articolata decisione della Corte d'Appello ha fornito una lettura della vicenda societaria indubitabilmente aderente al dato giuridico, escludendo una configurazione astrattamente fittizia della natura del credito sul quale ruota l'intera contestazione di accusa.

E' bene qualche cenno sul punto:

1) OFFICINE ROMANAZZI S.p.a. era proprietaria di un terreno su cui era presente l'officina utilizzata a scopo industriale. La società divenne titolare della licenza per un progetto di riconversione dell'area individuando, a seguito di pregresse trattative, l'acquirente nel Ministero delle Poste. Fu stipulato un prezzo, comprensivo dell'opera edificatoria ultimata, in Lire (definitive) 132 miliardi. Per l'opera di ristrutturazione la società ottenne da ICCRI un cospicuo finanziamento (di complessive L. 55 miliardi), da assegnarsi in apertura di credito e garantito da ipoteca sull'opera.

R.P. costituì SEGI S.r.l., dotandola del modesto capitale di L. 20.000.000. Egli la destinò all'acquisto di rilevante parte del capitale di OFFICINE ROMANAZZI S.p.a. Il prezzo di cessione del pacchetto azionario venne fissato, a mezzo di perizia giurata, in L. 70.100.000.000, prezzo che considerava il valore dell'immobile, ristrutturato e pronto per la vendita al Ministero.

Il pezzo non venne pagato da SEGI a R.P., se non - contestualmente alla vendita - nella misura di L. 1 miliardo, somma corrisposta in liquido al predetto. Sorse, quindi, un credito di R.P. verso SEGI S.r.l. di L. 69.100.000.000, pari al residuo prezzo non ancora pagato. Trattasi della posta su cui si controverte.

La Corte d'Appello ha ritenuto credibile la versione resa dal R. sulla ragione e la finalità dell'operazione societaria:

evitare la tassazione della possibile e gravosa plusvalenza che si sarebbe creata - al momento della vendita dell'opera al Ministero - tra i valori immobiliari portati a bilancio di OFFICINE ROMANAZZI S.p.a. (a costo storico) e quelli (di effettivo realizzo), invece, conseguenti alla cessione del bene al Ministero. Per perseguire questo disegno di risparmio fiscale, SEGI S.r.l. incorporò S.p.a.

OFFICINE ROMANAZZI (sulla base delle situazioni patrimoniali al 27.11.1990). SEGI, che portava (tra l'altro) al passivo il debito verso R.P. ed all'attivo la partecipazione della stessa S.p.a. OFFICINE ROMANAZZI (al valore corrente, fissato dalla perizia), acquistò la residua porzione delle azioni in mano a R.P., aumentò il capitale che assegnò proporzionalmente ai soci, rappresentati dalla famiglia R..

Quindi, S.r.l. SEGI si trasformò, assumendo la definitiva denominazione di OFFICINE ROMANAZZI (2) S.p.a., portando il capitale a L. 7 miliardi, posta che R.P. versò (per L. 5.320.000.000) a valere sul suo maggior credito verso la società (L. 69.100.000.000, come si è detto).

Già prima dell'operazione i soci di OFFICINE ROMANAZZI S.p.a.

avevano ceduto in pegno ad ICCRI le proprie azioni (di poi sostituendo la garanzia costituita dal medesimo pacchetto azionario, nelle fasi della trasformazione/incorporazione).

OFFICINE ROMANAZZI S.p.a., nella versione definitiva, subentrò nelle trattative con il Ministero delle Poste, per completare l'opera da cedere a quest'ultimo. La nuova società potè completare l'oneroso intervento con un impegno edile che prosciugò le proprie potenzialità. Fu necessario, quindi, che ricorrere nuovamente ad un allargamento dell'apertura di credito (sino a Lire 65 miliardi) ed i soci dovettero provvedere ad operazioni di riduzione/aumento del capitale per ripianare le perdite manifestate per l'esercizio (OMISSIS).

In data 27.3.1992 la società fu in grado di presentare al Ministero bozza del contratto di compravendita del ristrutturato compendio immobiliare di (OMISSIS) (per l'importo di L. 131,550 miliardi). Essa cedette - in funzione di garanzia - ad ICCRI l'intero credito che sarebbe derivato dall'affare (L. 131,550 miliardi), ICCRI, contestualmente liberò l'immobile dedotto nelle trattative, dall'ipoteca per consentire la sua piena disponibilità, priva di pesi, al momento della stipula del contratto di compravendita.

