Forum B – Unità B3
L’IMPRENDITORE E LA CONCORRENZA
► Riepiloghi
Costituiscono concorrenza sleale, dispone l’art. 2598 c.c.:
- gli atti idonei a creare confusione con i prodotti o con l’attività dei concorrenti;
- gli atti denigratori di prodotti altrui o diretti ad appropriarsi di pregi che appartengono ai prodotti o all’impresa altrui;
- ogni altro atto contrario alla correttezza professionale.
La sentenza che accerta atti di concorrenza sleale, stabilisce l'art. 2599 c.c., ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti.
Se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa aggiunge il primo comma dell’art. 2600 c.c.:, l’autore è tenuto al risarcimento dei danni.
Le norme sulla pubblicità sono oggi in gran parte contenute nel Codice del consumo, emanato con d.lg. n. 206 del 2005.
La pubblicità deve essere, stabilisce l’art. 19 del Codice: veritiera, palese e corretta
È vietata ogni forma di pubblicità ingannevole.
È ingannevole, chiarisce l’art. 20 del medesimo Codice, la pubblicità che per i suoi caratteri sia idonea a indurre in errore i soggetti ai quali è rivolta.
Inoltre è considerata ingannevole:
- la pubblicità di prodotti pericolosi per la salute e la sicurezza quando si ometta di darne notizia e ciò possa indurre i consumatori a trascurare le normali regole di prudenza e vigilanza;
- la pubblicità capace di minacciare la sicurezza di bambini e adolescenti o che abusi della loro naturale mancanza di esperienza.
La comparazione tra beni o servizi offerti da imprese diverse è certamente di grande utilità per il consumatore; ma lo è anche per gli imprenditori poiché costituisce uno stimolo a conseguire migliori risultati, sia in termini di qualità che di prezzo.
L’art. 22 del Codice del consumo indica in modo piuttosto dettagliato quali caratteri rendono lecita la pubblicità comparativa.
Riassuntivamente possiamo dire che, secondo quanto dispone la norma, questo tipo di pubblicità:
- deve porre a confronto caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative di beni e servizi concorrenti;
- non deve generare confusione tra i segni distintivi dei concorrenti, né causare discredito o contenere espressioni denigratorie;
- non deve essere operata per trarre indebitamente vantaggio dalla notorietà altrui.
La legislazione antitrust attualmente in vigore è contenuta nella l. n. 287 del 1990 che è in sostanziale armonia con quanto disposto negli artt. 101-106 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.
La normativa nazionale e comunitaria può essere così riassunta:
- Sono vietate le intese (salvo speciali autorizzazioni) con le quali più imprenditori si accordano per impedire la concorrenza sui prezzi uniformandoli e impegnandosi a non operare sconti; limitare l’offerta complessiva in modo da tenere alti i prezzi; spartirsi i mercati in modo da non entrare in concorrenza sul medesimo territorio; ostacolare l’ingresso di altri concorrenti.
- Sono vietate le concentrazioni di imprese se sono volte alla costituzione o al rafforzamento di posizioni dominanti idonee a eliminare o a ridurre sostanzialmente e durevolmente la concorrenza.
- È vietato abusare della propria posizione dominante.
► Approfondimenti
Nel 2010 è entrato in vigore l’art. 140 bis del Codice del consumo, che ha introdotto anche nell’ordinamento italiano la cosiddetta class action.
La class action è l’azione con la quale un gruppo di consumatori o utenti danneggiati dal medesimo fatto realizzato da un’impresa (e pertanto individuati come appartenenti a una medesima classe) può attivare un unico processo per accertare le responsabilità e ottenere il risarcimento del danno subito.
Ciascun componente della classe può agire anche mediante associazioni a cui dà mandato o comitati a cui partecipa.
Chi partecipa all’azione collettiva deve rinunciare a ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo.
Il tribunale al quale la domanda di risarcimento è rivolta deve preliminarmente valutarne l’ammissibilità.
La domanda è dichiarata non ammissibile quando:
- è manifestamente infondata,
- sussiste un conflitto di interessi,
- il giudice non ravvisa l’identità dei diritti individuali tutelabili,
- il proponente non appare in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe.
L’ordinanza che decide sulla ammissibilità o non ammissibilità della domanda è reclamabile in Corte d’Appello.
Se il giudice decide per l’ammissibilità dispone anche che sia data la più ampia pubblicità all’azione per consentire la tempestiva adesione degli appartenenti alla classe.
Se la domanda degli attori è giudicata ammissibile e le istanze da essi avanzate sono accolte, il tribunale, al termine del processo, pronuncia sentenza di condanna con cui liquida le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azione o stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme.
Se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, viene liquidato da giudice con valutazione equitativa (art. 1226 c.c.).
E’ in ogni caso fatta salva la possibilità, per chi non abbia aderito all’azione collettiva, di intraprendere azioni individuali.
Le disposizioni contenute nell’art. 140 bis non hanno valore retroattivo. Pertanto la class action è esperibile solo per gli illeciti compiuti dopo l’entrata in vigore della legge.