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 Forum D – Unità D2

La proprietà

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Quali limiti ha incontrato la proprietà nel tempo?
Il principio che il diritto di proprietà possa e debba essere limitato quando contrasti con gli interessi della collettività è il punto di arrivo di un lungo e altalenante processo storico che qui possiamo illustrare solo per grandi linee.

Nel diritto romano il proprietario aveva, in linea teorica, un potere pressoché illimitato sulle cose, ma tale regola non era priva di eccezioni. Per esempio, già in epoca repubblicana era vietato edificare in aree urbane senza lasciare intorno alla costruzione uno spazio adibito a uso pubblico. Ed era anche stato fissato un tetto massimo ai canoni di locazione delle abitazioni nella suburra per limitare la speculazione edilizia. In epoca imperiale le limitazioni alla proprietà divennero sempre più numerose, e tuttavia seguitarono a essere considerate, dai giuristi, come eccezioni alla regola generale.

In età feudale, per il sovrapporsi del diritto germanico a quello romano e per le complesse vicende di quel periodo storico, la proprietà fondiaria (che era allora la maggior fonte di ricchezza) si trovò gravata dai diritti che vi esercitava l’intera gerarchia feudale. Su uno stesso fondo si sommavano i poteri del proprietario, che ne aveva il dominio utile (cioè la facoltà di coltivarlo e di abitarvi); quelli del signore feudale, che aveva il dominio diretto di tutte le terre comprese nel suo feudo (e ciò gli consentiva, tra l’altro, di imporre oneri e tributi); e quelli dell’imperatore che aveva il dominio eminente su tutte le terre comprese nel suo impero.

In età moderna questa ingarbugliata situazione sopravviveva ancora, seppure con le modifiche introdotte dal mutare dei tempi. Ma contro il permanere dei vincoli feudali sulla proprietà montava la crescente insofferenza della borghesia mercantile, divenuta ormai ricca e potente. Una insofferenza destinata a esplodere, alla fine del XVIII secolo, nella più famosa rivoluzione che la storia ricordi.

La rivoluzione francese spazzò via gli ultimi residui del potere feudale e la borghesia poté porre la proprietà, libera da ogni vincolo, tra i diritti naturali dell’uomo. Tra quei diritti, cioè, che appartengono all’uomo per legge di natura e che lo Stato non deve mai limitare. Il Codice napoleonico del 1804 (a cui si ispirò anche il primo codice civile italiano del 1865) poté così definire la proprietà come «il diritto di godere e di disporre delle cose nella maniera più assoluta». Qualche limitazione, che pure fu introdotta anche negli ordinamenti liberali ottocenteschi, tornò a essere intesa come eccezione alla regola.

Nel primo Novecento, parallelamente alla crisi del pensiero liberale, cominciò ad affermarsi, nella cultura giuridica europea, il principio che la proprietà dovesse essere regolata in modo da armonizzare gli interessi del proprietario con quelli della società.
In Italia, quando si pose mano alla redazione dell’attuale codice civile, fu proposto di definire la proprietà come il potere di godere e disporre delle cose (…) in conformità della funzione sociale. Ma in sede di stesura finale si preferì eliminare questo esplicito richiamo e rimanere aderenti alla formulazione napoleonica. Nei fatti, però, il legislatore introdusse nel codice numerose norme la cui funzione era esattamente quella di subordinare l’interesse individuale a quello generale.

Solo con la Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, la disciplina della proprietà venne esplicitamente collegata alla funzione sociale e l’istituto proprietario venne rimosso dal piedistallo dei diritti naturali e collocato, più ragionevolmente, nel titolo III, dedicato ai rapporti economici.

Quali limiti sono posti alla proprietà in altezza e profondità?
L’art. 840, comma 2, c.c. così dispone:
“Il proprietario del suolo non può opporsi ad attività di terzi che si svolgano a tale profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante, che egli non abbia interesse ad escluderle.”

Ciò vuol dire che la legge assicura al proprietario del suolo la più ampia possibilità di sfruttamento in altezza e profondità. Egli può scavare pozzi artesiani e, con le prescritte autorizzazioni, elevare grattacieli. Ma dove la concreta possibilità di sfruttamento cessa, termina anche il suo diritto.

Iin quali casi si ha diritto di entrare nel fondo altrui?
Il potere di godere del bene in modo pieno ed esclusivo, attribuito dall’art. 832 c.c. al proprietario, comporta anche la facoltà di recingere il proprio fondo impedendo a chiunque di entrarvi.

