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  Licenziata per un like su Facebook: violazione della libertà di espressione nel caso Melike c. Turchia

I fatti

La ricorrente è un’addetta alle pulizie con contratto a tempo indeterminato presso la Direzione Nazionale turca dell’Educazione di Adana. Nei suoi confronti era stato avviato un procedimento disciplinare per i “like” che aveva apposto ad alcuni contenuti di Facebook, pubblicati da terzi. La Commissione disciplinare per gli impiegati dell’istruzione nazionale aveva ritenuto che quei post fossero idonei a la pace e la tranquillità del luogo di lavoro, dal momento che contenevano accuse di stupro rivolte contro insegnanti, accuse a uomini dello Stato e politici.

Il giudizio nazionale

La ricorrente ha impugnato la sentenza con cui il Tribunale del lavoro di primo grado aveva confermato il licenziamento.
Ma il 13 ottobre 2017 la Corte d’appello ha respinto il ricorso ritenendo che la decisione fosse pertinente e conforme alla legge per quanto riguarda la procedura e il merito.
Contro questa ulteriore decisione sfavorevole la ricorrente ha fatto ricorso in Cassazione.
Secondo la ricorrente il datore di lavoro doveva spiegare in che modo i suoi “like” su Facebook avessero disturbato la pace e la tranquillità sul posto di lavoro. Inoltre, facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte e della Corte costituzionale turca, affermava che i “like” fossero coperti dal suo diritto alla libertà di espressione.
Ma anche la Corte Cassazione ha ritenuto il provvedimento di licenziamento pertinente e conforme alla legge.
A quel punto la ricorrente ha proposto un ricorso individuale alla Corte Costituzionale turca, che però lo ha dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza, ritenendo che la ricorrente non avesse adempiuto all’obbligo di presentare prove e spiegazioni a sostegno delle sue ragioni. Che quindi, a suo avviso, rimanevano infondate.

Il giudizio davanti alla Corte EDU

A seguito dell’esperimento di tutti i ricorsi interni, la donna decide di proporre ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, lamentando la violazione dell’art. 10 CEDU.
Si ricorda che l’art. 10 prevede:

  1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive.
  2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.

In particolare, la ricorrente sottolinea che Facebook permette agli utenti di mostrare il loro apprezzamento e sostegno per un contenuto senza la necessità di fare un commento scritto, ma attraverso il semplice “like”. Esso rappresenta quindi una forma di esercizio della libertà di espressione attraverso un gesto simbolico.
Ora, la ricorrente è una dipendente pubblica senza alcun obbligo specifico di neutralità e imparzialità, e l’atto apporre un “like” non aveva alcuna attinenza con l’adempimento dei suoi doveri professionali sul posto di lavoro. Piuttosto, l’atto rientrava nel diritto del lavoratore dipendente di avere opinioni critiche nei confronti delle autorità, e deve quindi essere esaminato secondo i principi generali della libertà di espressione.

La questione principale del caso consiste quindi nell’accertare se lo Stato convenuto (Turchia) avesse l’obbligo di garantire il rispetto della libertà di espressione della ricorrente annullando il suo licenziamento.

Il compito della Corte è quindi quello di determinare se la sanzione imposta alla ricorrente fosse proporzionata e se le ragioni addotte dalle autorità nazionali per giustificarla fossero “pertinenti e sufficienti”.
La Corte ricorda a questo proposito che, per prosperare, i rapporti di lavoro devono essere basati sulla fiducia tra gli individui. La buona fede che deve essere osservata nel contesto di un contratto di lavoro non implica un dovere di fedeltà assoluta al datore di lavoro o un obbligo di riserva che comporta la sottomissione del lavoratore agli interessi del datore di lavoro. L’uso dei “mi piace” sui social, considerato come un mezzo per mostrare interesse o approvazione di un contenuto, costituisce, in quanto tale, una forma comune di esercizio della libertà di espressione online.

Analizzando le decisioni dei giudici nazionali, la Corte osserva innanzitutto che non sembrassero aver esaminato il contenuto del materiale contestato in modo sufficientemente approfondito o il contesto in cui ha avuto luogo. E il contenuto consisteva in virulente critiche politiche alle presunte pratiche repressive delle autorità, inviti e incoraggiamenti a manifestare per protestare contro tali pratiche, espressioni di indignazione per l’assassinio del presidente di un’associazione di avvocati, denunce di presunti abusi nei confronti di alunni in istituti sotto il controllo delle autorità e una brusca reazione a una dichiarazione, considerata sessista, di una nota figura religiosa.
La Corte, dunque, osserva che si trattava di questioni di interesse generale, facenti parte del dibattito sollevato in quel particolare contesto. Ricorda a questo proposito che l’articolo 10 § 2 della Convenzione lascia poco spazio alle restrizioni della libertà di espressione in due settori: i discorsi politici e le questioni di interesse generale.
Osserva inoltre che, data la natura della sua posizione, la ricorrente non poteva che avere una reputazione e una rappresentatività limitate nel suo posto di lavoro e che le sue attività su Facebook non potevano avere un impatto significativo sugli alunni, i genitori degli alunni, gli insegnanti e gli altri dipendenti.
Per quanto riguarda la severità della sanzione inflitta alla ricorrente, la Corte rileva che l’autorità disciplinare, la cui decisione è stata approvata dai giudici nazionali, ha applicato la sanzione massima prevista dal contratto collettivo di lavoro, vale a dire la risoluzione immediata del contratto senza diritto all’indennità. Non c’è dubbio una simile sanzione sia estremamente severa, soprattutto in considerazione dell’anzianità di servizio della ricorrente e della sua età.

Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, la Corte conclude che, in mancanza di una motivazione pertinente e sufficiente a giustificare la misura del licenziamento, i giudici nazionali applicato norme non conformi all’articolo 10 della Convenzione.
In ogni caso, non vi è alcun ragionevole rapporto di proporzionalità tra l’ingerenza nell’esercizio del diritto della ricorrente alla libertà di espressione e lo scopo legittimo perseguito dalle autorità nazionali.

 

Attività:

La sentenza Melike c. Turkia si concentra sul diritto di espressione e sull’uso dei social, quale concretizzazione di tale diritto. Dopo aver letto l’articolo, prova a svolgere una ricerca sul diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero nel contesto nazionale italiano, cercando di rispondere ai seguenti punti (o aggiungendone anche di ulteriori):

  • quale articolo garantisce il diritto di espressione nella Costituzione italiana?
  • quali sono i limiti all’esercizio di questo diritto?
  • quale è il rapporto tra questo diritto e l’uso dei social network?

Ciascuna risposta non deve superare le 15 righe.

 

Fonti per approfondire: 

 

Riferimenti nei testi Zanichelli:

  • Monti-Faenza, Res publica 4ed, p.79
  • Ronchetti, Diritto e legislazione turistica 4ed, vol. 2, p. 49
  • Ronchetti, Diritto ed economia politica 4ed, vol. 3, p. 49

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