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I rapporti familiari
► Riepiloghi
- sia il nucleo ristretto, composto dai coniugi e dai figli con essi conviventi (indicato anche come famiglia mononucleare);
- sia l’insieme delle persone unite da rapporti di parentela e di affinità.
È chiamata:
- famiglia legittima, quella costituita da persone unite dal vincolo del matrimonio;
- famiglia di fatto, quella costituita da persone non unite dal vincolo del matrimonio.
Nonostante la famiglia di fatto stia assumendo, nella nostra società, una crescente importanza, i rapporti tra persone conviventi non sono ancora completamente regolati dalla legge.
Attualmente hanno pieno riconoscimento giuridico solo i rapporti tra genitori e figli naturali.
La Costituzione (art. 30, comma 1) così dispone in proposito:
“È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.”
Parentela in linea retta si ha quando più persone discendono l’una dall’altra
Parentela in linea collaterale si ha quando le persone hanno uno stipite comune ma non discendono le une dalle altre.
I gradi di parentela si calcolano sul numero delle generazioni.
Per i parenti in linea retta si contano tanti gradi quante sono le generazioni escludendo lo stipite.
Per i collaterali si contano le generazioni salendo fino allo stipite (che viene escluso dal calcolo) e ridiscendendo fino al parente che si vuole considerare.
Per gli affini le linee e i gradi si calcolano come per la parentela. Per esempio, una persona è affine in linea retta di primo grado con i propri suoceri, mentre è affine in linea collaterale di secondo grado con i cognati.
Gli alimenti si evince dall’art. 433 c.c. devono essere erogati: innanzi tutto dal coniuge; in mancanza di questi andranno chiesti:
- ai figli e, in loro mancanza, ai discendenti prossimi, cioè ai nipoti;
- ai genitori e, in loro mancanza, ai nonni;
- ai generi e alle nuore;
- ai suoceri;
- ai fratelli e alle sorelle.
Stabilisce il secondo comma dell’art. 438 c.c., che gli alimenti non devono superare quanto è necessario per la vita del richiedente avuto riguardo alla sua posizione sociale, e debbono essere rapportati alle condizioni economiche di chi è tenuto a somministrarli.
Quindi riceve da ciascuna delle parti personalmente e una dopo l’altra la dichiarazione che esse vogliono prendersi rispettivamente in marito e in moglie e di seguito le dichiara unite in matrimonio.
La celebrazione del matrimonio deve essere preceduta dalla pubblicazione della notizia, fatta a cura dell’ufficiale dello stato civile.
La pubblicazione è operata inserendo nel sito informatico del Comune (l. 69/2009, art. 32) la notizia di matrimonio contenente le generalità degli sposi e l’indicazione del luogo in cui questo verrà celebrato.
Le pubblicazioni servono per consentire, a chi ritenga vi siano impedimenti, di farli valere prima che il matrimonio venga celebrato. Si previene, in tal modo, il rischio di un successivo annullamento.
- le persone ancora vincolate a un precedente matrimonio civile;
- le persone legate tra loro da vincoli di parentela, affinità o adozione come indicato nell’art. 87 c.c.;
- gli interdetti per infermità di mente;
- chi è stato condannato per omicidio consumato o tentato ai danni del coniuge della persona che vorrebbe sposare;
- i minori di età senza l’autorizzazione del tribunale.
Altre cause di invalidità, previste dagli artt. 120 e 122 c.c. sono:
- l’incapacità di intendere e di volere al momento della celebrazione del matrimonio, dovuta a cause anche transitorie;
- l’errore su determinate qualità personali dell’altro coniuge, tassativamente indicate dalla norma,
- il consenso estorto con violenza.
Sono detti impedienti gli impedimenti non così gravi da determinare la nullità del matrimonio. Essi comportano soltanto l’applicazione di una sanzione a carico degli sposi e dell’ufficiale celebrante.
È impedimento impediente, per esempio, l’inosservanza del cosiddetto lutto vedovile. Dispone, in proposito, l’art. 89 c.c. che la donna non può contrarre nuovo matrimonio se non sono trascorsi dieci mesi dallo scioglimento o dall’annullamento del precedente.
Con la riforma del diritto di famiglia attuata nel 1975, i rapporti tra coniugi sono stati posti su un piano di parità e sono regolati, negli aspetti fondamentali, dagli artt. 143, 144 e 147 c.c. che vengono letti agli sposi durante la celebrazione.