Ma il Ministero, inopinatamente, per evidenti ed improvvisi (di certo imprevisti) dissensi di ordine politico/amministrativo con i precedenti intendimenti, non approvò il contratto e la trattativa fu bloccata.

Inevitabile fu l'epilogo della vicenda, trovandosi la società paralizzata da un soverchiante debito per un'opera compiuta nell'interesse dell'unico cliente, ora rinunciatario. L'insolvenza fu dichiarata dopo che, il pur ammesso concordato preventivo (10.2.1993), non rinvenne la maggioranza necessaria dei creditori. Il 25.3.1994 OFFICINE ROMANAZZI S.p.a. era dichiarata fallita dal Tribunale di Roma, per istanza della ditta VIANINI LAVORI S.p.a., appaltatrice ed esecutrice dei lavori.

2) Il Tribunale ritenne che la vistosa posta di credito (L. 69,100 miliardi), vantata da R.P. verso la società, non fosse giuridicamente esistente e, così, ritenne di natura distrattiva il compendio delle somme erogate dalla società a favore del detto imputato a ristoro della sua pretesa e qualificò come simulata l'appostazione del residuo debito, che giudicò quale passività inesistente.

Con indirizzo diametralmente opposto, la Corte ritenne (a seguito di meditata ed assai approfondita motivazione) che la posizione di debito della società non poteva dirsi giuridicamente inesistente, essendo sorta da negozi non simulati ma aventi effettiva causa giuridica, lecita anche nell'ottica di un risparmio di imposta.

Pertanto - secondo la Corte d'Appello - l'iniziale utilizzo della provvista su cui fondava il credito del R. (pagamento di L. 1 miliardo) non poteva considerarsi frutto di manovra fraudolenta e non era ravvisabile, al riguardo, violazione della legge penal/fallimentare in capo a R.P.. Escluse, anche il reato di bancarotta preferenziale, ipotesi insuscettibile, comunque, di persecuzione perchè prescritto (non sfugga che il Tribunale fallimentare ammise, in un primo momento, al concordato preventivo la società, con ciò ritenendola destinataria di un giudizio di "meritevolezza").

Per questa ragione la Corte territoriale assolse il R. da quasi tutte le accuse (ed anche escludendo il possibile addebito di false comunicazioni sociali). Scartò (per insormontabili ostacoli di merito) la condotta di ricettazione fallimentare, nella ipotesi di presentazione al passivo di credito fraudolentemente simulato:

d'altra parte il Collegio osserva che il reato di cui alla L. Fall., art. 232, comma 1, se attuato da un soggetto "proprio" del delitto di bancarotta, concreta la fattispecie di quest'ultimo più grave reato, traducendosi in una esposizione di passività priva di causa e di giustificazione, sanzionata dalla L. Fall., art. 216, comma 1, n. 1 (223 comma 1) L. Fall., condotta esclusa - come dianzi detto - dalla Corte di merito.

Ma, al contempo, la Corte d'Appello censurò la spesa di L. 2.600.000.000 che R. impose alla società, per l'acquisto (in data 20.6.1991) delle quote di una S.r.l. (ALFA CINQUE), proprietaria di un natante di lusso, quote che egli acquistò in proprio, imputando il prezzo da versare alla società S.p.a., OFFICINE ROMANAZZI sulla provvista del suo maggior credito verso la stessa (L. 69,1 miliardi). I giudici dell'appello osservarono che l'acquisto della "nave" non realizzava l'oggetto sociale di OFFICINE ROMANAZZI S.p.a. e che quell'uscita di ricchezza doveva qualificarsi fraudolenta in quanto dissipativa.

Il ricorrente assume che questa conclusione è illogica, poichè - se reale è la provvista, a favore del R., su cui insisteva la compensazione del debito societario - non è possibile ravvisare nel suo utilizzo alcuna frode ai creditori, così come la Corte territoriale non la rinvenne nell'altra (non indifferente) uscita di ricchezza dalla società costituita dall'erogazione all'imputato della somma liquida di un miliardo di lire acquisita (all'atto della vendita del pacchetto azionario a S.r.l. SEGI) presso le casse sociali e spesata allo stesso modo. Oppure (terzo motivo), se la condotta assume rilievo antidoveroso, essa dovrebbe inquadrarsi - nell'ottica della realità del credito - in ipotesi di bancarotta preferenziale: il reale ed effettivo creditore chirografario, R.P., estinse in parte il proprio credito in guisa da non consentire il ristoro delle potiori pretese.

