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 Modulo D – La follia dal punto di vista etnopsichiatrico: alcuni esempi

In realtà, la «situazione psichiatrica reale» delle società primitive è difficilmente valutabile, perché le nostre categorie psichiatriche si applicano male, o sono del tutto inadeguate, a collettività con strutture differenti dalle nostre e conseguentemente con punti deboli diversi. Inoltre, certi comportamenti perfettamente ammessi in una determinata area culturale, altrove possono sembrare patologici e viceversa. Già vent’anni fa Erna Hoch ha descritto l’imbarazzo della psichiatria classica in India davanti a determinati comportamenti tipicamente schizofrenici, secondo criteri occidentali, comportamenti che giungevano fino al rifiuto ad alimentarsi ma che, nel loro contesto culturale, non stupivano nessuno. Del tutto simili e a comportamenti religiosi improntati ad una grande saggezza, erano considerati come naturali.

Per illustrare questo concetto, lo scrittore Albert Béguin invitava i lettori ad immaginare un uomo, vestito solo da un perizoma, magro da far paura, con il viso dipinto di rosso e di blu, che, grattandosi i pidocchi, s’accoccoli all’angolo d’un municipio parigino e rimanga là per ore o addirittura per dei giorni, a rosicchiare grani di miglio, talvolta canterellando, più spesso immobile e muto. Se almeno mendicasse, il suo comportamento potrebbe parere logico, ma non tende neppure la mano… Scommettiamo che varcherà presto la porta di un ospedale psichiatrico… «Quest’uomo», continuava Albert Béguin, «l’ho osservato mille volte in India: i devoti s’accoccolavano attorno a lui, lo contemplavano lungamente, nella speranza di ricevere qualche emanazione della sua saggezza. Si è folli in relazione ad una determinata società».
Conviene, inoltre, non dimenticare mai che molti popoli non si accontentano delle nostre due categorie, «normale» e «patologico», ma ne aggiungono una terza, quella di «soprannaturale». Alcune forme di delirio possono così venire considerate come fenomeni d’ispirazione soprannaturale, o di invasamenti di spiriti buoni o malvagi.
D’altronde, in generale nei paesi in cui regnano ancora concezioni animiste, le turbe mentali del soggetto vengono spesso attribuite ad uno spirito esterno a lui, che di lui si è impossessato; il soggetto non è mai giudicato incurabile e il gruppo se ne sente responsabile: la solidarietà della comunità contribuirà a ristabilire l’equilibrio fra il mondo visibile ed il mondo invisibile, fra il mondo naturale e il mondo soprannaturale.
«Qualunque società ha bisogno di follia», scrive il romanziere marocchino Tahar Ben Jelloun. «Nelle società industriali evolute non c’è posto per il pazzo. Come emarginato della cultura e dell’ordine economico viene recluso: lo si separa dalla vita. La persistenza del manicomio prova quale potere d’inquietudine estenda ancora la follia su qualunque certezza».
E Tahar Ben Jelloun ricorda che in Africa, fino a non molto tempo fa, si poteva parlare di culture in cui la follia era espressione di una grande saggezza. Il folle era, in certo modo, l’eletto di Dio e della Verità, nelle società arabe e africane. La distinzione fra normale e patologico dipendeva da un universo culturale estraneo a queste società. Il folle era integrato nella collettività: tutto il villaggio ne era responsabile. Le «turbe» erano considerate l’espressione d’una riflessione tanto approfondita da potersi confondere con una crisi mistica.
Per «guarire» il soggetto, vale a dire, per ristabilire un equilibrio naturale e sociale minacciato, il guaritore cerca, mediante numerosi riti cui tutta la comunità prende parte, lo spirito responsabile del male per calmarlo, rispettandone i gusti. La descrizione di queste forme di socioterapia vien fatta da due etnopsichiatri, Karl Schmidt e Jean Godin, prendendo ad esempio le cerimonie spettacolari del n’doep presso le popolazioni Lebou, nel Senegal: viene organizzata una grande festa sulla spiaggia, di cui il paziente è il protagonista. Le danze durano parecchi giorni ed un bue viene sacrificato; lo scopo dei numerosi rituali è quello di far uscire lo spirito intruso dal corpo del malato per trasferirlo in luoghi appropriati. La festa termina con il graduale estenuarsi dei partecipanti, che emergono lentamente da un reale stato di trance.
Commentando l’efficacia del n’doep, Karl Schmidt e Jean Godin osservano che i successi terapeutici cosi ottenuti dagli indigeni sono notevoli quando si tratta di stati «psicogeni»; e il trattamento è tanto più efficace quanto più il malato è legato alla propria fede ancestrale. Secondo gli autori non stupisce che queste cerimonie rituali, a causa delle emozioni che canalizzano, della tolleranza che manifestano, del calore umano che sprigionano, delle regressioni psichiche e delle riorganizzazioni della personalità che presuppongono, abbiano come conseguenza la reinserzione del soggetto nel proprio gruppo, nella propria tribù, nella propria società e, più generalmente, nel proprio «mondo ».
In numerose società primitive, un personaggio sacro, lo sciamano, ha come funzione sia di estirpare e di espellere il male, sia di catturare l’anima in fuga dal malato al fine di restituirgliela.
Il ruolo dello sciamano è stato spesso paragonato a quello d’uno psicanalista selvaggio che faccia leva su dei miti sociali. Gli etnologi sono concordi nel riconoscere l’anormalità controllata dello sciamano: la sua pazzia esiste in nome e per conto di altri, che proiettano su di lui i loro turbamenti, conservando una parvenza d’equilibrio psicologico.

Secondo Claude Lévi-Strauss, lo sciamano rivive, nel corso di ogni seduta rituale, la sua prima esperienza traumatica; quanto ai trattamenti sciamanici, costituirebbero l’equivalente del trattamento psicanalitico, ma con l’inversione di tutti gli elementi. Lo psicanalista come lo sciamano tendono a provocare un’esperienza spirituale e l’uno e l’altro raggiungono lo scopo rinvigorendo, ritualizzando un mito che il paziente deve vivere o rivivere. Ma, mentre per la psicanalisi il paziente costruisce un mito individuale con elementi riesumati dal suo passato, nella seduta sciamanica, al contrario, il paziente riceve dall’esterno un mito sociale che non corrisponde ad una situazione personale anteriore.

R. Jaccard, La follia, Zanichelli, Bologna 1980