L’art. 143 c.c. dispone:
“Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”
L’art. 144 c.c. dispone:
“I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa. A ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato”
L’art. 147 c.c. aggiunge:
“Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e aspirazioni dei figli.”
Per effetto della comunione, si evince dall’art. 177 c.c., diventano di proprietà comune i beni che i coniugi acquistano insieme o separatamente durante il matrimonio.
Sono esclusi dal regime di comunione i beni indicati dall’art. 179 c.c. tra i quali segnaliamo:
– i beni di cui era proprietario il coniuge prima del matrimonio;
– i beni che il coniuge eredita o riceve in donazione anche in costanza di matrimonio.
La comunione si scioglie per le cause previste dall’art. 191 c.c., tra le quali segnaliamo:
– la volontà dei coniugi di cambiare regime patrimoniale; – la separazione personale, lo scioglimento o l’annullamento del matrimonio.
Il regime di separazione dei beni regolato dagli artt. 215-219 c.c., attribuisce a ciascuno dei coniugi la proprietà dei beni che acquista durante il matrimonio.
La scelta di questo regime può essere fatta al momento della celebrazione del matrimonio o anche successivamente per atto pubblico.
La separazione può essere consensuale o giudiziale.
Si ha separazione consensuale se i coniugi, di comune accordo, decidono di separarsi e concordano le relative condizioni, sia in merito all’affidamento dei figli sia in merito ai rapporti personali e patrimoniali.
Tuttavia, stabilisce l’art. 158 c.c., la separazione consensuale non ha effetto se non è stata omologata da parte del Tribunale.
Alla separazione giudiziale, regolata dagli artt. 151-157 c.c., di solito ricorre quando i coniugi non sono riusciti ad accordarsi per una separazione consensuale.
Può essere chiesta, stabilisce l’art. 151 c.c., quando si verificano fatti tali da rendere la prosecuzione della convivenza intollerabile o dannosa per i figli.
L’uso della casa familiare spetta ai figli e, per conseguenza, al coniuge che con essi convive.
Un assegno di mantenimento può essere disposto dal giudice a favore del coniuge che dimostri di non possedere adeguati redditi propri.
Non ha diritto al mantenimento il coniuge a cui sia stata addebitata la separazione. Tuttavia se questi si trova in stato di bisogno può pretendere un assegno alimentare commisurato a quanto è necessario per vivere.
- per la morte di uno dei coniugi;
- o per effetto del divorzio (introdotto in Italia dalla l. n. 898 del 1° dicembre 1970, poi modificata dalla l. n. 74 del 6 marzo 1987).
Il divorzio produce lo scioglimento del matrimonio civile e determina la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario.
L’istanza di divorzio può essere presentata da uno dei coniugi se:
- vi è stata separazione, giudiziale o consensuale, protratta per il tempo stabilito dalla legge;
- non vi è stata consumazione del matrimonio;
- vi è stata una rettifica (cioè un cambiamento) di sesso;
- all’altro coniuge sono state inflitte condanne penali particolarmente gravi;
- l’altro coniuge, cittadino straniero, ha ottenuto nel suo Paese l’annullamento del matrimonio o il divorzio, oppure ha contratto all’estero nuovo matrimonio.
Nella sentenza di divorzio il giudice stabilisce, tra l’altro, se deve essere corrisposto un assegno periodico al coniuge che dimostri di non avere mezzi adeguati per conservare lo stesso tenore di vita avuto in costanza di matrimonio, e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso.
Se il figlio naturale viene riconosciuto da uno o da entrambi i genitori assumerà, rispetto a questi, l’identica posizione giuridica di un figlio legittimo.
Se non viene riconosciuto (pensiamo ai casi di abbandono di neonato) assumerà il nome e il cognome che gli verranno dati, a propria discrezione, dall’ufficiale dello stato civile.
Il riconoscimento è un atto solenne e irrevocabile con il quale i genitori (o anche uno solo) riconoscono come proprio il figlio naturale. Può essere fatto al momento della compilazione dell’atto di nascita o anche, come consente l’art. 254 c.c., con una dichiarazione posteriore e persino con un testamento.
Effetto del riconoscimento del figlio naturale è l’assunzione, da parte del genitore, di tutti i doveri e i diritti che si hanno nei confronti dei figli legittimi.