3) L'operazione che è dedotta nell'attuale vicenda e che è riportata dettagliatamente dalla decisione impugnata (cosicchè è possibile scandagliarne anche in questa sede le articolazioni cronologiche e negoziali), per quanto articolata in passaggi complessi e, per quanto possa lasciare il convincimento di artificiosità, non è assolutamente censurabile in termini di simulazione. Al più potrebbe ritenersi strutturata come negozio indiretto in frode alla legge fiscale, raggiungendo il risultato di sottrarre alla tassazione la plus/valenza derivante dalla cessione di bene immobile avente valore fiscale pari al prezzo di costo. Condotta che esula dalla contestazione e che non assume (trattandosi di elusione) interesse a fine penale. Del resto questa prassi è stata diffusamente praticata all'epoca dei fatti, in vista della introduzione di norme anti-elusive (la cui violazione, peraltro, in linea di principio, non comporta conseguenze di ordine penale). Tanto è stato correttamente affermato e diffusamente motivato dalla Corte d'Appello di Roma.

Per maggiore chiarezza e per fugare possibili profili di rilievo penale anche diversi da quelli connessi alla fattispecie qui contestata, ma con riguardo anche alla c.d. "bancarotta societaria" ( L. Fall. art. 223, comma 2), è utile rammentare che il negozio qui esaminato si apparenta, pur non coincidendo, al genus del "leveraged by out" quell'operazione - cioè - che contempla la creazione di un "veicolo" strumentale (c.d. "newco", nel caso in esame SEGI), destinato ad acquistare, indebitandosi, il pacchetto azionario della società "target", cioè, della società operativa (OFFICINE ROMANAZZI Spa), in vista della successiva fusione per incorporazione (anche se, a ben vedere, il negozio non trovò modalità attuative tipiche, poichè nella fattispecie storica non realizzò una cessione, da parte del soggetto societario, di azioni per una garanzia a favore della stessa società). Il debito - nel logico prosieguo (qui interrotto dalla imprevedibile rinuncia del Ministero delle Poste) - sarebbe stato onorato mediante l'assegnazione, da parte della società risultante incorporante, della ricchezza generata dagli utili dell'affare. Negozio che, in passato, era stato censurato come illecito, per contrarietà al principio fissato dagli artt. 2358 e 2630 c.c., dalla Cassazione penale (Cass., sez. 5^, 15.11.1999, D'Andria, Foro it., 2000, 2, 402), in contrasto sia con la dottrina sia con la giurisprudenza di merito (cfr. ad es. ex pluribus, T. Civile Milano, 13.5.1999, Bruni c. Soc. Trenno, Giur.

it., 1999, 2105) e che, attualmente, a seguito della riforma del diritto penale societario, non ha più possibilità di qualificarsi come di interesse penale, attesa l'abolitio della norma incriminatrice, art. 2630 c.c., comma 1, n. 2 (norma sanzionatoria dell'art. 2358 c.c.), e l'introduzione (sollecitata dalla attuazione della terza e sesta Direttiva CE, attuate inizialmente dal D.Lgs. n. 22 del 1991) dell'art. 2501 bis c.c., oggi vigente, che ne ammette l'introduzione nel nostro ordinamento.

Condotta, al contempo, che potrebbe serbare rilievo penale, nel contesto della residuale fattispecie di bancarotta societaria, L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2 (quale "operazione dolosa"), ma alla sola condizione che il leveraged by out, attuato attraverso il procedimento di fusione, non sia, al momento del suo avvio, sorretto da un effettivo progetto industriale e risulti, pertanto, proiettato verso un'attività incapace di generare effettiva ed adeguata ricchezza, sicchè i rischi ad esso indubitabilmente sottesi, non siano giustificabili con la doverosa tutela del patrimonio societario, garanzia dei creditori. Situazione non ricorrente, comunque, nel caso in esame, ove la manovra societaria era proiettata ad un esito profittevole e ragionevole (tanto che la società mantenne, per quanto risulta agli atti, l'impegno assunto con il Ministero).

