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  Una (non) pronuncia della Cassazione sulla suddivisione per “uomini e donne” delle liste elettorali

Con la sentenza n. 9428 del 2024, la Corte di Cassazione ha dato risposta a un ricorso proposto da due cittadini contro la classificazione in “uomini” e “donne” delle liste e degli elenchi elettorali, disposta dal d.P.R. n. 223 del 1967.

Secondo i ricorrenti, la divisione tra uomo e donna nelle liste elettorali comprometterebbe il libero e incondizionato esercizio del diritto di voto, costringendo le persone che non si riconoscono in quella dicotomia a conformarsi ad un’identità che non riconoscono come propria, così violando il loro diritto all’identità di genere. In ogni caso, poi, la necessità di conformarsi ad una delle due liste avrebbe costretto a rivelare pubblicamente la propria identità (a fare un coming out forzato) violando così il diritto alla riservatezza e alla protezione dei dati personali, senza che ciò sia in nessun modo necessario ai fini dell’esercizio del diritto di voto.

La vicenda giunta in Cassazione è nata dalle istanze con cui due persone avevano chiesto alla Commissione Elettorale Circondariale di Bologna di essere iscritti nelle liste elettorali comunali senza essere inseriti nelle due liste connotate in base alla suddivisione per genere. La Commissione bolognese aveva rigettato la richiesta, non essendo nella sua disponibilità la definizione dei criteri di formazione delle liste elettorali, stabiliti dal testo unico delle leggi per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorale, approvato con d.P.R. n. 223 del 1967.

Preso atto del rifiuto della Commissione, i due istanti si erano rivolti alla Corte d’Appello di Bologna, a cui avevano chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale. Il nostro ordinamento, infatti, non prevede la possibilità per i cittadini di riferire direttamente alla Corte costituzionale un dubbio di costituzionalità. Salvo il caso del ricorso in via principale riservato allo Stato e alle Regioni, infatti, le questioni di legittimità costituzionale possono essere proposte alla Corte costituzionale solo da un giudice, nel corso di un giudizio (in via incidentale). Oltre che sua iniziativa (d’ufficio), però, la questione può essere sollevata (sempre dal giudice a quo) anche su istanza delle parti del giudizio. È questo quello che hanno fatto i due “istanti” bolognesi, chiedendo alla Corte d’Appello di rivolgere alla Corte costituzionale il dubbio di legittimità costituzionale della suddivisione binaria in “uomini e donne” delle liste elettorali.

Il testo unico approvato con d.P.R. n. 223 del 1967, oggetto dei dubbi dei ricorrenti, è un tipico caso di “testo unico compilativo”, che raccoglie e unifica in un unico “contenitore” disposizioni attinenti ad una medesima materia, anche se introdotte da atti normativi preesistenti (in questo caso, soprattutto dalla legge 7 ottobre 1947, n. 1058, art. 4, comma 1 e 2, e dalla legge 22 gennaio 1966, n. 1). Per questo motivo le sue disposizioni possono oggetto di un ricorso di legittimità costituzionale in via incidentale dinnanzi alla Corte costituzionale ai sensi dell’art. 134 Cost.

La Corte d’Appello di Bologna, però, ha rigettato l’istanza (con ordinanza n. 773/2023), ritenendola priva del requisito dell’incidentalità. Secondo la Corte d’Appello, infatti, la questione di legittimità costituzionale si sarebbe interamente sovrapposta all’oggetto del giudizio in corso, privando, eliminando qualsiasi margine decisionale a seguito di un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità.

Contro il rigetto della Corte d’Appello, gli istanti hanno nuovamente proposto ricorso, questa volta rivolgendosi alla Corte di Cassazione che, però, lo ha di nuovo rifiutato. Anche secondo la Cassazione, infatti, non sarebbe possibile sollevare questione di legittimità costituzionale per l’assenza del necessario requisito della rilevanza.

Per poter adottare una ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, infatti, il giudice deve valutare la sussistenza di due requisiti di ammissibilità. Uno di questi è quello detto della rilevanza, in base al quale, una questione può essere sollevata solo nel caso in cui la soluzione del dubbio di costituzionalità sia necessaria per poter decidere il caso da cui è sorta (nel senso che la disposizione censurata deve necessariamente essere applicata in quel giudizio).

Per la Cassazione, infatti, la lesione del libero esercizio del diritto di voto lamentata dai ricorrenti non deriva direttamente dalla disposizione censurata, che riguarda solo lo svolgimento di attività (interne) di carattere amministrativo, ma dalla prassi dell’incolonnamento in fila per genere (che però è a sua volta conseguenza della divisione uomo/donna delle liste elettorali).

 

Attività

Abbiamo detto che, per poter sollevare, con ordinanza di rimessione, una questione di legittimità alla Corte costituzionale, il giudice a quo deve valutare la sussistenza di due requisiti di ammissibilità. Uno di questi è quello della rilevanza. Qual è l’altro?

 

Riferimenti nei testi Zanichelli:

  • Ronchetti, Diritto ed economia politica 5ed., vol. 3, p. 19
  • Monti, Per Questi Motivi, Vol. 3, p. 104

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