Possono adottare i minori di età i coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni e conviventi purché risultino idonei a svolgere il ruolo di genitori. Non è di ostacolo il fatto che abbiano già figli propri.
Possono essere adottati i minori dichiarati dal Tribunale in stato di adottabilità.
L’adottabilità può essere pronunciata quando i minori siano lasciati in situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale dai genitori o dai parenti (perché deceduti, sconosciuti, o semplicemente perché non in grado di provvedere al loro mantenimento) purché la mancata assistenza non sia dovuta a cause di forza maggiore di carattere transitorio.
Il minore dichiarato adottabile viene affidato ai coniugi che ne abbiano fatto richiesta per un periodo di prova detto di affidamento preadottivo, al termine del quale il Tribunale decide, con decreto, sull’adozione definitiva.
Per effetto del decreto di adozione il minore diventa figlio legittimo degli adottanti.
Possono essere posti in affidamento, per esempio, i minori i cui genitori siano in ospedale per una lunga degenza o stiano scontando una pena detentiva.
L’affidamento cessa, con provvedimento della stessa autorità che lo ha disposto, quando sia venuta meno la situazione di difficoltà temporanea della famiglia di origine che lo ha determinato.
► Approfondimenti
Condizioni per adottare un adulto, stabilisce il codice civile (artt. 291 ss.), sono che l’adottante:
- abbia almeno 35 anni di età e almeno 18 anni più dell’adottato;
- non abbia discendenti legittimi, legittimati o figli naturali riconosciuti, salvo che, ha precisato la Corte Costituzionale, i soggetti sopra indicati non siano maggiorenni e consenzienti (Corte Cost. n. 557/1988).
In tempi recenti, tuttavia, la Cassazione ha aperto un ulteriore varco. Pronunciandosi su un caso di un uomo che voleva adottare il figlio maggiorenne avuto dalla moglie prima del matrimonio, la Corte ha ritenuto ammissibile il procedimento anche se nella famiglia erano presenti figli minori di età (Cass. 2006, n. 2426).
Contro questa presunzione è ammessa la prova contraria, ma entro limiti piuttosto ristretti.
L’azione di disconoscimento della paternità, stabilisce infatti l’art. 235 c.c. è consentita solo nei seguenti casi:
- se i coniugi non hanno coabitato per un periodo compreso tra i sei e i dieci mesi prima della nascita;
- se il marito, nello stesso periodo, era affetto da impotenza, anche soltanto di generare;
- se la moglie ha commesso adulterio o ha tenuto celata al marito sia la gravidanza, sia la nascita del figlio.
Tali comportamenti però, si desume dalla norma, non sono sufficienti, da soli, ad escludere la paternità del marito poiché rimane comunque molto alta la probabilità che sia pur sempre lui il padre del bambino. Egli, pertanto, dovrà fornire al giudice altri elementi che, nel caso concreto, siano idonei a escludere il suo ruolo nel concepimento.
Rilevante è, in questo caso, la prova del sangue che, sebbene non idonea a dimostrare la positività della paternità, può essere sufficiente ad escluderla.
L’azione di disconoscimento può essere promossa tanto dal presunto padre, quanto dalla madre o dal figlio che rifiuti il presunto padre.
La sola dichiarazione della madre non è sufficiente ad escludere la paternità, sia perché neppure lei, talvolta, può sapere con precisione chi è il padre, sia perché la dichiarazione della donna potrebbe essere ispirata a fini diversi dall’accertamento della verità.
I tempi per la proposizione dell’azione giudiziale sono piuttosto brevi perché è interesse generale restringere al massimo le situazioni d’incertezza. L’istanza di disconoscimento della paternità dispone l’art. 244 c.c , può essere proposta:
- dalla madre, entro sei mesi dalla nascita del figlio;
- dal padre, entro un anno dalla nascita o dalla notizia della nascita;
- dal figlio entro un anno dal compimento della maggiore età o dal momento in cui viene a conoscenza di fatti che rendono ammissibile il disconoscimento.
Opposta all’azione di disconoscimento è l’azione di reclamo di legittimità. Questa, come prevede l’art. 249 c.c., può essere proposta contro entrambi i genitori da chi voglia dimostrare di essere loro figlio legittimo.