Ma anche per altro verso è possibile escludere, oltre ogni dubbio, la prospettazione di una connotazione di fraudolenza. Infatti, non è ipotizzabile - nei termini riportati dalla decisione della Corte territoriale - nè esposizione di passività inesistenti nè restituzione di conferimenti. Il R. effettivamente perse la titolarità del pacchetto azionario (e, dunque, i diritti sul complesso immobiliare ristrutturato), SEGI acquistò effettivamente la stessa e potè negoziare con ICCRI le condizioni del prestito e concedere l'immobile per la sottoposizione ad ipoteca e proseguire nella trattativa contrattuale con Ministero delle Poste); il pacchetto azionario, non soltanto passò nell'economia della SEGI S.r.l., ma si allontanò dal controllo in ogni senso, una volta che esso fu dato in pegno alla finanziatrice ICCRI. E non si trascuri che - all'esito della vicenda - tutta la ricchezza scaturita dalla complessiva manovra (l'immobile ristrutturato) pervenne all'asse attivo della procedura concorsuale.

4) Se, dunque, l'obbligazione restitutoria di OFFICINE ROMANAZZI/SEGI a favore del R. era reale, questi poteva considerarsi a tutti gli effetti creditore della società.

Per questa ragione, incomprensibile e completamente priva di adeguata motivazione, appare la considerazione dei giudici di appello per cui, per la vicenda afferente al passaggio delle quote di ALFA 5 S.r.l., a OFFICINE ROMANAZZI e da questa a R.P., possa affermarsi una condotta di distrazione/dissipazione in quanto ancorata ad una pretesa dell'imputato non giuridicamente esistente. Motivazione contraddittoria ed illogica con quanto prima osservato perchè - si ribadisce - se il debito di OFFICINE ROMANAZZI, prima e dopo la trasformazione, era reale ed esistente, il credito dell'imputato risulta, parimenti, effettivo e giuridicamente tutelabile. Nè diversa luce argomentativa porta il giudizio di maggior gravità, in termini di fraudolenza, con l'accenno all'"esborso di cassa" o alla carenza di "contabile compensazione". Non soltanto anche per il pagamento dell'iniziale somma (L. 1 miliardo) vi fu fuoriuscita di effettiva ricchezza a favore di R. e, correttamente, la Corte d'appello considerò detto pagamento esente da censura di fraudolenta distrazione, proprio perchè assunto a fronte di una provvista contabile ritenuta (giustamente) effettiva ed esistente.

Nè, infine, giova alla conclusione raggiunta dai giudici il richiamo alla connotazione asseritamente voluttuaria della spesa e, dunque, estranea all'oggetto sociale. Il denaro uscì per acquisto di partecipazione di quote sociali, oggetto contemplato dallo statuto sociale.

Se le osservazioni che precedono escludono la ricorrenza della fattispecie di cui alla L. Fall., art. 216, comma 1, n. 1 ( L. Fall., art. 223, comma 1), esse, tuttavia, non esauriscono, in termini di inquadramento giuridico, l'esame della condotta del ricorrente.

Infatti, il ricorso, anche se sul punto la decisione impugnata tace, coinvolge il delicato profilo della qualificazione della responsabilità dell'amministratore che si ripaghi di un credito, maturato verso la società fallita, con denari o beni appartenenti al patrimonio sociale.

La SC. ha espresso al riguardo due ordini di opinioni: con un primo indirizzo, più risalente nel tempo, ha ritenuto ricorrere la fattispecie della bancarotta preferenziale (Cass., Sez. 5^, 28.10.1971, Giust. pen., 1972; Cass., Sez. 5^, 7.6.1973, Delindati, Ced. Cass. 125217, ecc.) Mentre, in epoca successiva è prevalsa la tesi della configurabilità della bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione (fra le molte, Cass. Sez. 5^, 5.5.1983, Bonacci;

Cass., Sez. 5^, 3.1.1987, Ritondale, Cass. pen., 1988 1538; Cass. Sez. 5^, 14.10.1999, Patrucco Ced Cass. 215186; Cass., Sez. 5^, 30.12.2002, CM, Dir. e pratica società, 2003, fass. 6, 81, ecc.).