Tuttavia, una rigida applicazione di questa facoltà (ribadita dall’art. 841 c.c.) non è parsa opportuna al legislatore che vi ha posto alcuni limiti. In particolare:
– per quanto dispone l’art. 842 c.c., il proprietario non può impedire il passaggio per l’esercizio della caccia a chi sia munito di regolare licenza, salvo che nel fondo vi siano colture suscettibili di danno oppure questo sia stato chiuso nei modi previsti dalla legge sull’attività venatoria (cioè con una rete alta almeno m 1,20 o con altra chiusura che non consenta il passaggio della selvaggina). Il proprietario, però, può impedire a chiunque l’esercizio della caccia se il suo fondo non è compreso nel piano faunistico-venatorio regionale (artt. 12 e 15, l. n. 157 dell’11 febbraio 1992);
– per quanto dispone l’art. 843 c.c. il proprietario deve permettere l’accesso e il passaggio nel suo fondo, sempre che ne venga riconosciuta la necessità, al vicino che abbia bisogno di costruire o riparare un muro o altra opera. Se l’accesso causa danno, il proprietario ha diritto a una adeguata indennità. Egli deve, inoltre, consentire l’accesso a chi debba recuperare una cosa mobile o un animale sfuggito alla custodia, salvo che non voglia personalmente consegnare la cosa o l’animale.

Che cosa sono gli atti di emulazione?
Il termine emulazione viene utilizzato, dal codice, con il significato di dispetto. Immaginiamo che un agricoltore recinga il proprio campo con una rete metallica e solo in prossimità della nostra villa sostituisca alla rete un muro di cemento togliendoci ogni visuale. È lecito un tale comportamento? Più in generale: è lecito utilizzare la cosa propria in modo apparentemente normale (è normale che si voglia recingere il proprio fondo) ma in realtà con l’intento di recare molestia al vicino (per esempio privandolo di ogni visuale)?

L’art. 833 c.c., rubricato Atti di emulazione stabilisce
Il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o di recare molestia ad altri.

Si tratta di un generale limite alla proprietà che era conosciuto già nel diritto romano ma che nel nostro ordinamento, per il modo in cui la norma è formulata, trova scarsa applicazione.

L’articolo in esame, infatti, stabilisce che l’atto, per essere emulativo, non deve avere altro scopo che quello di recare molestia. Ma, come l’esperienza giudiziaria dimostra, il proprietario quasi sempre riesce a provare di ricavare qualche vantaggio dalla propria azione.

L’atto emulativo, ha chiarito la Cassazione con sentenza n. 10250 del 1997,  non può consistere in una condotta omissiva, sia perché l’art. 833 letteralmente, parla di «atti»; sia perché non è configurabile un atto emulativo se manca qualsiasi vantaggio per il suo autore, e invece, il non fare, determina sempre un vantaggio in termini di risparmio di spesa e/o di energia psico-fisica (nel caso specifico il ricorrente chiedeva che fosse considerato atto emulativo la mancata potatura di alberi da parte del vicino che aveva come effetto di inibire al ricorrente ogni veduta ).

Come è regolata la comunione?
La comunione si verifica quando più soggetti sono titolari di un medesimo diritto reale sulla medesima cosa.

   Il regime di comunione su un bene può determinarsi:

  • perché le parti lo hanno voluto (comunione volontaria), come nel caso di due amici che acquistano insieme una casa per le vacanze;
  • in seguito a fatti giuridici involontari (comunione incidentale): pensiamo a due sorelle che abbiano ereditato uno stesso bene;
  • per imposizione di legge (comunione forzosa): pensiamo a colui che compera un appartamento in un condominio e, per forza di legge, diventa comproprietario delle parti comuni, come le scale, l’ascensore, il solaio.

 

Le norme sulla comunione sono contenute negli artt. 1100-1139 del codice civile e le più rilevanti possono essere sintetizzate come segue.

  • Le quote dei partecipanti alla comunione si presumono uguali,
    Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di usarla secondo il loro diritto.
  • Ciascuno può disporre del proprio diritto, può cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota.
  • L’amministrazione della cosa comune spetta congiuntamente a tutti i partecipanti.
  • Lo scioglimento della comunione, può essere chiesto da ogni partecipante e in qualsiasi momento anche contro la volontà degli altri partecipanti.
  • Si possono porre limiti alla reciproca facoltà di scioglimento ma il patto di rimanere in comunione non può comunque eccedere i dieci anni.