Arte e architettura per non dimenticare: il Museo Ebraico di Berlino
Ieri, 27 gennaio, è stato il Giorno della Memoria, una data per ricordare la Shoah, lo sterminio del popolo ebraico avvenuto tra il 1938 e il 1945.
Ma non voglio parlarvi di quella tragedia, immagino che lo abbiate già fatto con i vostri insegnanti. Voglio mostrarvi, invece, come l’arte e l’architettura sappiano raccontare, anche senza parole, tutto l’orrore dell’Olocausto.
Per farlo vi porto a Berlino, la capitale della Germania. Là c’è un museo speciale, diverso da ogni altro che avete visitato. È il Museo Ebraico (1992-2001), un edificio progettato da Daniel Libeskind, architetto polacco appartenente a una famiglia ebraica decimata dallo sterminio.
L’edificio, che costituisce l’ampliamento di un precedente museo tradizionale, ha una forma insolita: visto dall’alto somiglia a una linea spezzata e spigolosa, una sagoma che ricorda la tormentata storia del popolo ebraico.
Secondo alcuni richiama anche una stella di David frantumata.
Sono insolite anche le finestre, che sembrano tagli profondi lungo le pareti rivestite in metallo. Questi elementi simboleggiano, in modo visivo, le ferite sofferte dal popolo ebraico nel secolo scorso. Le finestre però non sono tagli casuali perché le loro linee rappresentano la mappa delle abitazioni degli Ebrei a Berlino.
Viste dall’interno non permettono di vedere la città, lasciando il visitatore immerso negli spazi del museo.
Oggi l’esposizione racconta la travagliata storia degli Ebrei in Germania dall’epoca romana fino ai nostri giorni. Ma, quando è stato aperto, il museo era completamente vuoto e ancora adesso mantiene grandi spazi svuotati da ogni cosa.
Anche il percorso fa parte dell’esposizione: camminare in un luogo dove è difficile orientarsi è un modo per riflettere sulla Shoah.
Lo spazio vuoto rappresenta il vuoto lasciato dagli Ebrei di Berlino deportati nei campi di concentramento.
Le superfici sono spesso nude, in cemento. La struttura appare inospitale e non c’è mai un punto in cui si possa avere una visione d’insieme.
Ma tutto questo è voluto. Un Museo che ricorda lo sterminio degli Ebrei non può essere un luogo bello e divertente.
È un luogo per pensare e per conoscere attraverso forti emozioni, anche fisiche.
Tutti gli spazi del museo hanno un significato simbolico: il Giardino dell’Esilio, con le sue 49 torri di cemento alte 6 metri e inclinate di 12°, rappresenta il disorientamento degli ebrei che hanno dovuto lasciare la loro patria per andare in esilio (per aumentare la sensazione di smarrimento il pavimento è inclinato di 6°).
In cima alle torri sono stati piantati degli olivi selvatici, alberi della pace, ma anche simboli di come si possano mettere radici anche in luoghi difficili come le terre nelle quali si è esiliati.
Visti dal basso, camminando tra le torri, sono la più bella espressione della libertà.
Ma l’opera d’arte più suggestiva è un’installazione che riempie tutto il pavimento di uno dei grandi vuoti interni. Si chiama Shalechet, cioè “foglie cadute” in lingua ebraica, ed è stata realizzata dall’artista israeliano Menashe Kadishman.
È composta da 10.000 volti in acciaio che rappresentano tutte le vittime di guerre e di violenze, non solo quelle della Shoah.
I visitatori, camminando sui volti, li fanno stridere tra loro producendo un rumore insopportabile, che richiama in modo sonoro lo strazio di urla angosciose.
Oggi questi volti ci commuovono ancora. Perché sono quelli di chi ha perso la vita nelle guerre e nei genocidi, ma sono anche quelli di chi affoga in mare nella speranza di un futuro migliore.
Molte belle le foto e una dettagliata scrittura