Questa seconda traccia di lettura perviene alla conclusione sottolineando, accanto all'illecito ristoro del credito, la lesione dei doveri di protezione del patrimonio sociale, connessi alla carica gestoria, e, quindi, dei doveri di fedeltà all'organismo amministrato. Dal che la configurazione di responsabilità per la più grave ipotesi di fraudolenza patrimoniale.

Il Collegio ritiene (in armonia con la dottrina assolutamente prevalente) configurabile la violazione della L. Fall. art. 216, comma 3, ( L. Fall. art. 223, comma 1).

Infatti, la fattispecie della bancarotta preferenziale si caratterizza, distinguendosi nettamente da quella descritta alla L. Fall., art. 216, comma 1, n. 1, per la diversità dell'interesse giuridico protetto. In essa non è offeso il diritto dei creditori alla conservazione del patrimonio del debitore in funzione della garanzia loro concessa dall'ordinamento, lesione che discende dalla diminuzione del patrimonio (complessivamente considerato) assoggettato al soddisfacimento delle istanze creditorie, come potrebbe avvenire per la perdita di ricchezza non giustificata da ragioni giuridicamente apprezzabili o da spese, perdite od oneri i gestione. La L. Fall., art. 216, comma 3, punisce l'imprenditore che dispone, in funzione solutoria, dei beni in maniera che non è conforme alla posizione paritaria disposta dal legislatore (c.d. par condicio). All'esito dell'illecito ristoro la consistenza patrimoniale complessiva non è alterata: alla carenza della dotazione di ricchezza liquida, corrispondente al pagamento preferenziale, si riscontra la scomparsa di pari passività corrispondente. Sulla scorta di questa netta distinzione obiettiva, è possibile affermare che qualora sussista una ragione giuridica effettiva e reale che sorregge la pretesa del creditore, il relativo soddisfacimento (a beneficio dello stesso soggetto attivo del reato ovvero di terzi) non può mai collocarsi tra le condotte di fraudolenza patrimoniale, sanzionate dal primo comma della norma.

Situazione che prescinde dalla posizione dell'autore del fatto nella sua relazione con l'organismo amministrato, profilo che non attiene all'oggetti vita della fattispecie, la quale non è influenzata dai collegamenti estranei alla definizione dell'interesse tutelato, i quali - piuttosto - sono riconducibili piuttosto ad autonome fattispecie penali, come l'infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 c.c., (la cui condotta è richiamata in seno all'art. 223 c.c., comma 2, n. 1, circostanza che qui non assume interesse, non essendo vigente all'epoca del fatto; nè oggi potendosi invocare quella di cui all'art. 2361 c.c., in tema di conflitto di interessi, abrogata dal D.Lgs. n. 61 del 2002).

Piuttosto, la maggior gravità della destinazione della ricchezza societaria a se medesimo potrà esser censurata in sede di commisurazione della sanzione, ma non con un debordamento dal perimetro oggettivo della disposizione incriminatrice.

Il delitto di bancarotta preferenziale non è perseguibile perchè estinto per prescrizione (data di estinzione: 25.9.2001). Non sembra possibile addivenire alla richiesta difensiva di una piena assoluzione. Non si riscontra, invero, evidente prova di innocenza.

Non sfugge, infatti, che al momento della condotta di preferenzialità doveva riguardarsi alla notevole rischiosità dell'accordo assunto, ancora per via informale, con il Ministero delle Poste. Intesa non suggellata da alcuna garanzia da parte del divisato acquirente. Una situazione assai incerta che doveva lasciar presagire - ancorchè non immediatamente concreta - l'eventualità di una illiquidità, ove l'affare non fosse giunto alla sua conclusione.

In questa prospettiva non è evidente la prova di innocenza del R. dal delitto di bancarotta preferenziale, sotto il riguardo soggettivo del suo comportamento che ha temerariamente e consapevolmente anticipato, a suo favore, gli esiti finali dell'operazione, ancorata ad un consenso non ancora formalizzato, in assenza di idonea assicurazione che tutelasse gli interessi societari.

Pertanto la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione.

P.Q.M.

P.Q.M.

Qualificato il fatto come violazione della L. Fall., art. 216, comma 3, annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essersi il reato per prescrizione.

Così deciso in Roma, il 18 maggio 2006.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2006