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  Il Parlamento Europeo salva il mercato delle “carni” vegetali: sì all’hambuger vegano

Si può usare il termine hamburger se si parla di un prodotto al 100% vegano o si tratta di un’informazione commerciale scorretta?

Il 23 ottobre 2020 il Parlamento Europeo si è pronunciato sull’emendamento n.171, la proposta di riforma che rischiava di modificare sostanzialmente un mercato in grande crescita: quello dei prodotti a base vegetale. La proposta era partita da una mozione della Commissione agricoltura dell’Unione Europea consistente nell’introduzione di un divieto, da applicare a tutti i prodotti contenenti più del 3% di proteine vegetali, di utilizzo di nomi riferibili al mercato della carne.

Il mercato dei prodotti a base vegetale, infatti, è in costante crescita. Capita sempre più spesso di trovarsi di fronte, sugli scaffali della grande e piccola distribuzione, ad alternative vegetariane o vegane ai classici prodotti a base di carne. Gli hamburger e le salsicce vegane di Beyond meat e impossible food sono esempi del nuovo trend alimentare, la cui crescita esponenziale preoccupa l’intero mercato carnivoro. Le pressioni per una riforma a livello legislativo, oltre che dalle istituzioni europee, provengono anche dai singoli Stati (in Italia, ad esempio, l’associazione Assocarni si era schierata a favore dei divieti).

A livello giuridico, la questione riguarda la tutela dei consumatori e la disciplina della concorrenza sleale o della frode in commercio.

Da un lato, si comprende come l’utilizzo di terminologie legate al mondo dei prodotti per carnivori possa confondere i consumatori rispetto agli ingredienti utilizzati e alla composizione dei prodotti. D’altro canto è chiaro che l’utilizzo di questi termini ha permesso agli imprenditori del settore plant-based di aggredire il mercato della carne, incuriosendo i consumatori proprio grazie al confronto con i prodotti carnivori.
La regolamentazione europea in materia si basa sul regolamento no 1308/2013 che, interpretato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, si basa sulla distinzione tra materie prime e modalità di preparazione. È possibile adottare gli stessi termini purché questi non si riferiscano alle materie prime utilizzate, bensì al modo in cui queste vengono trasformate per preparare il prodotto. Per comprendere la distinzione basti pensare ai surrogati dei prodotti caseari: da tempo il latte di soia o di avena vengono venduti con la dicitura “bevanda a base di” proprio per non ingenerare confusione sulle materie prime utilizzate.
In questo senso interpretativo la bistecca, il burger, il salame, la salsiccia, non sono denominazioni che identificano la materia prima utilizzata ma semplicemente la modalità di preparazione.

Il dibattito sull’introduzione di ulteriori divieti ha coinvolto, oltre agli imprenditori interessati, anche le associazioni che si battono per un’industria alimentare più sostenibile, intervenute per difendere la necessità di ridurre l’impatto ambientale dell’industria della carne e dei latticini.

La decisione del 23 ottobre lascia invariata la normativa europea ma ciononostante non chiude il dibattito sul tema, consentendo ai singoli Stati membri di introdurre regole più restrittive nei mercati interni.
Per quanto riguarda la concorrenza sleale, in Italia la normativa di riferimento resta l’art. 2598 del codice civile. Al n. 1) del primo comma infatti si qualifica come concorrenza sleale il comportamento di chi “usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente“.

 

Fonti per approfondire:

 

Riferimenti nei testi Zanichelli: 

  • Ronchetti, Diritto ed economia politica 4ed, vol. 2, pp. 13-14
  • Ronchetti, Diritto e legislazione turistica 4ed, vol. 1, pp. 318-324

 

 

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