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  Corte di cassazione: protezione internazionale per le vittime di matrimonio forzato

Recentemente la Corte di cassazione si è dedicata al tema della protezione internazionale dello straniero in caso di matrimonio forzato. Per comprendere meglio la vicenda chiariamo intanto cosa dice la disciplina italiana sul punto.

L’articolo 10 della nostra Costituzione garantisce il diritto di asilo nel nostro Stato allo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche.
La disciplina sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, è contenuta nel d.lgs. n. 251 del 2007.

La protezione internazionale include lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria.

  • Può ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato il cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese.
  • Può presentare richiesta per il riconoscimento della protezione sussidiaria, il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese d’origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno e il quale non può o, a causa di tale rischio non vuole avvalersi della protezione di detto Paese.

Lo straniero che vuole fare domanda in Italia e ottenere lo status di rifugiato, dovrà rivolgersi a una delle 20 Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, che fanno capo al Ministero dell’Interno, che decideranno se accettare o meno la sua domanda.
Se la Commissione respinge la domanda di protezione il richiedente protezione può proporre ricorso alla Sezione del Tribunale specializzata in materia di immigrazione.

Il caso sottoposto alla Corte di Cassazione riguarda il diniego della protezione internazionale a una donna albanese che era stata costretta a sposarsi dalla sua famiglia e dall’ex fidanzato.
La Commissione Territoriale negò la protezione internazionale alla signora, perché ritenne il suo racconto “non credibile” e comunque ritenne che lo Stato di provenienza avesse adottato idonee forme di protezione nei confronti della donna.
Contro questo provvedimento la signora ha proposto ricorso dinanzi al Tribunale di Perugia dichiarando:

  • di essere fuggita dal proprio Paese perché la sua famiglia voleva imporle, attraverso forme di violenza fisica e psichica (culminate in minacce di morte), il matrimonio con un uomo più anziano di lei di circa vent’anni e incline alla violenza;
  • di aver richiesto due ordini di protezione: uno nei confronti del padre, l’altro dell’ex fidanzato, ottenendo temporaneamente soltanto il secondo;
  • di essere stata picchiata dalla madre e dal padre, e da quest’ultimo anche minacciata con armi da fuoco, detenute illegalmente;
  • di aver denunciato il padre per tale possesso illegale, facendolo condannare;
  • di aver appreso della scarcerazione del padre a seguito del pagamento dell’ammenda da parte dell’ex fidanzato, il quale aveva preteso, in cambio, la celebrazione del matrimonio, fissando anche la data;
  • di essere nuovamente fuggita per sottrarsi al matrimonio forzato, riparando presso un convento di suore che l’avevano già accolta in passato, e che erano riuscite a farla fuggire in Italia il giorno prima del matrimonio.

Il Tribunale di Perugia, a differenza della Commissione Territoriale, aveva ritenuto che il racconto della richiedente asilo fosse plausibile, coerente e privo di lacune logiche, e peraltro confermato da alcuni articoli dei media locali attestanti l’arresto del padre e dalla dichiarazione scritta resa dalla responsabile del convento presso il quale la donna aveva trovato rifugio.
Tuttavia, secondo il Tribunale, la condizione personale della richiedente non appariva riconducibile ad una situazione di persecuzione e non sussisteva nemmeno una condizione di danno grave, perché poteva ravvisarsi un danno grave se si fosse dimostrata l’applicazione, da parte della famiglia della richiedente, del codice del Kanun.
In alcune aree rurali del nord dell’Albania è infatti tuttora diffusa l’applicazione consuetudinaria di questo codice che identifica la posizione della donna subalterna rispetto a quella dell’uomo, ritenuta come “niente altro che un otre da riempire”.

Tuttavia, il Tribunale di Perugia ha ritenuto che la vicenda in esame non potesse essere riconducibile a un’ipotesi di applicazione del codice del Kanun. Quindi la storia narrata della giovane era stata ritenuta riconducibile “nell’ambito di una vicenda endofamiliare che, per quanto grave e allarmante, non integrava l’ipotesi di danno grave” richiesto dalla normativa italiana per la concessione della protezione internazionale.

Inoltre, la signora aveva ottenuto protezione da parte degli organi dello Stato di appartenenza. Per questi motivi il Tribunale aveva ritenuto che non potesse essere concessa alla donna la protezione di rifugiata.

La Corte di cassazione ha invece accolto il ricorso, ritenendo che, come già affermato in casi analoghi (Cass. 12333/2017, Cass. 16172/2021), la violenza fisica e psichica esercitata su una donna per costringerla al matrimonio, rappresenta un’ipotesi di violenza di genere, soprattutto nel caso in cui i comportamenti tenuti da padri e futuri mariti si conformino perfettamente, come in questo caso, al codice Kanun.

Secondo la Corte di cassazione il Tribunale di Perugia ha del tutto ignorato le norme contenute nella Convenzione di Istambul del 2011, ratificata ed entrata in vigore in Italia il 27.6.2013.
L’art. 3 della Convenzione definisce la violenza nei confronti delle donne come violazione dei diritti umani e forma di discriminazione, e comprende tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano, o sono suscettibili di provocare, danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica. Sulla base della Convenzione di Istambul gli Stati firmatari devono adottare le misure legislative necessarie per penalizzare l’atto intenzionale di costringere un adulto a contrarre matrimonio.
Inoltre, l’art. 60 della Convenzione, prevede che la violenza contro le donne, basata sul genere, possa essere riconosciuta come forma di persecuzione e che, in questi casi, debba essere concesso ai richiedenti asilo lo status di rifugiato.

Infine un capitolo specifico della Convenzione di Istanbul è dedicato a donne migranti e richiedenti asilo quali persone particolarmente esposte alla violenza di genere. La Convenzione fornisce agli Stati aderenti indicazioni precise per prevenire e perseguire le diverse forme di violenza di genere, riconosce la violenza sessuale e comunque di genere come una forma di persecuzione ai sensi della Convenzione di Ginevra.

 

Attività

Ancora oggi nel modo i matrimoni forzati espongono donne di ogni età a violenze e tragici destini. Fai una ricerca che approfondisca:

  1. Qual è la stima annuale dei matrimoni forzati nel mondo.
  2. In quali Stati è più frequente questa pratica
  3. Oltre alla Convenzione di Istambul anche l’Agenda 2030, obiettivo n. 5, vuole raggiungere l’uguaglianza di genere, anche attraverso l’eliminazione di pratiche abusive come il matrimonio forzato. Nello specifico, cosa dice l’Agenda 2030 su questo argomento?

 

Fonti per approfondire:

 

Riferimenti nei testi Zanichelli:

  • Monti-Faenza, Res publica 4ed, pp. 132, 451
  • Ronchetti, Diritto ed economia politica 4ed, vol. 3, pp. 49 -50, 378
  • Ronchetti, Diritto ed economia politica 4ed, vol. 1, pp. 230 ss

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