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  Nuova direttiva Ue sulla parità retributiva: le aziende dovranno indicare lo stipendio prima dell’assunzione

La Costituzione italiana, agli articoli 3 e 37, già dal 1948 impone la parità di genere e, in particolare, l’art. 37 Cost. dispone che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.
Il principio della parità di genere è anche ribadito da diverse fonti  interne, europee e internazionali.
Tuttavia, in ambito retributivo, si assiste ancora a un significativo gender gap che si manifesta sotto diverse forme (si veda a tal proposito questo contributo).

La recente direttiva europea n. 2021-0050 dell’11 aprile 2023 si basa sull’assunto che la piena applicazione del principio della parità retributiva è ostacolata anche dalla mancanza di trasparenza sui sistemi retributivi. Una maggiore trasparenza permetterebbe infatti ai lavoratori di individuare prontamente eventuali pregiudizi e discriminazioni di genere, garantendo l’applicazione del diritto alla parità di retribuzione. Ad oggi, infatti, i lavoratori non dispongono sempre delle informazioni necessarie per presentare un ricorso in materia di parità di retribuzione che abbia buone possibilità di successo, perché non esiste un’effettiva trasparenza sui livelli retributivi.

Che cosa prevede la direttiva

Per questi motivi, l’articolo 4 della direttiva Ue, impone agli Stati membri di adottare le misure necessarie per garantire che i datori di lavoro dispongano di sistemi retributivi che assicurino la parità di retribuzione per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.

Inoltre, l’articolo 5 della direttiva Ue, sancisce la trasparenza retributiva prima dell’assunzione, stabilendo che i candidati a un impiego hanno il diritto di ricevere, dal potenziale datore di lavoro, informazioni sulla retribuzione iniziale, sulla base di criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere.

Si stabilisce anche che il datore di lavoro non può chiedere ai candidati informazioni sulle retribuzioni percepite negli attuali o nei precedenti rapporti di lavoro.

Infine, i datori di lavoro, dovranno preoccuparsi che gli avvisi di posto vacante e i titoli professionali siano neutri sotto il profilo del genere e che le procedure di assunzione siano condotte in modo non discriminatorio.

Sempre al fine di perseguire la trasparenza dei criteri retributivi l’articolo 6 della direttiva Ue richiede che i datori di lavoro rendano facilmente accessibili ai propri lavoratori i criteri utilizzati per determinare la retribuzione, i livelli retributivi e la progressione economica dei lavoratori. Tali criteri devono essere oggettivi e neutri sotto il profilo del genere.

Viene infine garantito ai lavoratori il diritto all’informazione permettendogli di richiedere e ricevere per iscritto informazioni sul loro livello retributivo individuale e sui livelli retributivi medi, ripartiti per sesso, delle categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore (art. 7 direttiva Ue).

Sulla base della direttiva in analisi, gli Stati membri dovranno raccogliere dai datori di lavoro i dati relativi al divario retributivo della loro organizzazione. Qualora si evidenzi un divario retributivo superiore al 5 %, non motivato dal datore di lavoro sulla base di criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere, dovranno essere adottate delle correzioni volte a eliminare la discriminazione retributiva entro un termine ragionevole.

Dovranno poi essere introdotte dagli Stati membri delle sanzioni efficaci e dissuasive nel caso in cui venga violato dai datori di lavoro il diritto alla parità di retribuzione tra uomini e donne. Fermo restando il diritto dei lavoratori a ottenere un risarcimento che vada  a coprire integralmente i danni subiti a causa della discriminazione retributiva basata sul genere. Tale risarcimento dovrà porre il lavoratore nella posizione in cui si sarebbe trovato se non fosse stato discriminato in base al sesso, e quindi dovrà comprendere il recupero integrale delle retribuzioni arretrate e dei relativi bonus o pagamenti in natura e il risarcimento per le opportunità perse.

La parità di genere nelle fonti europee e internazionali

L’articolo 2 e l’articolo 3, paragrafo 3, del trattato sull’Unione europea (TUE) sanciscono il diritto alla parità tra donne e uomini quale valore fondamentale dell’Unione. Anche gli articoli 8 e 10 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), enunciano che l’Unione mira a eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità tra uomini e donne e a combattere le discriminazioni fondate sul sesso in tutte le sue politiche ed azioni. Il TFUE (articolo 157, paragrafo 1) pone in particolare l’obbligo per ciascuno Stato membro di assicurare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, ed è prevista l’adozione, da parte dell’Unione, di misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne a livello lavorativo, che comprende il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore (articolo 157, paragrafo 3, TFUE).

A livello internazionale, l’articolo 11 della Convenzione delle Nazioni Unite del 18 dicembre 1979, al fine di eliminare ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, sancisce che gli Stati devono adottare tutte le misure appropriate per assicurare il diritto alla parità di retribuzione. Infine, il goal 5 dell’Agenda 2030 è volto a raggiungere la parità di genere e il goal 8, su lavoro dignitoso e crescita economica, mira a raggiungere, entro il 2030, la parità di retribuzione per lavoro di pari valore (sotto-obiettivo 8.5).

Un datore di lavoro può retribuire in modo diverso i lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore, ma solo sulla base di criteri oggettivi – come le differenti competenze – evitando quindi discriminazioni di genere. Purtroppo però il divario retributivo di genere nei Paesi dell’Unione europea persiste: nel 2020 era intorno al 13% (con delle variazioni significative tra gli Stati membri), e negli ultimi dieci anni si è ridotto solo in misura minima.

 

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Ecco un esempio:

 

Fonti per approfondire:

 

Riferimenti nei testi Zanichelli:

  • Monti-Faenza, Res publica 4ed, pp. 112-114
  • Ronchetti, Diritto ed economia politica 5ed, vol. 1, p. 233
  • Ronchetti, Diritto ed economia politica 5ed, vol. 2, p. 347
  • Ronchetti, Diritto ed economia politica 5ed, vol. 3, p. 106 – 108

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